3° Convegno Provinciale Cidi-Proteo “Insegnare della scuola delle riforme”
Brindisi, 14 – 15 gennaio 2004
Relazione d’apertura
Fernando Cocciolo C’è
– credo – una relazione molto stretta tra come si vede la scuola e come
si vede la professione docente. Voglio dire che la visione della scuola
(la missione che alla scuola si attribuisce e la visione che l’accompagna)
condiziona fortemente, insieme con altri fattori, naturalmente, il modo
di esercitare il mestiere di insegnare, la funzione stessa – per così
dire – dell’insegnare. Queste due giornate vogliono essere appunto l’occasione per discutere sui nodi principali della legge di riforma e dei vari documenti collegati (dalle Indicazioni Nazionali per i Piani di studio personalizzati nella scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di 1° grado al Portfolio educativo, culturale e professionale dello studente, allo schema del primo decreto legislativo di attuazione, ecc.) ed in particolare per riflettere sulla funzione docente nella prospettiva dei cambiamenti previsti. Anche quest’anno possiamo contare, come nei due precedenti convegni del CIDI, su un protagonista assai accreditato (uno soltanto, a questo punto, vista l’assenza improvvisa di Missaglia) del dibattito attuale sulla riforma del nostro sistema di istruzione e formazione. Vorrei ricordare la presenza al 1° Convegno, quello di ricostituzione, dopo molti anni, del CIDI – Brindisi, di Alba Sasso e di Giancarlo Cerini; e al 2°, nell’anno scolastico scorso, gli interventi di Luciano Corradini e di Sofia Toselli. A questo 3° Convegno, che nasce dalla collaborazione tra CIDI e PROTEO Fare Sapere, abbiamo invitato Dario Missaglia e Domenico Chiesa che, da osservatorî diversi, sono, come dicevo, tra gli analisti più rigorosi e documentati della riforma e dei suoi “dintorni”. Siamo veramente rammaricati che Missaglia non abbia potuto essere con noi; ma gli siamo comunque grati per la disponibilità immediata che sia lui sia Domenico Chiesa ci avevano dato e per la presenza che, come dicevo, solo il presidente nazionale del CIDI ci garantisce per domani. Questa disponibilità, questa attenzione, ci paiono un riconoscimento all’impegno “culturale” con il quale CIDI e Proteo si sforzano di tenere alto il livello della riflessione e vivo il dibattito sulla scuola e sulla professione docente, in una provincia nella quale quelli che dovrebbero essere i servizi di supporto ai docenti, alla didattica e alla ricerca educativa delle scuole autonome sono, purtroppo, del tutto inconsistenti ed inutili allo scopo: per ragioni diverse, mai affrontate, anzi volutamente eluse e quindi sempre più incancrenite. Su tali ragioni bisognerà riflettere, con serietà ed onestà intellettuale. Ma la riconosciuta efficacia dell’attività del CIDI Brindisi in questi anni, che si esplica, attraverso iniziative modalità e strumenti diversificati, come attività di servizio e come offerta di supporto qualificato alla professione docente e alla ricerca organizzativa, educativa e didattica delle scuole, è assai confortante. E viene, stasera, ulteriormente confermata dalla partecipazione così ampia e qualificata di docenti e dirigenti scolastici a questo convegno. Allora,
se siete un po’ benevoli nei miei confronti e mi perdonate se procederò
un po’ per assiomi e un po’ per argomentazioni più estese, a me pare
di poter concordare con quanti vedono confrontarsi esplicitamente nel
nostro paese due modelli di società, cui corrispondono sostanzialmente
due modelli di scuola:
1)
Il primo è un modello fondato
su una flessibilità senza regole, o con poche e deboli regole, diciamo
un modello fondato sul mercato, che orienta le scelte e nel quale, soprattutto,
è la dimensione individualistica a caratterizzare i rapporti
tra le persone, i rapporti di lavoro, i rapporti tra le persone e le
istituzioni, le forme organizzate della vita associata;
2)
Il secondo è un modello sociale
in cui il mercato e le relazioni generali si realizzano e assumono senso
in rapporto con lo sviluppo delle sicurezze materiali, dei diritti sociali,
della condivisione, della responsabilità, della partecipazione, della
solidarietà come collante sociale del nostro tempo. Ne
derivano, evidentemente, definizioni diverse del ruolo della scuola
e della funzione docente. Personalmente,
non ho alcuno spirito di demonizzazione nei confronti della riforma
Moratti, e non ho, non abbiamo noi del CIDI, alcuna
intenzione di limitare il confronto con essa a mere ragioni ideologiche.
