Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati nella scuola dell’infanzia,
primaria, secondaria di I grado e sul Profilo educativo, culturale e professionale
dello studente.
(Parere
del Cidi)
Questioni di metodo
Nel momento in cui ci viene
richiesto di esprimere un parere sui “documenti di lavoro”
che presentano i nuovi indirizzi curricolari, vogliamo sottolineare che
per la prima volta nella storia repubblicana della scuola Italiana, la
consultazione su temi così rilevanti (le conoscenze e le competenze
fondamentali da proporre agli allievi della scuola di base) non avviene
attraverso un confronto diretto, aperto e argomentato con tutti i soggetti
interessati al cambiamento (insegnanti, genitori, associazioni professionali
e disciplinari, rappresentanti del mondo accademico, produttivo e sociale),
ma attraverso la richiesta di un parere scritto, dove risulta difficile
approfondire, motivare e confrontare opinioni e idee.
A tale scopo, continuiamo a ritenere assolutamente necessario costituire
Commissioni di lavoro pluraliste, a garanzia del rispetto delle diverse
posizioni culturali e ideali presenti nel nostro Paese, anche al fine
di consentire quella condivisione e quella sintesi senza le quali è
difficile per gli insegnanti comprendere le motivazioni di scelte e innovazioni
che, tra l’altro, segnano la rottura con la migliore tradizione
scolastica italiana e con le buone pratiche diffuse negli ultimi decenni
dentro le scuole.
Così è stato in occasione dell’elaborazione dei programmi
della scuola media del 1979 (con un dibattito ricco, favorito anche dall’impegno
delle Associazioni professionali), della scuola elementare del 1985 (preparati
dai lavori di autorevoli Commissioni in dialogo continuo con la “scuola”
ed accompagnati per molti anni da un forte interesse professionale e formativo
dei maestri elementari); così è stato per gli Orientamenti
della scuola dell’infanzia del 1991 (la cui elaborazione in progress
vide proprio la partecipazione attiva della scuola attraverso consultazioni
e approfondimenti successivi). Non è un caso che quei programmi
abbiano costituito punti di riferimento sicuri per tanti insegnanti e
abbiano rappresentato (e ancora rappresentino) un terreno assai proficuo
per la crescita professionale dei docenti della scuola di base.
Siamo pertanto molto rammaricati del fatto che, in occasione della predisposizione
delle bozze delle Indicazioni nazionali per i piani personalizzati nella
scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I° grado, tale
metodo di lavoro non sia stato perseguito e che i documenti a noi proposti
siano a tutt’oggi privi di ogni riferimento al lavoro svolto da
Commissioni di studio rappresentative e pubblicamente costituite, e a
fonti e sedi decisionali trasparenti e controllabili dalla comunità
scientifica, dal mondo della scuola, dall’opinione pubblica. Questo
fatto è negativamente percepito anche dagli operatori scolastici
e rischia di inficiare il significato stesso dei nuovi documenti programmatici,
che non possono essere imposti agli insegnanti solo in “forza della
legge” e tramite operazioni prevalentemente mediatiche e pubblicitarie.
Non vogliamo comunque sottrarci all’impegno di esprimere, anche
se solo per iscritto, il nostro parere sulle Indicazioni Nazionali, ma
raccomandiamo vivamente ai decisori politici l’avvio di un dibattito
trasparente e pluralista sui nuovi contenuti culturali, accompagnato da
un periodo di riflessione e di ricerca, in cui convogliare le energie
migliori della scuola e della comunità scientifica del nostro Paese.
Vogliamo ricordare, a solo titolo di esempio, che gli attuali programmi
della scuola primaria ebbero un periodo di “incubazione culturale”
di quattro anni (1981-1985) ed un ulteriore più lungo periodo di
implementazione (1985-1992). La fretta di oggi desta perciò sconcerto
e perplessità e rischia di essere controproducente.
