Le osservazioni del Cidi al testo del ddl
delega del Governo per il riordino dei cicli scolastici all'esame della
Camera dei Deputati
Premessa
Riteniamo indispensabile una riforma complessiva del sistema di istruzione
e formazione al fine di garantire a tutti i giovani un più
solido bagaglio di conoscenze e saperi, oggi sempre più necessari
per vivere, lavorare, continuare a studiare nel corso della vita,
per esercitare in modo autonomo e consapevole la propria cittadinanza,
per fronteggiare le trasformazioni sociali, tecnologiche e produttive.
Riteniamo altresì necessario guardare le trasformazioni del
sistema scolastico alla luce della legge costituzionale n.3/2001,
che ha ridefinito, attraverso la modifica del titolo V della Costituzione,
l'assetto delle competenze dello Stato e delle Regioni in materia
di istruzione e formazione.
Riteniamo però che una riforma così rilevante per il
futuro del Paese, così impegnativa e complessa, non possa essere
attuata attraverso lo strumento della delega, che riduce gli spazi
di dibattito e di confronto, rendendo difficile il necessario apporto
di idee che dovrebbe venire dai vari soggetti sociali e politici,
senza il quale, perciò, diventa problematico un ampio coinvolgimento
e un'estesa condivisione. |
Osservazioni
nel merito dell'articolato di legge
1.
Gli obiettivi
Gli obiettivi generali della proposta di riforma sono espressi in
modo troppo generico: non si richiamano ai principi costituzionali,
che dovrebbero invece essere i riferimenti necessari per rafforzare
la funzione della scuola pubblica, che è quella di garantire
a ogni bambino e bambina, a ogni ragazzo e ragazza, un'istruzione
di qualità il più possibile omogenea su tutto il territorio
nazionale. La scuola è un'Istituzione fondamentale della
Repubblica, è un soggetto autonomo e fattore attivo nel "rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale
del Paese" (art. 3 della Costituzione).
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2.
La formazione spirituale e morale
Esprimiamo forte contrarietà su quanto scritto al punto 1.b,
art.2: sono promossi il conseguimento di una formazione spirituale
e morale, ma anche ispirata ai principi della Costituzione... L'enunciato,
nella sua prima parte, è distante dallo spirito critico su
cui si fonda, dalla Costituzione in poi, la formazione culturale nel
sistema scolastico italiano. Esso non tiene conto che una scuola moderna
ed europea non può che essere pluralista e laica, e non può
imporre una morale di Stato; non considera che gli unici valori che
la scuola è tenuta dichiaratamente a veicolare sono quelli
che si ispirano ai principi, comuni a tutti, della Costituzione. Mentre
nell'enunciato tali principi sono collocati in una subordinata, concettuale
e linguistica, rispetto al principio di una formazione spirituale
e morale.
Sottolineiamo che l'istruzione si acquisisce e si consolida con gli
strumenti critici e interpretativi della conoscenza, in condizioni
perciò di "libertà" (art 33, c.1 della Costituzione),
non sottoposta cioè a vincoli di natura politica, ideale, religiosa,
etnica ecc.
Rileviamo che la formazione morale, con l'aggiunta del religioso,
ritorna anche al punto 1.e dell'art. 2, laddove si definiscono gli
obiettivi della scuola dell'infanzia. L'espressione ripropone una
scuola del "fondamento e coronamento" non più previsto
negli ordinamenti scolastici italiani, anche a seguito del nuovo Concordato
(1984) e non tiene conto della necessità di integrare bambini
e bambine appartenenti a culture e religioni diverse né dell'obiettivo,
prioritario in una scuola pubblica, di formare persone capaci di confrontarsi
costantemente con gli altri, di mettere in comune i vari punti di
vista, di valorizzare le differenze nel dialogo e nel rapporto con
altre storie, altre religioni, altre culture. |
3.