Sono convinto, invece, che con la scuola della riforma dobbiamo confrontarci
a diversi livelli, e dobbiamo farlo su un piano più evoluto, ad ogni
livello: storico, pedagogico, sociale, culturale, professionale; ma
anche metodologico, didattico, organizzativo, formativo; e anche sugli
impianti disciplinari, ovviamente, come ci proponiamo di fare presto
in appositi incontri seminariali, ammesso che
quegli impianti diventino qualcosa di più che delle semplici note al
di fuori delle procedure previste dalla stessa legge delega. Riteniamo
importante che le scuole, i docenti si misurino sui contenuti culturali
e didattici delle indicazioni, che le confrontino non solo con i programmi
attuali ma con le elaborazioni migliori di questi anni (che provengono
quasi sempre delle scuole e dei docenti stessi, non lo dimentichiamo!);
e con le elaborazioni e gli orientamenti espressi dal mondo della ricerca
e dalle associazioni professionali e disciplinari: che sono notoriamente
organismi piuttosto seri e competenti. E forse
per questa ragione, oggi del tutto inascoltati. Con
la scuola della riforma, comunque, è professionalmente
giusto ed opportuno confrontarsi. D’altronde,
come scriveva Umberto Eco qualche giorno fa su un quotidiano, «un dato
di fatto è un dato di fatto, ci piaccia o non ci piaccia, e i dati di
fatto sono tali proprio perché sono indipendenti dalle nostre preferenze
(ti è morto il gatto? è morto, ti piaccia o no) ». Eco, nel suo articolo, si riferiva
alla concentrazione di potere mediatico in Italia nelle mani di una
sola persona, che è un dato di fatto come per
noi è un dato di fatto la Legge 53, con i decreti applicativi che, prima
o poi, l’accompagneranno: ed è con quella legge che oggi dobbiamo misurarci,
è all’interno di quei decreti che dovremo domani esercitare la nostra
autonomia professionale; è per la definizione migliore possibile di
essi che dovremo essere attenti e capaci di avanzare proposte. Il
CIDI ha svolto negli ultimi mesi un intenso lavoro di
analisi dei testi ministeriali, dalla Legge 53 alle “Indicazioni”,
allo schema del primo decreto applicativo. A questo lavoro di riflessione,
e ai documenti che ne sono scaturiti, farò quindi esplicito riferimento
e ricorso nel mio intervento. Una
prima considerazione da fare è che la riforma poggia su principi piuttosto
estranei alla scuola italiana moderna, come si è andata sviluppando
almeno dall’istituzione della scuola media unica in avanti. A
cominciare da un aspetto che, per la nostra consuetudine di
attenzione, di disponibilità e di responsabilità, potremmo essere
indotti a considerare, alla fin fine, come scarsamente incidente nei
contesti scolastici reali, ma che rappresenta invece un vero e proprio
stravolgimento della relazione tra scuola e famiglia quale oggi la intendiamo:
mi riferisco a questo singolare rappresentarsi della famiglia quasi
come contrapposta all’autonomia della scuola o come contrappeso, se
volete, all’autonomia della scuola: una sorta di “familismo liberista”
– ha osservato qualcuno - evidente non solo nella possibilità di richiedere
individualmente (o non richiedere) attività aggiuntive (che sono, appunto,
facoltative e opzionali rispetto al monte ore annuale d’obbligo),
ma presente anche – ed in maniera prevedibilmente pesante – là dove
non se ne sentirebbe affatto il bisogno: per esempio, nella elaborazione
del Portfolio delle competenze individuali. Così
da un lato la scuola, pubblica, rischia di configurarsi come
un servizio a domanda individuale e di vedere sempre più impallidire
la sua connotazione di luogo di partecipazione e di
esercizio di un diritto collettivo; dall’altro lato, la famiglia-risorsa
o i genitori-risorsa (come oggi tendiamo a considerarli) rischiano di
perdere ai nostri occhi questa utile, talvolta preziosa funzione e di
trovarsi di fronte agli insegnanti su un terreno di impropria collusione
