LEGAMBIENTE
SCUOLA E FORMAZIONE
Osservazioni
sulle
INDICAZIONI NAZIONALI PER I PIANI DI STUDIO PERSONALIZZATI
PREMESSA
In premessa ci teniamo a sottolineare che i
temi posti dal documento ministeriale “Indicazioni nazionali per i Piani
di studio personalizzati” riguardano questioni molto rilevanti per il
futuro del sistema scolastico italiano, che avrebbero meritato un ampio
lavoro di discussione e approfondimento per confrontarsi con le ragioni
degli altri e giungere a livelli più maturi e più condivisi di elaborazione.
Ci sembra perciò che la procedura proposta, in base a cui ci si chiede solo un pronunciamento generale
sul documento, non possa rispondere alla delicatezza del percorso avviato.
Tenuto conto, quindi, di quanto sopra detto e nella speranza di fare
cosa utile, abbiamo deciso di presentare alcune osservazioni sugli aspetti
che ci sembrano essere i più rilevanti.
Il testo che segue va quindi assunto come una sorta di promemoria sintetico,
scontando per questa via gli inevitabili schematismi e la parziale superficialità
dell’argomentazione, augurandoci che sia possibile nell’immediato futuro,
e con quei tempi più distesi che l’importanza
dell’argomento richiederebbe, avviare un confronto approfondito e serio.
TRE
QUESTIONI
Le “Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati” nella
Scuola dell’Infanzia, nella
Scuola Primaria e nella Scuola Secondaria di 1° grado a nostro avviso
pongono tre problemi fondamentali:
1. la sostituzione della logica curricolare con quella dei Piani di studio
2. il ruolo delle discipline.
3. l’impianto organizzativo
A queste tre questioni, si aggiungono, anche per la particolare e approfondita
esperienza che abbiamo acquisito sul campo, alcune Osservazioni in merito
all’ampio settore della Convivenza Civile.
1. Logica curricolare e Piani di studio
Dalla lettura delle Indicazioni nazionali emerge, dal nostro punto di
vista, con evidenza che non ci troviamo di
fronte ad una semplice modificazione terminologica, ma ad un vero e
proprio cambiamento di rotta rispetto al DPR 275/99. La proposta, che
sostanzia i Piani di Studio, interviene infatti
su due aspetti molto rilevanti:
- la
responsabilità (livello di)
- la
prescrittività (livello di)
1.1
Partiamo dalla responsabilità. Con il termine “Piani di studio” si enfatizza
molto il ruolo
dello studente come individuo che, attraverso l’intervento della propria
famiglia, determina e pianifica il proprio percorso di
apprendimento ed educazione. Nelle Raccomandazioni, che accompagnavano
la prima versione delle Indicazioni nazionali, si affermava che “resta
la responsabilità progettuale della scuola e dei docenti che devono
offrire percorsi formativi, ma risulta ancora
più netto di prima il principio della personale responsabilità educativa
dei ragazzi, dei genitori e del territorio nello sceglierli e nel percorrerli
ed acquisirli”. Non ci convince la distinzione netta di ruolo tra una
scuola che offre opportunità e la famiglia che sceglie. L’enfasi posta
sulla personalizzazione riduce la responsabilità
della scuola e dei docenti, che si limitano ad offrire una certa varietà
di prodotti formativi con il pericolo di inseguire le richieste personalistiche
che arrivano da studenti e famiglie, perdendo di vista il proprio ruolo
e funzione. Che fare nei casi in cui le scelte “imposte” dalle famiglie
fossero non coerenti con quelle didattico educative
pedagogiche della scuola? Come individuare il “limite invalicabile”?
Lasciare ai ragazzi e ai genitori la responsabilità di scegliere ha
il sapore dell’abdicazione e limita la libertà di
insegnamento.
Di fatto si sposta la potestà decisionale, e quindi la responsabilità,
dall’organo professionale (costituito a seconda dei
casi dal Gruppo di insegnanti che opera con l’allievo o dal Collegio
dei docenti fino ad arrivare all’intera comunità scolastica) alla famiglia
che contratta con uno degli insegnanti, il tutor,
il percorso ottimale per il proprio figlio.
La logica curricolare prevede invece che sia
la scuola, attraverso i suoi organi professionali, ad elaborare, progettare,
organizzare e gestire un progetto culturale coerente
con le indicazioni nazionali e capace di interpretare e mediare
le esigenze locali (che non si esauriscono in quelle rappresentate dai
genitori). All’interno di questa struttura unitaria, coerente e condivisa
trovano spazio e possibilità di realizzarsi al meglio i percorsi personalizzati.
