Le osservazioni del Cidi al testo del ddl delega del Governo per il riordino dei cicli scolastici all'esame della Camera dei Deputati


Indice

  1. Premessa
  2. Gli obiettivi
  3. La formazione spirituale e morale
  4. L'anticipo nella scuola dell'infanzia
  5. L'anticipo nella scuola elementare
  6. La separatezza dei percorsi
  7. La personalizzazione dei percorsi
  8. Il biennio
  9. La valutazione
  10. La quota regionale
  11. La formazione iniziale e in servizio
  12. Effetti della legge finanziaria

 



Premessa
Riteniamo indispensabile una riforma complessiva del sistema di istruzione e formazione al fine di garantire a tutti i giovani un più solido bagaglio di conoscenze e saperi, oggi sempre più necessari per vivere, lavorare, continuare a studiare nel corso della vita, per esercitare in modo autonomo e consapevole la propria cittadinanza, per fronteggiare le trasformazioni sociali, tecnologiche e produttive.
Riteniamo altresì necessario guardare le trasformazioni del sistema scolastico alla luce della legge costituzionale n.3/2001, che ha ridefinito, attraverso la modifica del titolo V della Costituzione, l'assetto delle competenze dello Stato e delle Regioni in materia di istruzione e formazione.
Riteniamo però che una riforma così rilevante per il futuro del Paese, così impegnativa e complessa, non possa essere attuata attraverso lo strumento della delega, che riduce gli spazi di dibattito e di confronto, rendendo difficile il necessario apporto di idee che dovrebbe venire dai vari soggetti sociali e politici, senza il quale, perciò, diventa problematico un ampio coinvolgimento e un'estesa condivisione.

 


 

Osservazioni nel merito dell'articolato di legge

1. Gli obiettivi
Gli obiettivi generali della proposta di riforma sono espressi in modo troppo generico: non si richiamano ai principi costituzionali, che dovrebbero invece essere i riferimenti necessari per rafforzare la funzione della scuola pubblica, che è quella di garantire a ogni bambino e bambina, a ogni ragazzo e ragazza, un'istruzione di qualità il più possibile omogenea su tutto il territorio nazionale. La scuola è un'Istituzione fondamentale della Repubblica, è un soggetto autonomo e fattore attivo nel "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (art. 3 della Costituzione).

 


2. La formazione spirituale e morale
Esprimiamo forte contrarietà su quanto scritto al punto 1.b, art.2: sono promossi il conseguimento di una formazione spirituale e morale, ma anche ispirata ai principi della Costituzione... L'enunciato, nella sua prima parte, è distante dallo spirito critico su cui si fonda, dalla Costituzione in poi, la formazione culturale nel sistema scolastico italiano. Esso non tiene conto che una scuola moderna ed europea non può che essere pluralista e laica, e non può imporre una morale di Stato; non considera che gli unici valori che la scuola è tenuta dichiaratamente a veicolare sono quelli che si ispirano ai principi, comuni a tutti, della Costituzione. Mentre nell'enunciato tali principi sono collocati in una subordinata, concettuale e linguistica, rispetto al principio di una formazione spirituale e morale.
Sottolineiamo che l'istruzione si acquisisce e si consolida con gli strumenti critici e interpretativi della conoscenza, in condizioni perciò di "libertà" (art 33, c.1 della Costituzione), non sottoposta cioè a vincoli di natura politica, ideale, religiosa, etnica ecc.
Rileviamo che la formazione morale, con l'aggiunta del religioso, ritorna anche al punto 1.e dell'art. 2, laddove si definiscono gli obiettivi della scuola dell'infanzia. L'espressione ripropone una scuola del "fondamento e coronamento" non più previsto negli ordinamenti scolastici italiani, anche a seguito del nuovo Concordato (1984) e non tiene conto della necessità di integrare bambini e bambine appartenenti a culture e religioni diverse né dell'obiettivo, prioritario in una scuola pubblica, di formare persone capaci di confrontarsi costantemente con gli altri, di mettere in comune i vari punti di vista, di valorizzare le differenze nel dialogo e nel rapporto con altre storie, altre religioni, altre culture.