L'anticipo nella scuola dell'infanzia
Il nostro sistema scolastico è riuscito, attraverso una felice
convergenza tra gli interventi ministeriali e il lavoro delle scuole
- che negli Orientamenti del 1991 ha trovato un punto di riferimento
fondamentale - a costruire un impianto di scuola per la seconda infanzia
(3-6 anni), che risponde ai bisogni e alle esigenze di questa fascia
di età.
Resta sempre l'esigenza di consolidare la proposta formativa con ordinamenti
adeguati, di valorizzare le esperienze e le pratiche più avanzate,
di sostenere ed estendere questa scuola con un piano di investimenti
su tutto il territorio nazionale. Ma l'anticipo dell'inizio del percorso,
che non fonda le sue motivazioni su condivisi e fondati criteri psicopedagogici,
rischia di alterarne l'intero impianto.
Esprimiamo perciò forti perplessità sull'ipotesi volta
a introdurre una diversa scansione nelle età di accesso e di
uscita dalla scuola dell'infanzia. Tanto più se tale scelta
è affidata alla responsabilità dei soli genitori. In
tal modo si rischia di compromettere l'identità pedagogica
e organizzativa di una scuola che ha saputo guadagnarsi un grande
credito, non solo presso l'opinione pubblica, gli addetti ai lavori,
il mondo della ricerca italiani, ma anche internazionali.
Facciamo notare che la proposta di anticipo era stata esclusa dalla
stessa Commissione di esperti, istituita dal ministro dell'Istruzione
e che, tale proposta, non è finora stata oggetto di alcuna
forma di consultazione o di contraddittorio qualificato.
Peraltro le indicazioni contenute nel progetto di legge appaiono assai
vaghe né permettono di capire con quali risorse, tempi, indirizzi
si intendano approntare i nuovi modelli educativi e organizzativi.
Si dice solo "secondo criteri di gradualità e in forma
di sperimentazione".
Non sottovalutiamo la domanda sociale relativa ai servizi educativi
per bambini di due anni e pochi mesi di età, invitiamo perciò
a farvi fronte con tutta la delicatezza e l'impegno necessari per
costruire ambienti educativi rispettosi e adatti ai bambini di tale
età. A tal fine lo strumento più idoneo appare la legge
1044/71, istitutiva degli asili nido, che vantano anch'essi alti primati
di qualità. |
4.
L'anticipo nella scuola elementare
Rileviamo che tale ipotesi potrebbe comportare differenziazioni, in
termini di età anagrafica, di circa venti mesi fra gli alunni
iscrivendi alle classi prime, elemento che potrebbe determinre una
precoce differenziazione dei percorsi formativi, oltre che un "appesantimento"
delle condizioni di esercizio dei docenti, che dovranno già
sopportare l'aumento medio di 2 unità di alunni per ogni classe
prima.
Sottolineiamo che al momento mancano motivazioni sufficientemente
condivise tra gli insegnanti sul significato di questa proposta, nei
suoi riferimenti psicopedagogici, didattici e operativi.
È in corso una sperimentazione sull'anticipo, in molti casi
non scelta né condivisa dai Collegi dei docenti ma, sollecitata
dall'esterno, imposta agli insegnanti dai dirigenti scolastici con
una sottrazione indebita degli spazi di autonomia del Collegio dei
docenti. Sarà comunque interessante, alla fine dell'esperienza,
sentire le valutazioni che ne daranno gli insegnanti. |
5.
La separatezza dei percorsi
Non condividiamo la proposta di suddividere il primo ciclo dell'istruzione
in due segmenti nettamente distinti, con articolazioni interne che
non trovano riscontro nella tradizione di ricerca e di innovazione
della scuola elementare e media italiana. Sottolineiamo che oltre
il 43 % delle Istituzioni scolastiche "di base" sono oggi
organizzate negli Istituti comprensivi (di scuola materna, elementare
e media). La separatezza, che la soluzione prospettata nel ddl delega
continuerà a riproporre nei curricoli, nelle metodologie, nelle
professionalità degli insegnanti, appare contraddittoria con
gli orientamenti fino a oggi maturati nei confronti di tali scuole
(e ripresi anche dalla Commissione di studio istituita dal ministro
dell'Istruzione).