Nella logica curricolare la responsabilità
rimane saldamente in mano agli organi professionali preposti, nella
logica qui delineata il baricentro si sposta su una famiglia che contratta
con il tutor.
E’ come se un paziente andasse dal proprio medico e “contrattasse” la
diagnosi e la terapia; paradossalmente nel sistema sanitario questo
è avvenuto in alcuni casi, ma solo quando si è trasformata la professione
medica in una attività impiegatizia e burocratica
- il “medico della mutua”. Non vorremmo che questo fosse l’esito anche
per gli insegnanti, trasformati da professionisti dell’apprendimento
a esecutori di disegni e volontà espressi da
“utenti / clienti”, ovvero le famiglie, che non possono che essere degli
“incompetenti” sul piano tecnico – professionale dell’apprendimento
(in questo ambito non è proprio vero che “il cliente ha sempre ragione”).
Se poi questa scelta, proposta dal documento, allude alla valutazione
che tale “incompetenza” è diffusa nel corpo insegnante, allora il limite
della categoria andrebbe esplicitamente denunciato ed andrebbe affrontato
con ben altri strumenti (primo fra tutti quello di una formazione efficace).
Ciò che ci preoccupa è che questo modo di coinvolgere le famiglie, con
un sostanziale sbilanciamento a loro favore nella responsabilità delle
scelte, viene assunto come principio
ideologico, di per sé positivo, e non si valuta con attenzione quali
effetti possa determinare in tutti quei casi (e non sono pochi) in cui
le famiglie non sono in grado, per difficoltà sociali, culturali, o
semplicemente per “disattenzione”, di compiere una scelta “libera” e
capace di garantire la vocazione del bambino e del ragazzo.
Tale logica, che ispira i Piani di studio personalizzati, è confermata
ed ulteriormente strutturata nella proposta
del portfolio, con il rischio, per altro, di depotenziare
uno strumento che, se ben governato, potrebbe essere utile per migliorare
i processi di insegnamento / apprendimento.
Secondo noi il portfolio è un ottimo strumento
di lavoro, in quanto biografia educativa e
scolastica che sorregge e potenzia la continuità, ed ha senso se è stimolo
e condizione per un’attenta opera di ri-progettazione
per il singolo allievo, fatta dall’équipe professionale che collegialmente
riesce meglio a bilanciare gli errori di valutazione del singolo.
Nelle Indicazioni nazionali invece si confonde la collaborazione, il
coinvolgimento e la partecipazione delle famiglie nella diagnosi con
l’assunzione di responsabilità, che non può non essere dell’insegnante,
come individuo e come organo professionale collettivo. La responsabilità
professionale non è mai negoziabile; il medico non negozia la cura con
il malato, la concorda, se è il caso, ma, se rimane differenza di
opinioni, alla fine è il professionista che si assume la responsabilità
di prendere la decisione. Senza considerare che la competenza su come
si compila il portfolio e quindi la possibilità di fare scelte ragionate
per la sua compilazione è comunque dell’insegnante.
In ultima analisi, per quanto attiene ai rapporti di responsabilità,
ci sembra che nelle Indicazioni Nazionali si sottovaluti molto un fatto
di grande rilievo: tra le funzioni educative più importanti
della scuola c’è quella di accompagnare la crescita dei bambini e dei
ragazzi anche attraverso una presa di distanze dalla famiglia. Per svolgere
al meglio questo compito, la scuola deve “difendersi”, ovvero non può
rimanere esposta alle sempre più numerose perturbazioni che anche alla
scuola arrivano dalla fragilità (psicologica, culturale, di ruolo) delle
persone che compongono la famiglia e che ne determinano la drammatica
crisi dei nostri giorni.
1.2 Il secondo aspetto critico riguarda la prescrittività
delle Indicazioni. Il documento si
“lascia andare” ad una puntigliosa elencazione di conoscenze e abilità,
disciplina per disciplina, che non lascia margini di manovra, se non
gli stessi previsti dai programmi di una volta, tanto è vero che in
più punti, soprattutto quando si parla delle Unità di
Apprendimento, si dice che compito delle scuole è organizzare,
programmare e tradurre in didattica le Indicazioni (“è compito esclusivo
di ogni scuola autonoma e dei docenti, infatti, nel concreto della propria
storia e del proprio territorio, assumersi la libertà di mediare, interpretare,
ordinare, distribuire ed organizzare gli obiettivi specifici di apprendimento
negli obiettivi formativi, nei contenuti, nei metodi e nelle verifiche
delle Unità di Apprendimento” - p. 5 Indicazioni nazionali – Scuola
primaria).