 




3. L'anticipo nella scuola dell'infanzia
Il nostro sistema scolastico è riuscito, attraverso una felice convergenza tra gli interventi ministeriali e il lavoro delle scuole - che negli Orientamenti del 1991 ha trovato un punto di riferimento fondamentale - a costruire un impianto di scuola per la seconda infanzia (3-6 anni), che risponde ai bisogni e alle esigenze di questa fascia di età.
Resta sempre l'esigenza di consolidare la proposta formativa con ordinamenti adeguati, di valorizzare le esperienze e le pratiche più avanzate, di sostenere ed estendere questa scuola con un piano di investimenti su tutto il territorio nazionale. Ma l'anticipo dell'inizio del percorso, che non fonda le sue motivazioni su condivisi e fondati criteri psicopedagogici, rischia di alterarne l'intero impianto.
Esprimiamo perciò forti perplessità sull'ipotesi volta a introdurre una diversa scansione nelle età di accesso e di uscita dalla scuola dell'infanzia. Tanto più se tale scelta è affidata alla responsabilità dei soli genitori. In tal modo si rischia di compromettere l'identità pedagogica e organizzativa di una scuola che ha saputo guadagnarsi un grande credito, non solo presso l'opinione pubblica, gli addetti ai lavori, il mondo della ricerca italiani, ma anche internazionali.
Facciamo notare che la proposta di anticipo era stata esclusa dalla stessa Commissione di esperti, istituita dal ministro dell'Istruzione e che, tale proposta, non è finora stata oggetto di alcuna forma di consultazione o di contraddittorio qualificato.
Peraltro le indicazioni contenute nel progetto di legge appaiono assai vaghe né permettono di capire con quali risorse, tempi, indirizzi si intendano approntare i nuovi modelli educativi e organizzativi. Si dice solo "secondo criteri di gradualità e in forma di sperimentazione".
Non sottovalutiamo la domanda sociale relativa ai servizi educativi per bambini di due anni e pochi mesi di età, invitiamo perciò a farvi fronte con tutta la delicatezza e l'impegno necessari per costruire ambienti educativi rispettosi e adatti ai bambini di tale età. A tal fine lo strumento più idoneo appare la legge 1044/71, istitutiva degli asili nido, che vantano anch'essi alti primati di qualità.


4. L'anticipo nella scuola elementare
Rileviamo che tale ipotesi potrebbe comportare differenziazioni, in termini di età anagrafica, di circa venti mesi fra gli alunni iscrivendi alle classi prime, elemento che potrebbe determinre una precoce differenziazione dei percorsi formativi, oltre che un "appesantimento" delle condizioni di esercizio dei docenti, che dovranno già sopportare l'aumento medio di 2 unità di alunni per ogni classe prima.
Sottolineiamo che al momento mancano motivazioni sufficientemente condivise tra gli insegnanti sul significato di questa proposta, nei suoi riferimenti psicopedagogici, didattici e operativi.
È in corso una sperimentazione sull'anticipo, in molti casi non scelta né condivisa dai Collegi dei docenti ma, sollecitata dall'esterno, imposta agli insegnanti dai dirigenti scolastici con una sottrazione indebita degli spazi di autonomia del Collegio dei docenti. Sarà comunque interessante, alla fine dell'esperienza, sentire le valutazioni che ne daranno gli insegnanti.