Rileviamo inoltre che una legge delega non dovrebbe entrare nel merito
della scansione/articolazione interna del percorso formativo, che
più opportunamente dovrebbe essere regolamentata dalle singole
scuole autonome: autonome - appunto - nella progettazione e organizzazione
dell'offerta formativa e del lavoro scolastico da svolgere.
Il problema, per la fascia di scolarità di base, è storico
perché nato con la sovrapposizione di spezzoni di scuola istituiti
in epoche diverse e con finalità e ordinamenti diversi. È
l'annosa questione della continuità. Sottolineiamo perciò
che le soluzioni organizzative dovrebbero andare nella direzione di
rendere più agevole e coerente l'attuazione di un curricolo
progressivo, nei diversi ambiti del sapere, che permetta - nel rispetto
dei tempi di sviluppo e di apprendimento di tutti i bambini - di far
acquisire, a un livello alto e durevole, gli strumenti alfabetici
e di consolidare, attraverso un adeguato approccio disciplinare, le
conoscenze acquisite.
Il passaggio dagli ambiti disciplinari alle discipline richiede un
approccio curricolare verticale e progressivo, non la cesura, come
invece si propone nella legge, nel passaggio dalla scuola primaria
a quella secondaria. La riproposizione della separazione tra scuola
elementare e scuola media è anacronistica e continuerà
a rappresentare un fattore non marginale di dispersione scolastica.
Segnaliamo inoltre che il destino degli Istituti comprensivi, dove
sono da anni avviate pratiche positive di continuità curricolare,
non viene neanche preso in considerazione nel provvedimento legislativo,
lasciando così nella più totale incertezza oltre 150.000
insegnanti che in tali Istituti operano! |
6.
La personalizzazione dei percorsi
Esprimiamo preoccupazione per quanto scritto al punto f, dell'art.
2, laddove si dice che la scuola media è "caratterizzata
dalla diversificazione didattica e metodologica in relazione allo
sviluppo della personalità dell'allievo". L'espressione
fa pensare a una diversificazione di percorso che si avvicina molto
alle classi differenziali o a gruppi di allievi divisi per livelli
di capacità.
La personalizzazione dei piani di studio e dei percorsi, spesso richiamate
nel testo legislativo, non è la stessa cosa dell' individualizzazione,
pratica didattica consolidata nella scuola dell'obbligo, a partire
dalla legge 517/77 che, attraverso la ricerca di percorsi diversificati,
ha avuto l'obiettivo di portare tutti gli allievi a un livello comune
di apprendimento, secondo una logica inclusiva.
La personalizzazione esprime invece un'idea di diversificazione permanente
tra chi è più bravo e chi meno, presume percorsi distinti,
destinati a cristallizzarsi anche in funzione delle scelte successive.
Nell' individualizzazione prevale l'idea di scuola come servizio alla
persona e al Paese, nella personalizzazione prevale l'idea di scuola
come puro servizio alla persona (cioè alle famiglie), tant'è
che nel testo legislativo si trova scritto: "nel rispetto delle
scelte educative delle famiglie", (punto l dell'art. 1), che
potrebbe significare: la famiglia chiede, la scuola risponde. |
7.
Il biennio
In riferimento ai percorsi di istruzione e di formazione proposti
per la fascia scolare successiva alla scuola media, esprimiamo fortissima
contrarietà alle scelte contenute nel disegno di legge delega,
approvato al Senato.
Negli ultimi anni la scuola ha operato nella prospettiva di considerare
il primo biennio della scuola secondaria superiore come unitario e
conclusivo dell'obbligo di istruzione e i diciotto anni come la tappa
conclusiva del diritto/dovere alla formazione.
Il biennio della scuola secondaria superiore è infatti lo snodo
essenziale per lo sviluppo e il consolidamento di conoscenze e competenze
fondamentali, su cui le scuole hanno costruito esperienze di grande
significato che non possono oggi essere ignorate.