Il compito degli insegnanti viene limitato alla traduzione della “mappa
culturale, semantica e sintattica, che essi devono padroneggiare anche
nei dettagli” in “azione educativa ed organizzazione didattica coerente
ed efficace” (p. 4 Indicazioni nazionali – Scuola primaria), stando
attenti che “l’ordine epistemologico di presentazione delle conoscenze
e delle abilità che costituiscono gli obiettivi specifici di apprendimento
non va confuso con il loro ordine di svolgimento psicologico e didattico
con gli allievi”. Legittimamente ci chiediamo: cosa c’è di diverso in
tutto ciò, al di là delle formule linguistiche
adottate, spesso inutilmente farraginose, da quanto da sempre fanno
e hanno fatto gli insegnanti nell’era dei programmi ministeriali? E cosa c’entra tutto ciò con l’autonomia scolastica così
come disegnata dal DPR 275/99? A noi sembra che tutto ciò non abbia
nulla a che fare con il compito di mediazione culturale che l’autonomia
affida agli istituti scolastici, che è anche
opera di elaborazione e progettazione culturale, e non solo di “traduzione”
nel tecnicismo didattico.
Inoltre ci sembra che gli elenchi di conoscenze e abilità prescritti
dalle Indicazioni siano molto ampi, e ciò lascia non poche perplessità
sulla possibilità reale, da parte delle scuole, di utilizzare la quota
a loro disposizione per fare un progetto organico di scuola che non
si limiti a tradurre in didattica le indicazioni.
Tutto concorre a delegittimare il ruolo culturale, progettuale e pedagogico
delle scuole: non c’è mai un riferimento al curricolo di scuola, ovvero
alla progettazione culturale e pedagogica che è responsabilità specifica
del Collegio. Le scelte progettuali e di percorso sembrano essere solo
appannaggio delle famiglie, che si incontrano
con un insegnante, il tutor. Il cambiamento è evidente, si passa da un organismo
professionale collettivo, che ha capacità e potestà progettuale, ad
una negoziazione tra singoli individui. D’altra parte questa scelta,
per quanto, a nostro modo di vedere, nociva ed antistorica, è coerente
con il quadro complessivo della riforma, così come determinato dalla
legge 53/03, dove la quota a disposizione delle scuole, indispensabile
per progettare il curricolo di scuola (vera anima dell’autonomia scolastica),
è stata sostituita dalla quota a disposizione delle Regioni (ma su questo
abbiamo già avuto modo, in precedenti “promemoria” di presentare le
nostre argomentazioni critiche).
Insomma dalla logica degli Obiettivi Specifici di
Apprendimento ciò che viene penalizzato è
l’unitarietà della progettazione realizzata dalla scuola. Non è quindi
un caso che in nessun punto mai si parli di
ricerca educativa, che, evidentemente, non è riconosciuta come grande
fattore di innovazione e di “capacità evolutiva” del sistema scolastico.
Eppure, senza di essa, nessuna modificazione
scolastica innovativa si può realizzare – e certo la ricerca educativa
ha bisogno di tempi riconosciuti, di risorse dedicate, di modalità di
lavoro collegiale legittimate, di assunzione di responsabilità condivisa
e diffusa.
L’unica responsabilità professionale prevista è quella di tradurre in
didattica le Indicazioni, attenti a garantire alle famiglie la possibilità
di scegliere tra più opzioni; un po’ poco per
parlare di autonomia scolastica ma sufficiente per dire che si torna
alla logica dei programmi ministeriali.
2. Il ruolo delle discipline
Strettamente collegato alle argomentazioni precedenti è il tema del
ruolo delle discipline, che ci sembra si presenti sotto due aspetti:
la disciplinarizzazione precoce della scuola
primaria, la riduzione del ruolo formativo delle discipline alla dimensione
nozionistica e contenutistica.