 


5. La separatezza dei percorsi
Non condividiamo la proposta di suddividere il primo ciclo dell'istruzione in due segmenti nettamente distinti, con articolazioni interne che non trovano riscontro nella tradizione di ricerca e di innovazione della scuola elementare e media italiana. Sottolineiamo che oltre il 43 % delle Istituzioni scolastiche "di base" sono oggi organizzate negli Istituti comprensivi (di scuola materna, elementare e media). La separatezza, che la soluzione prospettata nel ddl delega continuerà a riproporre nei curricoli, nelle metodologie, nelle professionalità degli insegnanti, appare contraddittoria con gli orientamenti fino a oggi maturati nei confronti di tali scuole (e ripresi anche dalla Commissione di studio istituita dal ministro dell'Istruzione).
Rileviamo inoltre che una legge delega non dovrebbe entrare nel merito della scansione/articolazione interna del percorso formativo, che più opportunamente dovrebbe essere regolamentata dalle singole scuole autonome: autonome - appunto - nella progettazione e organizzazione dell'offerta formativa e del lavoro scolastico da svolgere.
Il problema, per la fascia di scolarità di base, è storico perché nato con la sovrapposizione di spezzoni di scuola istituiti in epoche diverse e con finalità e ordinamenti diversi. È l'annosa questione della continuità. Sottolineiamo perciò che le soluzioni organizzative dovrebbero andare nella direzione di rendere più agevole e coerente l'attuazione di un curricolo progressivo, nei diversi ambiti del sapere, che permetta - nel rispetto dei tempi di sviluppo e di apprendimento di tutti i bambini - di far acquisire, a un livello alto e durevole, gli strumenti alfabetici e di consolidare, attraverso un adeguato approccio disciplinare, le conoscenze acquisite.
Il passaggio dagli ambiti disciplinari alle discipline richiede un approccio curricolare verticale e progressivo, non la cesura, come invece si propone nella legge, nel passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria. La riproposizione della separazione tra scuola elementare e scuola media è anacronistica e continuerà a rappresentare un fattore non marginale di dispersione scolastica.
Segnaliamo inoltre che il destino degli Istituti comprensivi, dove sono da anni avviate pratiche positive di continuità curricolare, non viene neanche preso in considerazione nel provvedimento legislativo, lasciando così nella più totale incertezza oltre 150.000 insegnanti che in tali Istituti operano!

 


6. La personalizzazione dei percorsi
Esprimiamo preoccupazione per quanto scritto al punto f, dell'art. 2, laddove si dice che la scuola media è "caratterizzata dalla diversificazione didattica e metodologica in relazione allo sviluppo della personalità dell'allievo". L'espressione fa pensare a una diversificazione di percorso che si avvicina molto alle classi differenziali o a gruppi di allievi divisi per livelli di capacità.
La personalizzazione dei piani di studio e dei percorsi, spesso richiamate nel testo legislativo, non è la stessa cosa dell' individualizzazione, pratica didattica consolidata nella scuola dell'obbligo, a partire dalla legge 517/77 che, attraverso la ricerca di percorsi diversificati, ha avuto l'obiettivo di portare tutti gli allievi a un livello comune di apprendimento, secondo una logica inclusiva.
La personalizzazione esprime invece un'idea di diversificazione permanente tra chi è più bravo e chi meno, presume percorsi distinti, destinati a cristallizzarsi anche in funzione delle scelte successive. Nell' individualizzazione prevale l'idea di scuola come servizio alla persona e al Paese, nella personalizzazione prevale l'idea di scuola come puro servizio alla persona (cioè alle famiglie), tant'è che nel testo legislativo si trova scritto: "nel rispetto delle scelte educative delle famiglie", (punto l dell'art. 1), che potrebbe significare: la famiglia chiede, la scuola risponde.

 




