Il nostro codice deontologico è la Costituzione
Intervista
di Loredana Fasciolo a Domenico Chiesa
Presidente del Cidi
Come
effetto della riforma dell’Amministrazione e con l’avvio dell’autonomia della
scuola è riemersa, da più parti, l’esigenza di far riferimento a un codice deontologico
degli insegnanti inteso come ricerca di standard professionali qualificati e
condivisi, come responsabilizzazione verso terzi (studenti, famiglie, società),
come quadro di norme di comportamento aderenti alla Costituzione italiana.
Esigenza
“riemersa” perché già nel 77 l’Uciim, nel 90 “Fase” (rivista della Cgil scuola
del Lazio), nel 99 l’Adi, hanno elaborato delle proposte di codice. Molti convegni
e seminari si sono svolti su questo argomento ai quali il Cidi (Centro di iniziativa
democratica insegnanti) ha sempre partecipato.
Il
Cidi da trent’anni è impegnato in iniziative per la qualificazione e la trasformazione
democratica della scuola pubblica italiana, anche attraverso la sua rivista
“Insegnare” che viene pubblicata da quindici anni.
Domenico
Chiesa ha da poco assunto l’incarico di presidente nazionale del Cidi, lasciato
vacante da Alba Sasso che è stata eletta alla Camera dei deputati ed opera nella
VII commissione Cultura e Istruzione.
Abbiamo rivolto al neo presidente del Cidi alcune domande:
Al Convegno organizzato da Proteo Fare Sapere e Cgil Scuola nel giugno del 2000 su “Etica, responsabilità, autonomia e garanzia a terzi”, Sofia Toselli, membro del Cidi, sosteneva che più che istituire un codice deontologico sarebbero necessarie scelte politiche precise partendo dalla prima formazione degli insegnanti. Ci può spiegare meglio?
Condivido
pienamente le affermazioni di Sofia Toselli: il problema è proprio da dove partire
e attorno a quale centro operare per ragionare sulla “professionalità insegnante”.
L’enfasi
che si sta ponendo attorno al problema del codice deontologico rischia di spostare
il baricentro delle problematiche legate al mestiere dell’insegnare; si finisce
con il legarsi alla troppo sterile contrapposizione tra un approccio che lo
vorrebbe come «libera professione» (nella vecchia concezione del “docente di
storia e filosofia nei licei) e uno opposto che lo ridurrebbe ad un’attività
impiegatizia. Da un lato viene quindi posto l’insegnamento come una forma di
«libera professione» e dall’altro come un lavoro impiegatizio (tassello di un
impianto burocratico), entrambi di serie “B” e costruiti sulla sola dimensione
individuale; l’insegnamento come un elemento non legato alla trasformazione
della scuola, quindi non come agente di innovazione bensì sottoposto ad una
data organizzazione della scuola.
La
professionalità dell’insegnante come si può dunque definire?
Si può pensare
di superare questa antinomia operando verso un’idea di «professionalità in un
progetto» in cui venga evidenziata la dimensione di vera professione più legata
alla qualità della prestazione che all’orario di servizio senza però perdere
il carattere sociale e collegiale; nella prospettiva di intellettuali e di professionisti
che operano collegialmente in un progetto formativo condiviso.
L’insegnante
è un professionista in una istituzione che realizza un progetto educativo pubblico.
Il vero
problema della professionalità degli insegnanti non è riducibile alla ricerca
in astratto di una definizione bensì all’individuazione di campi, azioni, percorsi
che la possano far decollare e far corrispondere ai bisogni della crescita della
scuola.
In questo
caso assume molta importanza l’acquisizione e il possesso di competenze…
Certo bisogna
tener presente le competenze che sono alla base del fare scuola e dei processi
necessari per formarle e svilupparle, avendo però sempre in primo piano la dimensione
cooperativa e collegiale in cui si esercitano e il ruolo sociale dell’insegnamento.