2.1 Ci sembra pedagogicamente sbagliato presentare fin dalla prima elementare
gli Obiettivi specifici di apprendimento sotto forma di elenchi disciplina
per disciplina, perché così facendo si nega esplicitamente non solo
la diffusa pratica degli ambiti, che ha fin qui dato risultati più che
positivi, ma anche la delicatezza di un passaggio progressivo dalla
Scuola dell’Infanzia ad un ordine superiore. La scelta di presentare
fin dalla prima elementare gli elenchi disciplina
per disciplina non potrà non indurre atteggiamenti conseguenti nell’azione
didattica degli insegnanti. Nonostante, infatti, nel testo si parli
di “bisogno continuo di unità della cultura” (p.3
Indicazioni – Scuola primaria) è evidente che queste petizioni di principio
rimangono lettera morta di fronte alla forza comunicativa dirompente
di un elenco che apparentemente semplifica i problemi e che “decreta”
l’esistenza delle singole discipline fin dall’inizio della scuola elementare.
2.2 La scelta operata di presentare sotto forma di elenchi gli Obiettivi
specifici di apprendimento esplicita una filosofia preoccupante, dal
nostro punto di vista. Il limite, per noi, più grave della proposta
sta nel fatto che dall’elenco puntiglioso ed enciclopedico di conoscenze
ed abilità risulta del tutto esclusa la dimensione
trasversale tra le discipline, ovvero quella parte di “costruzione di
competenze”, che soprattutto nella scuola di base – primo ciclo – ha
un ruolo formativo ineludibile, ovvero la
formazione di atteggiamenti mentali, di categorie logiche, di competenze
trasversali, sia sul piano cognitivo (riconoscere le connessioni tra
…, saper usare le diverse tipologie di rapporto causa – effetto, ecc.)
che su quello sociale – relazionale (lavorare insieme, gestire conflitti
e diversità di opinioni, , ecc.), che non fanno riferimento ad una specifica
disciplina, ma dovrebbero attraversare tutto il processo di apprendimento,
come principi organizzatori e fondanti rispetto alla successiva capacità
di continuare ad apprendere.
Inoltre viene negato quello che rappresenta
oggi il campo di crescita cognitiva di un Paese, ovvero il sapersi muovere
con familiarità nelle aree di confine tra le discipline che oggi rappresentano
la vera sfida epistemologica a cui si devono preparare le persone.
Presentare poi gli Obiettivi specifici di apprendimento
sotto forma di elenchi, divisi per conoscenze ed abilità, al di là dei
riferimenti all’ologramma, su cui torneremo, induce negli insegnanti
l’idea che ad ogni Obiettivo, esplicitato in una frase, corrisponda
un contenuto, ed i contenuti finiscono per essere l’unico fine dell’attività
didattica, l’obiettivo di un insegnamento lineare-diretto,
mentre le discipline non servono più a fornire i principi organizzatori
per la lettura della realtà.
Non solo. Per ogni disciplina alla puntigliosità dell’elencazione si
aggiunge la straordinaria
sovrabbondanza di conoscenze e abilità e se compito della scuola è organizzare
attività con lo scopo di trasformare in competenze l’elenco di conoscenze e abilità indicato, o si raddoppia il tempo
scuola o si pensa che le competenze corrispondano strettamente alle
nozioni in cui si può tradurre ciascuna di quelle formulazioni.
Si pone quindi, sempre dal nostro punto di vista, un altro problema
molto importante: la deriva nozionistica. Il rischio nozionistico viene segnalato nelle Raccomandazioni che accompagnavano
la versione precedente delle Indicazioni: “Rischio [del contenutismo],
a dire il vero, molto alto se si interpretassero le conoscenze e le
abilità che costituiscono gli obiettivi specifici di apprendimento come
l’indice di un’enciclopedia, invece che come la carta topografica”.
Il problema è che mancano le strutture logiche trasversali intorno a
cui si organizza la mappa, una mappa non è data solo dall’elenco dei
toponimi, ma dall’esplicitazione della logica interpretativa ad essa sottesa e che la organizza. In assenza di questi principi
organizzatori della mappa, dall’elenco degli obiettivi specifici di apprendimento emerge un solo principio organizzatore,
il contenuto.
Diviene allora legittimo chiedersi cosa si intenda
per livelli essenziali, se gli Obiettivi specifici di apprendimento
indicano “i livelli essenziali di prestazione che le scuole pubbliche
della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini
per mantenere l’unità del sistema educativo nazionale di istruzione
e di formazione”.