La scelta dell'indirizzo - che dà concretezza all'orientamento
svolto durante la scuola di base - svolge un ruolo non marginale per
la crescita della persona a livello culturale e affettivo. Tale scelta
dovrebbe poter essere sperimentata, modificata oppure confermata al
termine del biennio. Per tale motivo la frequenza del primo biennio
degli indirizzi di scuola superiore dovrebbe avvenire tra percorsi
scolastici caratterizzati da una sostanziale equivalenza formativa.
La scelta, dopo la terza media, fra contrapposti canali per nulla
equivalenti dal punto di vista formativo - e infatti l'allievo proveniente
dal canale dell'istruzione e della formazione professionale che voglia
sostenere gli esami di Stato deve passare nel canale dell'istruzione
liceale, dopo un anno aggiuntivo di frequenza - non corrisponde ai
bisogni formativi dei giovani né alle esigenze del mondo del
lavoro.
È invece determinante, ai fini dell'apprendimento successivo
e dell'apprendimento per tutto il corso della vita, considerare il
biennio di scuola superiore come conclusivo dell'obbligo di istruzione
al fine di non interrompere l'esperienza scolastica in una età
in cui il consolidamento culturale non si è ancora pienamente
realizzato.
Dopo l'obbligo, a 16 anni, percorsi integrati tra istruzione e formazione
professionale corrisponderanno meglio alle esigenze formative dei
giovani.
Sottolineiamo inoltre che differenziare precocemente i percorsi formativi
non risolve il problema dei ragazzi in difficoltà mentre mette
in discussione la durata attuale dell'obbligo di istruzione che, di
fatto, torna ad essere di 8 anni - tant'è che il testo legislativo
abolisce la legge 9/99 -, ricollocando l'Italia in coda fra i Paesi
europei in quanto a durata del percorso obbligatorio di istruzione.
L'espressione diritto-dovere all'istruzione fino ai 18 anni non garantisce
il diritto all'istruzione e a un apprendimento di qualità per
ogni ragazzo e ragazza; moltissimi di loro infatti si troveranno a
14 anni nel cosiddetto secondo canale, dove sarà possibile
saltare alcune tappe formative, in nome di ipotetiche e precoci "vocazioni"
al lavoro.
Rileviamo infine che il termine "obbligo" non è da
considerare desueto dal momento che richiama l'impegno della Repubblica
a "istituire scuole statali per tutti gli ordini e gradi"
(art. 33, c. 2 della Costiuzione) e l'obbligo (della Repubblica) a
impartire a tutti, per almeno 8 anni, un'istruzione gratuita (art.
34 della Costituzione) |
8.
La valutazione
Nel merito della valutazione "della qualità del sistema
educativo di istruzione e formazione" da parte dell'Istituto
nazionale per la valutazione, sottolineiamo l'opportunità di
rendere le procedure e i contenuti delle prove di valutazione di sistema
coerenti con le scelte culturali e curricolari della scuola dell'
autonomia. La fase di sperimentazione (Progetto pilota 1), che ha
coinvolto più di 2800 scuole, ha fatto emergere molte contraddizioni
in tal senso. Sottolineiamo inoltre che i contenuti delle prove e
le modalità delle verifiche di sistema, potrebbero, una volta
a regime, indurre insegnanti e studenti a "piegare" l'attività
didattica in funzione delle prove stesse, più che al miglioramento
della qualità dell'insegnamento-apprendimento. Sottolineiamo
infine che la strada della valutazione dei risultati scolastici, da
parte di un Istituto esterno alla scuola, è stata percorsa
da altri Paesi con effetti negativi sui sistemi scolastici. |
9.
La quota regionale
Esprimiamo contrarietà sulla quota riservata alle Regioni relativamente
ai piani di studio. Riducendo la quota nazionale vengono infatti ridimensionati
l'unitarietà del sistema scolastico e i margini di flessibilità
di cui le scuole hanno bisogno per realizzare, in relazione a situazioni
concrete, quelle azioni di sostegno, recupero, approfondimento utili
a migliorare l'apprendimento. |
10.