E’ certamente compito di chi governa il Paese proporre indirizzi
culturali e standard nazionali di riferimento per assicurare l’unitarietà
e la qualità del sistema educativo, ma il modo con cui questo avviene
è altrettanto decisivo per le sorti del sistema scolastico pubblico.
Rinnoviamo, dunque, la richiesta di un approccio diverso alla elaborazione
dei profili culturali pedagogici ed organizzativi della scuola italiana,
mediante la costituzione di Commissioni di studio, realmente rappresentative
dei vari orientamenti, con il coinvolgimento attivo delle scuole, attribuendo
un carattere sperimentale e “in fieri” ai nuovi documenti,
al fine di trovare una progressiva e più ampia condivisione delle
innovazioni che si intendono realizzare.
Questioni di linguaggio
Riteniamo che la terminologia
da utilizzare in documenti che aspirano a caratterizzarsi come documenti
istituzionali, aventi valore normativo, non possa essere connotata da
un’insistente ricerca di neologismi ad effetto: quale, ad esempio,
“ologramma”.
Sarebbe inoltre opportuno un chiarimento sul significato pedagogico ed
istituzionale, attribuito a termini quali: “programmi”, “curricoli”,
“piani di studio”, “competenze”, “personalizzazione”,
“individualizzazione”, “unità di apprendimento”,
“standard di apprendimento”, “standard di prestazione
del servizio”. Termini i cui significati dovrebbero essere riconosciuti
e condivisi attraverso un confronto approfondito con gli esperti e con
le scuole.
Vorremmo anche raccomandare un maggior contenimento della produzione cartacea,
una più esplicita indicazione delle fonti utilizzate e l’attribuzione
dei referenti scientifici ai vari documenti elaborati.
L’accavallarsi, spesso caotico, di documenti di diversa natura e
di diverso valore giuridico, come “Indicazioni”, “Raccomandazioni”,
“Esemplificazioni”, “Profilo di uscita”, suscita
perplessità e disorientamento fra gli insegnanti.
A tale proposito sarebbe utile capire come mai la documentazione a noi
presentata contenga solo le Indicazioni e non le Raccomandazioni e le
Esemplificazioni, che pure in questi mesi sono state largamente diffuse.
Facciamo notare che raccomandazioni o esemplificazioni non riguardano
più dettami ministeriali, ma attengano alla piena e autonoma scelta
delle scuole (Dpr 275/99).
Rileviamo inoltre che l’uso stesso del termine “Indicazioni”
- che lascia intravedere un semplice consiglio orientativo - indebolisce
il significato di quegli obiettivi specifici di apprendimento che si vorrebbero
considerare i “livelli essenziali delle prestazioni” in materia
di diritti sociali e civili di cui fa cenno il nuovo Titolo V della Costituzione
(Legge Cost. 3/2001).
Più opportuno sarebbe chiamarli “Indirizzi curricolari nazionali”
perché tale definizione potrebbe offrire una chiave interpretativa
più solida, ma non minutamente prescrittiva. Fra l’altro,
correlando gli “Indirizzi nazionali” all’idea di “curricolo”,
verrebbe confermata la responsabilità delle singole unità
scolastiche nella progettazione didattica e dell’offerta formativa
(Dpr 275/99).
Desta perciò meraviglia e preoccupazione l’abbandono di ogni
richiamo al concetto di curricolo, non solo perché il “curricolo”
rappresenta a tutt’oggi – nella pluralità delle sue
accezioni - il più sicuro riferimento scientifico alla progettazione
dell’insegnamento/apprendimento, ma anche perché risulta
largamente condiviso nelle scuole italiane ed europee. Non parlare di
curricolo significa far venir meno una capacità di progettazione
condivisa, nella scuola, nel corso di studi, nella classe perché
è attraverso l’attività curricolare che le singole
prestazioni di insegnamento si trasformano in un progetto culturale ed
educativo efficace, dotato di senso per gli allievi di “quella”
specifica scuola, di “quel” corso, di “quella”
classe.