Questi livelli sono rilevabili attraverso la verifica del possesso delle
conoscenze e abilità prescritte dalle Indicazioni? Di tutte? Se la proposta
è sovrabbondante e non entrerà mai in un anno scolastico per giunta
ridotto, in base a quale criterio si sceglie?
Inoltre se la corrispondenza tra conoscenze ed abilità con i contenuti
è così immediato, l’unico criterio in base a cui valutare
i livelli essenziali sarà la verifica del possesso di quei contenuti.
Se questo è, ci sembra davvero difficile che
la scuola che si va disegnando possa sfuggire all’equivoco implicito
in quegli elenchi, ovvero alla deriva del nozionismo, resa ancora più
probabile dalla disciplinarizzazione precoce.
D’altra parte la nostra interpretazione è ampiamente giustificata quando,
tra gli obiettivi specifici di apprendimento,
troviamo per la prima elementare “cantare in coro canzoncine in lingua
straniera e se necessario mimarle”. Né si sfugge alla deriva nozionistica
anche là dove, sul versante opposto, gli obbiettivi
indicati sono sovradimensionati, perché in questi casi ridurre la comprensione
di processi e di sistemi complessi ad un po’ di nozioni è inevitabile,
come ad esempio nel caso della geografia, sempre in prima elementare,
dove tra gli obiettivi si indica quello di conoscere “elementi costitutivi
dello spazio vissuto: strutture, funzioni, relazioni”, o in scienze
sempre in prima “identificazione di alcuni materiali” e “caratteristiche
proprie di un oggetto”, obiettivi che potrebbero essere accolti se fossero
gli unici su cui lavorare per tutto l’anno, ma se accompagnati da altri
dello stesso spessore non possono che far cadere il processo di apprendimento
in un vuoto nozionismo.
3.
L’organizzazione
Le scelte organizzative sono la chiave di lettura per interpretare le
proposte pedagogiche. Mentre sul piano pedagogico ci sembra prevalga,
come già detto, un ritorno alla logica dei programmi, contro quella
del curricolo, accanto ad un pericoloso processo di “deresponsabilizzazione
professionale”, ciò che cambia radicalmente è la struttura organizzativa.
Inoltre non ci convince la scelta di presentare la parte organizzativa
in questa veste ed in questo contesto, quando
ancora i decreti attuativi non sono stati approvati. Ci sembra, infatti,
del tutto anomalo che le questioni fondamentali vengano
trattate in una paginetta dedicata a “vincoli
e risorse”, in cui si dicono cose fondamentali e si propongono decisioni
fondamentali, senza alcuna argomentazione né collegamento esplicito
con l’ampia parte sui piani di studio.
Le scelte organizzative più discutibili ci sembrano
essere le seguenti.
3.1 La proposta dei Laboratori presenta due ordini di problemi.
Il primo è che la didattica
laboratoriale è un modo di fare scuola, che
non può essere relegato ad alcuni temi (secondo quanto esplicitato nelle
raccomandazioni - che somigliano troppo alle materie di serie B), che
costruisce contesti di apprendimento che hanno
bisogno di spazi, di risorse professionali ed economiche aggiuntive
all’organico “normale”. Non è un caso che le sperimentazioni avviate,
senza risorse aggiuntive, dicono che il più delle volte l’attività di
laboratorio si è ridotta a una attività rivolta
all’intera classe. Il laboratorio, proprio per i processi che avvia
ha bisogno di piccoli numeri, “sovrabbondanza”di docenti, un organico
cioè funzionale al curricolo di scuola.
Il secondo problema si evince dalle Raccomandazioni, che nella prima
versione hanno accompagnato le Indicazioni nazionali, dove si parlava
di 6 laboratori (informatica, lingue, attività espressive, progettazione,
attività motorie e sportive, recupero e sviluppo degli apprendimenti).
Innanzitutto perché 6 e non 8 o 3 o 10, e perché quei 6: dov’è la libertà
e la potestà progettuale della scuola? E se
la scuola volesse fare tutto per laboratori? Il quadro si aggrava poi
se si arriva, come nel caso del Laboratorio di progettazione, ad una
minuta prescrizione del che fare e con quali
strumenti; ma davvero qualcuno pensa che gli insegnanti siano così sprovveduti
da aver bisogno di queste minute “esemplificazioni” che rischiano solo
di trasformarsi in elementi prescrittivi e di ulteriormente deresponsabilizzare
e deprimere il valore intellettuale della professione?