di responsabilità educative, che invece - secondo noi - devono rimanere
distinte. E
lo stesso Portfolio, che potrebbe essere uno strumento utile ed interessante,
se inteso come ricerca di modalità nuove di
descrizione processuale e di promozione delle competenze degli allievi,
rischia non solo di trasformarsi in uno spazio amministrativo e burocratico
destinato ad influenzare in modo non corretto le successive valutazioni
e, in certi casi, a segnare il percorso di istruzione e formazione del
bambino, sancendone precocemente il destino, scolastico almeno; ma anche
di diventare terreno di contrattazione/negoziazione continua (dalla
collusione al conflitto) tra scuola e famiglia.
Un
altro aspetto-chiave, che non può dirsi propriamente
nuovo né estraneo alla scuola attuale, ma che nei documenti di riforma
si presenta come nettamente dislocato rispetto alla nostra sensibilità,
è quello che riguarda la cosiddetta personalizzazione. Noi
temiamo che anche il continuo richiamo alla personalizzazione dei piani
di studio o alla personalizzazione delle attività o ai piani personalizzati,
faccia prevalere una idea di scuola come puro
servizio alla persona o alle famiglie, orientata piuttosto ad andar
dietro ad interessi individuali che a dare risposte significative a
bisogni collettivi, sminuendo il senso e la funzione del sistema educativo
pubblico e riducendolo ad una specie di continua contrattazione tra
parti. Soprattutto
temiamo che, progressivamente, scolorisca l’idea della scuola come luogo
privilegiato (e in tante realtà territoriali pressoché unico) di partecipazione,
di aggregazione, di impulso culturale: come
luogo in cui si costruisce e si esercita uno dei diritti fondamentali
di una comunità. La questione, però, merita qualche postilla di natura, diciamo, professionale e didattica: noi non possiamo che apprezzare il richiamo dei testi ministeriali a porre la necessaria attenzione alle caratteristiche cognitive degli allievi, agli stili di apprendimento, alle attitudini e alle motivazioni. Direte che tutto questo fa parte integrante della professionalità di ogni docente: e questo è certamente vero. Tuttavia, sappiamo che nei contesti reali di insegnamento-apprendimento il principio della individualizzazione, introdotto dalla legge 517/77, non è tanto semplice da applicare, perché si tratta di gestire un insegnamento individualizzato, non individuale: un insegnamento cioè che si colloca nel contesto sociale della classe. Per
noi quindi l’insegnamento individualizzato è un principio-guida,
un principio regolativo ed agisce non su un piano “strutturale”
ma sul piano metodologico, sul piano delle strategie e delle tecniche
didattiche, sulle modalità della comunicazione
educativa e della interazione verbale in classe, sulla scelta degli
strumenti e dei materiali. Noi infatti, nella pratica scolastica consueta, facciamo riferimento
al concetto di individualizzazione dell’insegnamento/apprendimento soprattutto
nei casi di svantaggio, genericamente inteso: deprivazione socio-culturale,
socio-linguistica, economica, disadattamento, ecc. (handicap, naturalmente,
che può contare anche su altri supporti). L’obiettivo,
come ben sapete, è assicurare a tutti il diritto
ad apprendere e di sviluppare le capacità e i livelli di apprendimento,
agendo appunto, attraverso scelte metodologiche e strategie didattiche
coerenti, sulle potenzialità e sulle caratteristiche di ognuno. Ma
se questa finalità, alla quale la scuola deve tendere con convinzione,
responsabilità e competenza sempre maggiori, diventa una scelta di impianto “strutturale”, allora cambia profondamente il senso
e l’obiettivo della cosiddetta “personalizzazione”. Abbiamo
la sensazione che definire, nel titolo, gli indirizzi curricolari come
INDICAZIONI NAZIONALI PER I PIANI PERSONALIZZATI comporti
un rischio molto serio: quello di legittimare, già dai livelli