La formazione iniziale e in servizio
Condividiamo la scelta di dare pari dignità e durata per tutti
i docenti ai Corsi di laurea specialistica, come condividiamo la prospettiva
di una laurea specialistica finalizzata all'insegnamento; pur tuttavia
riteniamo che restino fondamentali nodi da sciogliere, nell'ambito
dei decreti applicativi, circa la struttura dei due anni di specializzazione,
le modalità con cui la laurea specialistica abilita alla professione,
il successivo periodo di tirocinio.
Sottolineiamo la necessità di individuare un giusto rapporto
tra saperi disciplinari, didattiche e scienze dell'educazione, anche
in funzione dei livelli di scolarità, e di rivedere le classi
di concorso per renderle coerenti con le abilitazione conseguite.
Esprimiamo invece contrarietà circa la soluzione prevista per
l'accesso ai ruoli organici del personale docente. Affidare alle università
le attività di tirocinio per i contratti di formazione lavoro,
attraverso la gestione di apposite strutture di ateneo - che dovrebbero
anche curare i centri di eccellenza per la formazione degli insegnanti
- vuol dire non tener conto della funzione, delle competenze e della
cultura della scuola.
La scuola non può essere l'anello terminale - che stipula convenzioni
proposte dagli atenei - di decisioni prese dall'università
su un terreno non di sua competenza.
In tale ipotesi si rileva una concezione burocratica e gerarchica
del rapporto fra scuola e università che non tiene conto della
assoluta diversità - per finalità, compiti, modalità
di intervento - tra università (anche quando si occupa di didattica)
e scuola!
Facciamo notare che l'università non ha, per sua storia, interesse
a gestire tali strutture né ha le competenze per guidare lo
svolgimento delle suddette attività - come l'esperienza delle
Ssis ha in molti casi dimostrato-.
A maggior ragione non condividiamo il criterio di affidare all'università
la formazione in servizio dei docenti. Questa ipotesi sancisce un
giudizio negativo sulle capacità e sulle competenze professionali
degli insegnanti e annulla il principio dell'autonomia di ricerca,
sperimentazione e sviluppo delle Istituzioni scolastiche autonome
- principio introdotto dall'art.21 (in particolare punti 9 e 10) della
legge n. 59/97 e dall'art. 6 del Dpr 275/99 - che riconosce specificità
e autonomia al sapere insegnato; attribuisce valore alle competenze
che si formano nella scuola, alla esperienza, alla riflessione, alla
ricerca sulle pratiche didattiche; riconosce gli insegnanti come esperti
del sapere insegnato e la comunità dei docenti come il contesto
scientifico di riferimento relativo a tale sapere.
L'insegnamento infatti non è una semplice trasmissione di sapere,
non si costruisce in astratto, ma è il risultato di un faticoso
cammino che può essere percorso solo nella scuola, in un confronto
continuo fra docenti che riflettono, individualmente e collegialmente,
sul lavoro che svolgono, adeguando le pratiche didattiche in funzione
dei bisogni e dei ritmi di apprendimento degli allievi e dei risultati
raggiunti.
L'università e la scuola devono perciò trovare su questo
terreno una costruttiva integrazione, al fine di valorizzare le reciproche
competenze, in una gestione paritaria e collaborativa in strutture
che siano davvero luoghi di progetto, di scambio e di confronto continui. |
11.
Effetti della legge finanziaria
Intendiamo
sottolineare, infine, la contraddizione che emerge tra le indicazioni
contenute nel testo del disegno di legge delega e le scelte che in
base alla legge finanziaria 2003 si stanno mettendo in atto. Le stesse
indicazioni del ministro in merito alla riduzione degli organici sollevano
una forte contraddizione (dalla scuola elementare a quella superiore,
fino agli interventi per l'handicap). L'acquisizione di fondi da investire
nella didattica non può essere ricondotto al semplice risparmio
sulle spese per il personale effettuato peraltro su snodi non marginali
nel determinare la qualità stessa della didattica. |
(11.12.2002)
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