3.2 La proposta dei Laboratori di livello. Nel testo proposto i Laboratori
di livello sono
presentati come una delle opportunità organizzative. Ci sembra che in
realtà nascondano un rischio molto grave: istituzionalizzare la separazione
tra capaci e non capaci, a danno della maturazione degli uni e degli
altri. Nelle Raccomandazioni si segnalava una giusta preoccupazione
sui rischi del lavorare per gruppi omogenei e sul valore, confermato
dalla ricerca educativa, del lavoro per gruppi eterogenei. Anche se
poi in quello stesso testo, in altri passaggi – ad es. Scienze e Inglese
– i Laboratori di livello venivano introdotti
come fatto naturale e neutro, senza controindicazioni, senza esplicitare
il problema che si porrà ai docenti, ovvero che non è affatto dimostrato
che l’omogeneità accresca la capacità di apprendimento, quando ci muoviamo
in una dimensione educativa.
3.3 La forte riduzione dell’orario obbligatorio e della quota di frequenza
indispensabile per
poter superare l’anno. Queste misure sono ulteriormente aggravate dalla
riorganizzazione tra orario obbligatorio ed opzionale,
perché si prevede la possibilità per lo studente di far rientrare nel
“suo” orario riconosciuto come valido le ore opzionali, con il risultato
che un ragazzo potrebbe fare la scuola media frequentando poco più di
600 ore di curricolo e facendone circa altre 200 di falegnameria. Ci
sembra che così, con la motivazione dell’orientamento alle scelte successive,
si voglia rompere di fatto la scuola media
unificata, facendo rinascere il vecchio Avviamento professionale sotto
le vesti di percorsi differenziati e “personalizzati”, decisi scuola
per scuola.
3.4 La definizione di una figura di docente coordinatore – tutor rischia (ne abbiamo la
convinzione) di riproporre anche nella scuola elementare quel grande
vizio della scuola italiana che è rappresentato dalla percezione nelle
famiglie e negli allievi (e spesso tra gli stessi docenti) dell’esistenza
di discipline ed attività di serie A e di serie B. Qui abbiamo da una
parte il docente coordinatore tutor e dall’altra
i docenti di laboratorio, due scuole, due velocità, due attenzioni diverse
nello stesso edificio.
3.5 Infine, sul piano gestionale e organizzativo,
come la sperimentazione sta dimostrando, la compilazione del portfolio
comporta un alto numero di ore di lavoro. Se queste non saranno riconosciute
come luogo di lavoro collettivo, il lavoro che richiede la compilazione
del portfolio si trasformerà rapidamente in
adempimento burocratico, per ciò stesso inutile, come è stato per le schede di valutazione di qualche anno
fa. Senza considerare che questa attività,
se non si incrementa proporzionalmente la disponibilità oraria degli
insegnanti, toglierà spazio e tempo proprio al lavoro di progettazione
dell’apprendimento, che paradossalmente il portfolio
vorrebbe migliorare. Se a questo si aggiunge la differenziazione di
responsabilità dovuta all’inserimento del coordinatore tutor
e la si incrocia con l’aumento di numero di
alunni per classe e con l’aumento delle differenze di età nella stessa
classe, provocate dall’anticipo, appare evidente che il rischio di trasformare
in adempimento burocratico il portfolio sarà
un esito inevitabile. Inoltre ci risulta difficile
capire perché, in regime di autonomia scolastica, si propongano forme
di compilazione così minutamente prescrittive,
tanto da delegittimare qualunque “personalizzazione”, ad opera del Collegio,
dello strumento.
Ci preme infine sottolineare che il livello
di prescrittività delle Indicazioni Nazionali, già sopra
denunciato, rappresenta un problema ancora più grave perché ci troviamo
in un contesto organizzativo di riduzione delle ore di insegnamento.
Inoltre, per il contesto in cui si dovrà operare (meno risorse umane, meno
ore, diversi livelli di coinvolgimento e di responsabilità nel gruppo
degli adulti) c’è il rischio ,più che probabile, che il Piano di studio
personalizzato si ridurrà nell’indicare quali laboratori deve frequentare
il bambino / ragazzo e a quale livello.
4.