In qualche
modo viene a configurarsi una professionalità insegnante costruita all’incrocio
di quattro grandi aree di competenza:
- l’area
delle competenze disciplinari aggiornate alla cultura del ‘900; padronanza del
proprio sapere disciplinare, con consapevolezza dei nuclei centrali e dei “confini”;
- l’area
delle competenze relative alla mediazione culturale necessaria per l’uso formativo
del sapere disciplinare, diversificata per i diversi livelli di scolarità; dalla
ricerca sulla dimensione formativa delle discipline derivano le competenze relative
alla progettazione educativa e metodologico-didattica per tradurre a livello
operativo il curricolo scolastico nazionale;
- l’area
delle competenze psicopedagogiche e relazionali;
- l’area
delle competenze organizzative: da un lato l’attivazione del progetto educativo
coordinato con i colleghi del team o del consiglio di classe calibrato sullo
stile di apprendimento di ogni studente, dall’altro lato il coordinamento di
consigli di classe, dipartimenti, commissioni, di attività di aggiornamento,
progettazione di interventi finalizzati al miglioramento della qualità dell’offerta
formativa.
Il
Cidi e le altre associazioni professionali degli insegnanti che ruolo dovrebbero/potrebbero
avere? E i Sindacati Scuola?
Le associazioni
degli insegnanti sbaglierebbero se puntassero a scimmiottare gli ordini professionali
propri delle “libere professioni” e i sindacati sbaglierebbero se puntassero
a diventare associazioni professionali. Nella scuola l’associazionismo più che
essere il garante di un codice deontologico potrebbe rispondere al bisogno di
rappresentare un luogo di elaborazione e di confronto sul fare scuola quotidiano
attorno alla prospettiva di costruire una scuola che corrisponda sempre meglio
al mandato costituzionale.
In fondo
è proprio la Costituzione il nostro codice deontologico.
È la prospettiva
che da sempre si pone il Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti.
Non la ricerca
del modello dell’insegnante, bensì un continuo argomentare, approfondire
e sostenere iniziative di chi opera nella scuola per una scuola che svolga un
ruolo significativo nello sviluppo della cittadinanza e della democrazia.
Ci pare
che questa scelta rappresenti anche un buon antidoto contro le tentazioni di
corporativismo e di autoreferenzialità.
Il “controllo”
della formazione - ora più che mai - diventa di primaria importanza. Il governo
delle destre sta mettendo in atto numerosi attacchi alla scuola pubblica sempre
più insidiosi, tenta di separare il sistema d’istruzione da quello formativo,
di modificare il reclutamento del personale attribuendo più potere al dirigente
scolastico, ecc. Davanti alle palesi ingerenze politiche, religiose, ideologiche
come si possono difendere alcuni valori e principi cui l’insegnante di scuola
pubblica, laica e pluralista dovrebbe ispirarsi? Come allontanarne i pericoli,
attenuarne gli effetti?
L’impegno
per una scuola pubblica, laica e pluralista deve certamente essere centrale,
ma non è affidabile a dei “dover essere”. È evidente la volontà delle forze
al governo a deviare il processo di riforma verso un modello di scuola che finirà
per contrapporre percorsi e luoghi di formazione divisi e differenziati: divisi
sulla base dell’appartenenza culturale e religiosa e differenziati sulla base
della collocazione sociale da raggiungere (confermare); una scuola dell’eccellenza
per alcuni e una scuola della solidarietà per gli altri. Sullo sfondo rimane
l’illusione che il mercato possa porsi come fattore di efficienza del sistema.
La risposta
e il terreno specifici del mondo della scuola sono ancora quelli di contribuire
a costruire pratiche che contraddicano tale tendenza, per rendere reali il raggiungimento
di alti livelli di istruzione da parte di ciascuno. Da un lato si pone il lavoro
di ricerca attorno allo sviluppo del progetto curricolare dai tre ai diciotto
anni verso un curricolo unitario ma in grado di intercettare tutti i bambini
e tutti i giovani. Dall’altro lato la costruzione di una organizzazione in grado
di attivare momenti di progettualità non solo cartacea, di sostenere le competenze
necessarie per il governo delle unità scolastiche in relazione ai compiti che
una scuola del diritto alla cultura per tutti pone.