I Piani di studio personalizzati introducono invece una dimensione a-temporale
e de-contestualizzata della relazione educativa, trascurando gli esiti
più significativi della ricerca scientifica in materia di psicologia
dell’educazione, di contesto educativo, di dinamiche sociali ed
affettive dell’apprendimento.
Aspetti Ideologici
Avanziamo molte perplessità
sul continuo riferimento a tematiche valoriali scisse dal necessario legame
con i compiti di formazione culturale propri dell’istituzione scolastica.
Tematiche quali: “progetto di vita”, “dimensioni esistenziali
della personalità”, richiesta di misurarsi con le “grandi
questioni” dell’esistenza e del mondo, specialmente quando
esse sono rivolte ai bambini della scuola dell’infanzia e della
scuola primaria.
Forte contrarietà esprimiamo circa i richiami alla “formazione
morale e spirituale” e all’idea della conoscenza e della visione
dell’uomo che emergono attraverso il principio, espresso spesso
nei documenti, “della sintesi e dell’ologramma”.
Nell’idea di persona (o personalità) integrale la connotazione
religiosa sembra non lasciare spazio ad una più compiuta e corretta
dimensione storico-culturale-sociale dell’uomo. E a livello di teoria
della conoscenza il principio dell’ologramma conduce ad una riduzione
all’uno (reductio ad un unum), che - trasferita alla pratica della
didattica - ipotizza la necessità di percorsi educativi che, partendo
dai saperi o dalle discipline, approdino comunque ad una visione “religiosa”
e “spirituale” della vita.
I Piani personalizzati
Il richiamo ad una necessaria
attenzione “personalizzata” alle caratteristiche cognitive
degli allievi, agli stili di apprendimento, alle attitudini ed alle motivazioni
fa ormai parte integrante della professionalità di ogni docente.
Vogliamo infatti ricordare che il principio dell’individualizzazione
dell’insegnamento è stato introdotto dalla legge 517/’77
e che per individualizzazione dell’insegnamento s’intende
un “principio guida”, un metodo di lavoro secondo il quale
la scuola deve seguire i processi di insegnamento in relazione alle specifiche
caratteristiche di ogni singolo alunno. Si tratta cioè di un “principio
regolativo”, che dovrebbe guidare tutti i docenti ad individuare
modalità di insegnamento adatte alla realtà sociopsicologica
e culturale di ciascun allievo, sulla base della considerazione che ogni
soggetto ha caratteristiche e stili di apprendimento diversi da quelli
degli altri.
Il principio dell’insegnamento individualizzato (ampiamente recepito
anche nei programmi del 1985 della scuola elementare) è stato introdotto
con il fine di garantire meglio - a ciascuno - il diritto all’istruzione.
Infatti parlando di insegnamento individualizzato si fa soprattutto riferimento
a soggetti con problemi (handicap, disadattamento, svantaggio socioculturale)
nella prospettiva di avvicinare agli altri i soggetti deboli e in difficoltà.
Questo discorso vale in modo particolare in riferimento a quello che più
specificamente viene definito svantaggio: deprivazione socioculturale,
problematiche sociolinguistiche, problemi familiari, carenze adattivo-educative,
problemi economici, problemi relativi all’atteggiamento della famiglia
nei confronti della scuola e della cultura. In tal modo, facendo leva
sulle singole diversità, si tende a creare una situazione di uguaglianza
delle opportunità (e degli esiti), conquistabile attraverso itinerari
di apprendimento personalizzati e complementari.
Naturalmente, progettare un insegnamento a misura dei singoli non è
semplice, anche perché si tratta di gestire un insegnamento individualizzato,
ma non individuale, quindi un insegnamento collocato nel contesto sociale
della classe. E la classe è generalmente un gruppo numeroso, con
soggetti a livelli diversi, che presentano diversità comportamentali,
di atteggiamenti, di carattere, di esperienze pre ed extra scolastiche.