scolari più bassi, attraverso i piani personalizzati, la diversificazione
dei percorsi e dei risultati, rimandando, per fare un esempio, a classi
o gruppi di allievi stabilmente distinti per livelli di capacità e di
apprendimento, per interessi, attività, per motivazione, ecc. Temiamo
cioè, su un terreno di fondamentale importanza
per il successo formativo degli alunni, il riproporsi di un atteggiamento
non infrequente nella nostra professione: mi riferisco – possiamo dircelo
apertamente – a quella tendenza alla “semplificazione” del concetto
di valutazione o ad un certo “pressappochismo” valutativo, cui tutti
siamo più o meno esposti. Va
assolutamente sottolineato – attenzione - che
nei documenti ministeriali le differenze sono – giustamente - sempre
richiamate in positivo e che lo scopo dichiarato è quello di favorire
il massimo sviluppo personale. Tuttavia
il rischio che la personalizzazione si traduca
in una scuola tendenzialmente organizzata per classi o gruppi omogenei,
secondo noi, esiste, anche in considerazione delle successive scelte
di studio, visto come è strutturato il nuovo sistema di istruzione e
formazione. Un
esempio: il monoennio (l’anno, insomma, ma apprezziamo la creatività
linguistica ministeriale) finale della scuola secondaria di primo grado
(la scuola media attuale) ha, nell’articolazione dei cicli e dei periodi
scolastici previsti dalla riforma, una funzione specificamente orientativa
verso i due contrapposti canali di istruzione/formazione:
da un lato il sistema dei licei, dall’altro il sistema della formazione
professionale; e anche verso una terza via – chiamiamola così - molto
nebulosa e tutta da definire (come qualsiasi terza via, del resto),
che è quella dell’alternanza scuola/lavoro. Allora la domanda, probabilmente non tanto peregrina, che possiamo farci è la seguente: come si regoleranno le scuole dal punto di vista organizzativo? intendo sia dal punto di vista della formazione delle classi sia nella organizzazione didattica, per il terzo anno di scuola media? Non è piuttosto facile ipotizzare scorciatoie di canalizzazione ultra-precoce (ancora più precoce di quanto la legge già preveda), per cui, ad esempio, le classi, terminato il biennio, terminati i primi due anni di scuola media, potrebbero essere scomposte e ricostituite sulla base delle scelte previste o presumibili per il dopo terza media? Mi pare un’ipotesi non tanto campata in aria: con tutte le conseguenze che avrebbe su diversi piani. Un’altra
dibattuta questione, su cui vorrei soffermarmi brevemente, riguarda
il tempo scuola e, ad essa connessi, taluni
aspetti dell’impianto culturale della scuola di base. [Sulla
secondaria di 2° grado non abbiamo ancora nulla,
come sapete, né riguardo al tempo né riguardo agli impianti disciplinari]
Noi
riteniamo assolutamente giusto e prioritario riflettere sui saperi e
sulle conoscenze fondamentali; pensiamo che una scuola, che gli insegnanti
debbano essere sempre più attenti alla selezione dei contenuti, disciplinari
e trasversali, sulla base della essenzialità,
della irrinunciabilità; condividiamo la percezione che la scuola si
sia sovraccaricata in questi anni di funzioni genericamente educative
o socializzanti a scapito della sua preminente funzione di istruzione
e formazione culturale. Abbiamo messo in guardia, da lungo tempo ormai,
le scuole e i colleghi dal conformarsi ad un modello, a
una “moda” (in rapida diffusione, per altro) per cui l’accessorio (l’integrativo,
l’extracurricolare, …) diventava fondamentale, mentre il fondamentale
(il curricolo, le competenze disciplinari, linguistiche, matematiche,
…) tendeva a diventare marginale, residuale rispetto a interessi altri. Ma
ci chiediamo se un curricolo essenziale possa qualificarsi per la riduzione
del tempo scuola o per una manovra di semplice alleggerimento e sfoltimento
dei contenuti disciplinari; o non debba piuttosto qualificarsi, attraverso