Come
può collocarsi la libertà d’insegnamento all’interno di una dimensione collegiale?
La libertà
dell’insegnamento assume la funzione di garanzia costituzionale della stessa
libertà (pluralismo, laicità) degli studenti: il diritto/dovere all’istruzione
appartengono ai giovani cittadini in crescita e al patto costituzionale di convivenza
sociale; gli insegnanti sono i garanti della piena realizzazione di tale diritto/dovere
e la loro piena libertà culturale ne misura il livello di garanzia.
In una accezione
di questo tipo la dimensione “individuale” non entra in contrasto con quella
“collegiale”, ne diviene invece l’elemento di base indispensabile ma che proprio
nella collegialità può esprimersi in modo compiuto.
Alla personale
dimensione culturale, espressa attraverso una libertà di insegnamento consapevole,
si affiancano la partecipazione alle scelte culturali delineate dal progetto
nazionale e a quelle definite dal progetto dell’unità scolastica in cui si opera.
Si tratta
proprio di operare sul come sviluppare la dimensione collegiale della professionalità
degli insegnanti valorizzando quella individuale, come costruire e attivare
momenti organizzativi intermedi tra il collegio docenti e il lavoro individuale
nelle classi, come far crescere il protagonismo degli studenti, quale forma
di gestione sociale della scuola è in grado di superare la scarsa significatività
degli attuali organi collegiali.
Tra le tante
funzioni che l’autonomia delle scuole può svolgere mi pare opportuno sottolineare
- cosa spesso dimenticata - la possibilità di valorizzare i soggetti della scuola.
La
scuola dell’autonomia deve inoltre fare i conti col federalismo che potrebbe
portare alla “regionalizzazione” dei diritti e dei doveri degli insegnanti che
invece devono essere validi su tutto il territorio nazionale. Se le Regioni
(come abbiamo visto in Lombardia col buono scuola) potranno legiferare in materia
scolastica anche in contrasto con la Costituzione e con le leggi dello Stato,
potrebbe una ridefinizione, unitaria e condivisa, del ruolo dell’istruzione
e degli insegnanti - che comprenda i vari aspetti connessi alla professione
- essere in qualche modo d’aiuto?
È vero:
alla scuola della Repubblica, che si stava dotando di un adeguato “decentramento
pensante”, si cerca di sostituire le scuole delle Regioni; il riferimento di
contrasto può risultare proprio l’art 21 della legge 59/97. Si tratta di consolidare
ciò che già è ampiamente avviato e realizzato di tale legge nella prospettiva
del sistema dell’istruzione a livello nazionale e a livello territoriale, attraverso
lo sviluppo equilibrato delle diverse istanze del governo della scuola:
- un centro
“strategico” che definisce pochi ma solidi punti di riferimento e svolge funzioni
di garanzia, di perequazione e di controllo;
- uno “snodo”
regionale che orienta in termini qualitativi il governo e la gestione del sistema
formativo (e che dialoga attivamente con il territorio e gli enti locali);
- singole
unità scolastiche responsabili dell’offerta formativa per meglio adattarla alle
esigenze degli allievi (ma nel rispetto di indirizzi programmatici nazionali
e di standard di funzionamento).
La dimensione
unitaria e nazionale dell’istruzione viene sostenuta e si prospetta contemporaneamente
la crescita del ruolo istituzionale e attivo delle singole scuole chiamate ad
assumere una funzione attiva nello sviluppo di un territorio.
È una soluzione
diametralmente opposta alle proposte del governo di centro destra.
Contributo al convegno nazionale sulla deontologia del 29-30 marzo 2001
Trascrizione e rielaborazione a cura di Loredana Fasciolo della Redazione di Valore Scuola