7. Il biennio
In riferimento ai percorsi di istruzione e di formazione proposti per la fascia scolare successiva alla scuola media, esprimiamo fortissima contrarietà alle scelte contenute nel disegno di legge delega, approvato al Senato.
Negli ultimi anni la scuola ha operato nella prospettiva di considerare il primo biennio della scuola secondaria superiore come unitario e conclusivo dell'obbligo di istruzione e i diciotto anni come la tappa conclusiva del diritto/dovere alla formazione.
Il biennio della scuola secondaria superiore è infatti lo snodo essenziale per lo sviluppo e il consolidamento di conoscenze e competenze fondamentali, su cui le scuole hanno costruito esperienze di grande significato che non possono oggi essere ignorate.
La scelta dell'indirizzo - che dà concretezza all'orientamento svolto durante la scuola di base - svolge un ruolo non marginale per la crescita della persona a livello culturale e affettivo. Tale scelta dovrebbe poter essere sperimentata, modificata oppure confermata al termine del biennio. Per tale motivo la frequenza del primo biennio degli indirizzi di scuola superiore dovrebbe avvenire tra percorsi scolastici caratterizzati da una sostanziale equivalenza formativa.
La scelta, dopo la terza media, fra contrapposti canali per nulla equivalenti dal punto di vista formativo - e infatti l'allievo proveniente dal canale dell'istruzione e della formazione professionale che voglia sostenere gli esami di Stato deve passare nel canale dell'istruzione liceale, dopo un anno aggiuntivo di frequenza - non corrisponde ai bisogni formativi dei giovani né alle esigenze del mondo del lavoro.
È invece determinante, ai fini dell'apprendimento successivo e dell'apprendimento per tutto il corso della vita, considerare il biennio di scuola superiore come conclusivo dell'obbligo di istruzione al fine di non interrompere l'esperienza scolastica in una età in cui il consolidamento culturale non si è ancora pienamente realizzato.
Dopo l'obbligo, a 16 anni, percorsi integrati tra istruzione e formazione professionale corrisponderanno meglio alle esigenze formative dei giovani.
Sottolineiamo inoltre che differenziare precocemente i percorsi formativi non risolve il problema dei ragazzi in difficoltà mentre mette in discussione la durata attuale dell'obbligo di istruzione che, di fatto, torna ad essere di 8 anni - tant'è che il testo legislativo abolisce la legge 9/99 -, ricollocando l'Italia in coda fra i Paesi europei in quanto a durata del percorso obbligatorio di istruzione.
L'espressione diritto-dovere all'istruzione fino ai 18 anni non garantisce il diritto all'istruzione e a un apprendimento di qualità per ogni ragazzo e ragazza; moltissimi di loro infatti si troveranno a 14 anni nel cosiddetto secondo canale, dove sarà possibile saltare alcune tappe formative, in nome di ipotetiche e precoci "vocazioni" al lavoro.
Rileviamo infine che il termine "obbligo" non è da considerare desueto dal momento che richiama l'impegno della Repubblica a "istituire scuole statali per tutti gli ordini e gradi" (art. 33, c. 2 della Costiuzione) e l'obbligo (della Repubblica) a impartire a tutti, per almeno 8 anni, un'istruzione gratuita (art. 34 della Costituzione)

 


 


8. La valutazione
Nel merito della valutazione "della qualità del sistema educativo di istruzione e formazione" da parte dell'Istituto nazionale per la valutazione, sottolineiamo l'opportunità di rendere le procedure e i contenuti delle prove di valutazione di sistema coerenti con le scelte culturali e curricolari della scuola dell' autonomia. La fase di sperimentazione (Progetto pilota 1), che ha coinvolto più di 2800 scuole, ha fatto emergere molte contraddizioni in tal senso. Sottolineiamo inoltre che i contenuti delle prove e le modalità delle verifiche di sistema, potrebbero, una volta a regime, indurre insegnanti e studenti a "piegare" l'attività didattica in funzione delle prove stesse, più che al miglioramento della qualità dell'insegnamento-apprendimento. Sottolineiamo infine che la strada della valutazione dei risultati scolastici, da parte di un Istituto esterno alla scuola, è stata percorsa da altri Paesi con effetti negativi sui sistemi scolastici.


9. La quota regionale
Esprimiamo contrarietà sulla quota riservata alle Regioni relativamente ai piani di studio. Riducendo la quota nazionale vengono infatti ridimensionati l'unitarietà del sistema scolastico e i margini di flessibilità di cui le scuole hanno bisogno per realizzare, in relazione a situazioni concrete, quelle azioni di sostegno, recupero, approfondimento utili a migliorare l'apprendimento.