l’autonoma elaborazione delle scuole autonome - in questo modo caratterizzandosi
esse stesse scuole come veri laboratori di ricerca professionale e di
azione didattica – non debba qualificarsi piuttosto, dicevo,
nella individuazione di percorsi significativi di apprendimento nei
diversi ambiti del sapere, capaci di stimolare operazioni cognitive,
formative, e quindi autenticamente orientanti e permanenti, di interpretare
le dimensioni dell’affettività, della creatività, dell’espressività,
della riflessività, di arricchire i linguaggi e le modalità comunicative,
di fornire metodi e strumenti efficaci per studiare, per comprendere,
per apprendere. Noi
pensiamo che sia questa seconda la strada giusta. Ecco
perché la riduzione dei tempi scolastici obbligatori, che è piuttosto
netta al di là delle recenti rassicurazioni ministeriali sul tempo
pieno e prolungato [ma come possano essere salvati, se non rinunciando
all’impianto generale, io non riesco a vedere], rassicurazioni successive
alla pronuncia molto critica del Consiglio Nazionale della P.I. e al
malcontento di molte associazioni dei genitori, questa riduzione, dicevo,
non potrà che rendere povero e debole il curricolo ed estremamente aleatoria
la possibilità di realizzare esperienze didattiche di qualità per
tutti, assicurando cioè ad ogni allievo l’integrazione tra sollecitazioni
operative, culturali, sociali e la progressiva, graduale organizzazione
delle conoscenze. Credo
che agli insegnanti apparirà del tutto evidente la
oggettiva difficoltà di garantire un insegnamento “personalizzato”
in un tempo scuola obbligatorio comune ridotto a 27 ore, per
altro nettamente distinto da quello facoltativo, dedicato ad
attività di laboratorio, espressive, ecc. Questa
distinzione desta legittime perplessità: in primo luogo, per la diversa
configurazione giuridica dei tempi della scuola – che può rendere marginale
e poco appetibile l’offerta formativa aggiuntiva della scuola stessa;
in secondo luogo, perché riesce piuttosto difficile immaginare metodologie
differenziate, strategie di individualizzazione, realizzazione
di piani personalizzati, acquisizione di conoscenze, competenze, metodi,
strumenti e altre cosette del genere, su una soglia-base di circa 27
ore settimanali obbligatorie dedicate alle discipline fondamentali,
ulteriormente variabile nel limite del 15%, e non certo compensata dalla
quota aggiuntiva di 3 o 6 ore settimanali (facoltative e opzionali),
dedicata all’arricchimento o all’ampliamento del percorso obbligatorio
e demandata alla negoziazione con le famiglie, i ragazzi, il territorio. Restano
fondati, allora, almeno due grossi dubbi: 1) il primo è che il quadro
nazionale delle discipline fondamentali (aumentate rispetto alle attuali,
e a cui vanno aggiunte 6 educazioni) sia compatibile con il complessivo
contenimento del tempo scuola previsto: anche per l’introduzione di
una soglia minima individuale di frequenza, che non trova riscontro
nel nostro ordinamento; 2) il secondo dubbio è che, di conseguenza,
il tempo scuola obbligatorio finisca per caratterizzarsi come tempo
della “trasmissione” delle conoscenze, centrato su metodologie sostanzialmente
frontali di insegnamento e che la “personalizzazione”
sia demandata, di fatto, soltanto all’aggiunta opzionale e facoltativa. Ma
questo secondo dubbio sembra poter essere già sciolto, se addirittura
il Direttore Generale per gli Ordinamenti scolastici presso il MIUR,
in un articolo appena pubblicato (Scuola e Didattica, gennaio 2004),
a proposito della distinzione tra quota obbligatoria e quota opzionale
e facoltativa afferma che quest’ultima ha la funzione «di rendere
effettivo il diritto di scelta da parte delle famiglie e degli alunni
e di rendere possibile la diversificazione dei percorsi (personalizzazione)». E
nella quota obbligatoria come si rende possibile la personalizzazione?