Educazione alla convivenza civile
Su questo terreno ci sentiremmo particolarmente
legittimati a soffermarci, visto che è in questo ambito che la nostra
associazione si è impegnata fin dalla nascita per radicare una metodologia
di qualità, arrivando anche ad individuare un sistema di indicatori
di qualità, oggi acquisito dai livelli più avanzati della ricerca in
educazione ambientale. Crediamo, inoltre, sia unanimemente riconosciuto
che Legambiente, a partire dai problemi educativi
delle così dette educazioni trasversali, ha sviluppato una critica costruttiva
ed ha svolto un ruolo positivo nell’evitare
che nella pratica della scuola italiana le educazioni trasversali si
strutturassero come ambiti separati dai processi curricolari di apprendimento ed educazione. Ma per quanto detto in premessa e nella speranza che una
discussione vera possa davvero avviarsi, qui ci limitiamo a segnalare
i “titoli” dei problemi principali.
4.1 Alcune contraddizioni. E’ una materia o no? Si dice di no, ma che
vuol dire ologrammatica? – ci si permetta
a questo proposito di sollevare un problema lessicale: è davvero così
pregnante il termine ologrammatico? a
noi non sembra, anche perché esistono già nella letteratura e nella
pratica didattica termini come logica della complessità, approccio sistemico,
approccio olistico, che meglio e di più potrebbero
dare ragione di una intrinseca trasversalità.
Non ha un suo orario – e questa è una scelta condivisibile -, se non
indirettamente nel laboratorio di progettazione, allora chi la fa? Quanto
nell’anno, come si fa a trattare tutti quei contenuti, se sono obbligatori,
indicati negli elenchi degli Obiettivi specifici di
apprendimento?
E’ una traccia, una proposta di lavoro? quali
sono le competenze logico – concettuali e sociali di tipo trasversale
per le quali quei temi sono indispensabili? Attraverso quale metodologia
si costruiscono queste competenze trasversali, che proprio
per la loro natura, si costruiscono più attraverso la metodologia ed
il processo che non per la trattazione specifica di questo o quel contenuto?
4.2 La trattazione di questo tema lascia scoperto un nodo strategico
e fondamentale, non è vero che studiare la Costituzione sia condizione
necessaria e sufficiente per essere un buon cittadino, il circuito che
collega conoscenze, comportamenti e atteggiamenti mentali è molto più
complesso e contraddittorio di quanto qui non si voglia far vedere.
Il risultato è il fallimento, a cui abbiamo assistito in questi anni,
di tutte quelle azioni educative che, misurandosi con questi temi non
disciplinari ma direttamente orientati a condizionare il comportamento,
non hanno saputo farsi carico della complessità dei processi che si
volevano attivare.
4.3 Se questo fin qui indicato è senza dubbio il nodo imprescindibile
che va sciolto pena il totale fallimento di questa parte delle Indicazioni,
ci preme sottolineare qui un altro aspetto.
Nelle Indicazioni, anche se con rapidi passaggi, si parla del valore
della partecipazione e del volontariato, (citato nel profilo finale),
ma questi elementi di civiltà non vengono mai
ripresi negli Obiettivi specifici di apprendimento, sostituiti da un’elencazione,
che non temiamo definire casuale, di temi e atteggiamenti che non delineano
nessun campo organico di azione.
Manca invece in tutto il documento il riferimento
alla democrazia, una dimenticanza?
Due
osservazioni finali
Ci sembra che sia del tutto sovradimensionato quanto detto nel profilo
finale (p.6) che a 13 anni il ragazzo “elabora,
esprime e argomenta un proprio progetto di vita, che tiene conto del
percorso svolto e si integra nel mondo reale
in modo dinamico ed evolutivo”. La nostra esperienza quotidiana ci porta
a dire che a questa età il progetto di vita
tende a cambiare con una frequenza inquietante, spesso in forza di sollecitazioni
esterne del tutto casuali.
Ci piacerebbe un documento agile, di facile lettura, comprensibile anche
ai non addetti ai lavori, che faciliti la comprensione
delle sfide in campo e delle trasformazioni a cui si mira, anche quelle
che non condividiamo, che ci libererebbe dal pessimo esercizi di dover
leggere tra le righe.
Come ci piacerebbe, invece delle liste di contenuti, un raggruppamento
per macrotemi fornendo all’insegnante il retroterra culturale ed epistemologico
perché davvero sia in grado di capire, ad ogni fase dello sviluppo,
quali competenze e in quale forma devono essere costruite, e con quali
risorse può affrontare il cammino.
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