 


 


10. La formazione iniziale e in servizio
Condividiamo la scelta di dare pari dignità e durata per tutti i docenti ai Corsi di laurea specialistica, come condividiamo la prospettiva di una laurea specialistica finalizzata all'insegnamento; pur tuttavia riteniamo che restino fondamentali nodi da sciogliere, nell'ambito dei decreti applicativi, circa la struttura dei due anni di specializzazione, le modalità con cui la laurea specialistica abilita alla professione, il successivo periodo di tirocinio.
Sottolineiamo la necessità di individuare un giusto rapporto tra saperi disciplinari, didattiche e scienze dell'educazione, anche in funzione dei livelli di scolarità, e di rivedere le classi di concorso per renderle coerenti con le abilitazione conseguite.
Esprimiamo invece contrarietà circa la soluzione prevista per l'accesso ai ruoli organici del personale docente. Affidare alle università le attività di tirocinio per i contratti di formazione lavoro, attraverso la gestione di apposite strutture di ateneo - che dovrebbero anche curare i centri di eccellenza per la formazione degli insegnanti - vuol dire non tener conto della funzione, delle competenze e della cultura della scuola.
La scuola non può essere l'anello terminale - che stipula convenzioni proposte dagli atenei - di decisioni prese dall'università su un terreno non di sua competenza.
In tale ipotesi si rileva una concezione burocratica e gerarchica del rapporto fra scuola e università che non tiene conto della assoluta diversità - per finalità, compiti, modalità di intervento - tra università (anche quando si occupa di didattica) e scuola!
Facciamo notare che l'università non ha, per sua storia, interesse a gestire tali strutture né ha le competenze per guidare lo svolgimento delle suddette attività - come l'esperienza delle Ssis ha in molti casi dimostrato-.
A maggior ragione non condividiamo il criterio di affidare all'università la formazione in servizio dei docenti. Questa ipotesi sancisce un giudizio negativo sulle capacità e sulle competenze professionali degli insegnanti e annulla il principio dell'autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo delle Istituzioni scolastiche autonome - principio introdotto dall'art.21 (in particolare punti 9 e 10) della legge n. 59/97 e dall'art. 6 del Dpr 275/99 - che riconosce specificità e autonomia al sapere insegnato; attribuisce valore alle competenze che si formano nella scuola, alla esperienza, alla riflessione, alla ricerca sulle pratiche didattiche; riconosce gli insegnanti come esperti del sapere insegnato e la comunità dei docenti come il contesto scientifico di riferimento relativo a tale sapere.
L'insegnamento infatti non è una semplice trasmissione di sapere, non si costruisce in astratto, ma è il risultato di un faticoso cammino che può essere percorso solo nella scuola, in un confronto continuo fra docenti che riflettono, individualmente e collegialmente, sul lavoro che svolgono, adeguando le pratiche didattiche in funzione dei bisogni e dei ritmi di apprendimento degli allievi e dei risultati raggiunti.
L'università e la scuola devono perciò trovare su questo terreno una costruttiva integrazione, al fine di valorizzare le reciproche competenze, in una gestione paritaria e collaborativa in strutture che siano davvero luoghi di progetto, di scambio e di confronto continui.


11. Effetti della legge finanziaria
Intendiamo sottolineare, infine, la contraddizione che emerge tra le indicazioni contenute nel testo del disegno di legge delega e le scelte che in base alla legge finanziaria 2003 si stanno mettendo in atto. Le stesse indicazioni del ministro in merito alla riduzione degli organici sollevano una forte contraddizione (dalla scuola elementare a quella superiore, fino agli interventi per l'handicap). L'acquisizione di fondi da investire nella didattica non può essere ricondotto al semplice risparmio sulle spese per il personale effettuato peraltro su snodi non marginali nel determinare la qualità stessa della didattica.

 

(11.12.2002)