O non serve, la personalizzazione, nel tempo comune della quota
obbligatoria? C’è,
in questa distribuzione dei tempi, dei modi e dei contenuti, una
interpretazione poco evoluta dei modelli di apprendimento e,
soprattutto, della connessione tra aspetti cognitivi, sociali e affettivi.
Non viene sottolineato il valore formativo delle discipline, la
loro capacità di promuovere processi cognitivi; non c’è coerenza sul
piano metodologico. Chi ha pratica di didattica laboratoriale, operativa,
cooperativa sa che non si può relegarla in momenti facoltativi, aggiuntivi
rispetto al tempo obbligatorio, estranei al “curricolo”. Ecco
la parola; ecco, alla fine, quello che manca: manca una prospettiva
curricolare, che è quella che ci consente di organizzare e tradurre
i sistemi simbolico-culturali in discipline di studio, in funzione
dell’apprendimento ai diversi livelli d’età. Se noi interpretiamo le
discipline in un’ottica formativa, non è per una loro generica potenzialità
trasversale o sociale, ma perché, caratterizzandosi come spazi operativi
e simbolici, organizzano, “disciplinano” appunto, gradualmente l’intelligenza
e la conoscenza, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria
superiore. Il
CIDI ha fatto notare che nei documenti questo carattere di verticalità,
di processualità del curricolo non è sufficientemente esplicitato, e
che traspare invece una demarcazione piuttosto rigida tra dimensioni
primarie e secondarie della conoscenza. In particolare, appare decisamente
sottovalutato l’apporto della scuola dell’infanzia all’apprendimento
e alla conoscenza: la qual cosa lascia ancor più interdetti se si pensa
al preziosissimo lavoro che, negli ultimi anni, la scuola materna ha
fatto in questa direzione. In
compenso, i piccoli di due, tre quattro anni sono chiamati a «soffermarsi
sul senso della nascita e della morte, delle origini della vita e del
cosmo, della malattia e del dolore, del ruolo dell’uomo nell’universo,
dell’esistenza di Dio a partire dalle diverse risposte elaborate e testimoniate
in famiglia e nelle comunità di appartenenza»
… (TESTUALE)… Come dire: i bambini dell’ormai ex scuola materna dovrebbero
problematizzare temi come la morte, il dolore, la malattia e il ruolo
dell’uomo nell’universo, ma possono fare meno pratica (e meno gioco)
con la lingua, con i numeri, con la logica, con le scienze. Naturalmente
noi sappiamo bene che nell’attuale organizzazione del tempo scolastico
e dei curricoli nella scuola di base vi sono aspetti ed elementi da
sottoporre ad analisi approfondita e a revisione;
ma sappiamo anche che una tale riflessione richiederebbe il più ampio
coinvolgimento, la più ampia partecipazione e il contributo di idee
e di esperienza di coloro che nei contesti reali di apprendimento/insegnamento
effettivamente operano. Dispiace
che ciò non sia avvenuto. Non sarebbe stato inutile, per esempio - ha
scritto il CIDI nel Parere sulle Indicazioni nazionali per il primo
ciclo di istruzione consegnato al Ministro - non
sarebbe stato inutile cercare di capire meglio «quali siano oggi
i tempi di vita, di relazione, di apprendimento dei bambini, nelle famiglie,
nella città; come utilizzare il tempo scuola per qualificare meglio
l’ambiente di apprendimento; come costruire un progetto educativo a
misura di ogni allievo, senza entrare in una logica di separazione,
di competizione, di esclusione». E ancora: «l’idea
che si va diffondendo, per esempio, è che il tempo scuola debba essere
una variabile sempre più flessibile, a mano a mano che si procede nel
corso degli studi: dagli anni iniziali del ciclo di base, ove va assicurata
una giornata educativa distesa e fortemente
unitaria (sull’esempio del tempo pieno europeo), agli anni terminali,
ove si possono favorire scelte più personali e autonome dei ragazzi
con la regia progettuale della scuola». Gli
insegnanti sono sicuramente interessati al dibattito su simili temi,
ma chiedono che una questione “pedagogica” (come articolare i tempi
della scuola e rendere più equilibrata ed efficace la loro gestione)
non si trasformi in una questione surrettiziamente
“ideologica” (tempo della scuola-istituzione contrapposto al tempo della
società-comunità); e chiedono anche che, magari, la nuova organizzazione
del tempo scuola non diventi la premessa per una consistente riduzione
delle risorse di personale. Ultime
note sparse, che sono sicuro saranno riprese
più tardi, se credete, nel corso del dibattito, e domani con Domenico
Chiesa. 1)
E’ ancora lontana dalla scuola italiana quella sorta di gerarchizzazione
che si prevede di introdurre con l’insegnante tutor, anche se la cosa
sembra destinata, forse, ad essere ridimensionata. Si può discutere
all’infinito se sia un bene oppure no: tuttavia esiste e si estende
il dibattito su una rivisitazione profonda del profilo professionale
del docente, su uno sviluppo di “carriera”, sulla
istituzione di un Albo, ecc. D’altronde esistono due disegni
di legge all’esame della Camera, che intendono rivoluzionare il profilo
giuridico del docente: credo che, una volta a regime la riforma, prima
o poi la questione si porrà in primo piano, a livello sindacale e a
livello professionale. 2)
Esprimiamo forte dissenso nei confronti di una formazione dei docenti
totalmente appaltata all’Università. Non v’è dubbio che la responsabilità
della formazione iniziale debba essere dell’Università, che per altro
si potrebbe giovare di forme organiche di collaborazione con la scuola
anche lungo i percorsi di laurea specialistica. La formazione in servizio,
invece, deve rimanere responsabilità delle scuole, pur in un intreccio,
indispensabile, di collaborazioni con l’Università, con l’IRRE, con
le Associazioni professionali e disciplinari degli insegnanti: intreccio
che può costruirsi solo se ciascuno dei due soggetti risulta
portatore di una propria e distinta identità, con compiti e funzioni
specifiche. Bisogna ammettere che se l’Università spesso non ha conoscenza
specifica delle realtà diverse dei contesti “scolastici”, le scuole hanno molta difficoltà a costruire
e sviluppare una propria identità di ricerca, che ne sostenga ed orienti
le iniziative di formazione in servizio. 3)
Vogliamo sostenere, salvaguardare e potenziare l’autonomia delle istituzioni
scolastiche, sancita dalla Costituzione, perché la scuola pubblica,
la scuola dell’autonomia funzioni e funzioni sempre meglio, valorizzando
e diffondendo le esperienze e le pratiche migliori, dando senso
alla professionalità docente senza necessariamente creare gerarchie
(con i conflitti, le indifferenze, le relazionalità problematiche che
inevitabilmente si porterebbero dietro in un contesto ad alta professionalità
diffusa quale è quello della scuola), ma piuttosto perseguendo e consolidando
una seria articolazione funzionale della professionalità docente all’interno
di una organizzazione del servizio fortemente condivisa e qualitativamente
più complessa. Credo che sia questo, oggi, il modo più efficace per
salvaguardare, insieme con l’autonomia della scuola, l’autonomia della
funzione docente. |