L’individualizzazione, utilizzando approcci interpersonali, tecniche
e materiali adeguati, è perciò una meta a cui la scuola
cerca, attraverso le sue pratiche migliori, di avvicinarsi. Le esperienze
didattiche diffuse nelle scuole in questi decenni hanno in concreto dimostrato
che, attraverso l’individualizzazione o la personalizzazione dell’insegnamento,
si eleva il livello di apprendimento degli allievi.
Ma se questa meta, cui la scuola con competenza e responsabilità
deve tendere, diventa una scelta di impianto “strutturale”,
cambia profondamente il senso e l’obiettivo della “personalizzazione”.
Definire, nel titolo, gli indirizzi curricolari come: “Indicazioni
Nazionali per i Piani Personalizzati” vuol dire rendere “prescrittiva”
la diversificazione dei percorsi e dei risultati, rimandando a classi
o gruppi di allievi differenziati per livelli di capacità.
Pur se l’obiettivo dichiarato nei documenti è di favorire
il massimo sviluppo personale e pur se le differenze sono ripetutamente
richiamate in positivo, osserviamo che manca la messa a fuoco del rapporto
dialettico fra diversità e uguaglianza (l’uguaglianza nella
diversità), con il rischio che la personalizzazione si traduca
in una scuola organizzata per gruppi stabilmente distinti per interesse,
livello, attività ecc…, anche in vista delle successive scelte
di studio.
Inoltre i piani personalizzati fanno prevalere una idea di scuola come
puro “servizio alla persona” ovvero alle famiglie - il cui
richiamo nei documenti appare del tutto improprio, strumentale e sproporzionato
rispetto ai compiti e ai ruoli previsti -, annullando il senso e la funzione
del sistema educativo pubblico, per ridurlo ad una mera contrattazione
tra le parti.
Tale scelta compie inoltre una forzatura dello stesso impianto della legge
(art. 8, Dpr 275/99) che delinea con più compiutezza le regole
di costruzione del progetto formativo nelle scuole italiane.
Il portfolio
I diversi testi introducono
un Portfolio delle competenze individuali, che documenti sin dall’esperienza
scolastica più precoce il processo di conquista di tali acquisizioni,
destinato ad accompagnare il bambino anche nei suoi futuri percorsi di
apprendimento.
Nel merito, riteniamo che se il Portfolio viene inteso come ricerca aperta
di forme valutative nuove, capaci di descrivere, accompagnare, promuovere
le competenze degli allievi (in un’ottica metacognitiva), potrà
nel tempo diventare uno strumento interessante e utile per il docente
e per lo studente. Il rischio tuttavia è che il portfolio si trasformi
in uno strumento amministrativo destinato a segnare precocemente tutto
il percorso scolastico degli allievi, generando il classico effetto Pigmalione
e influenzando in modo non corretto le successive valutazioni. In questo
caso il portfolio diverrebbe un mezzo per definire e sancire precocemente
i destini dei bambini. Ravvisiamo comunque il rischio che possa diventare
un inutile e burocratico aggravio di lavoro per i docenti e un terreno
di impropria “collusione” di responsabilità educative
di genitori e insegnanti, che invece devono restare distinte.
Molti docenti legittimamente si chiedono quanto tempo richiederà
il lavoro di compilazione dei documenti, dove sarà conservata la
mole di elaborati prodotti da bambini e ragazzi, come “accogliere”
le valutazioni di genitori e studenti.
Il tempo della scuola
Non ci convince il modo
con cui si intende affrontare il problema dell’organizzazione del
tempo della scuola (e della sua ipotizzata riduzione) nell’ambito
dei documenti programmatici. Tale materia ha un evidente valore pedagogico
e didattico, ma anche un forte impatto sociale: basti pensare che il tempo
pieno nella scuola elementare riguarda attualmente più del 25 %
degli allievi, con situazioni locali superiori al 50 %.
Una questione così delicata non può dunque essere “trattata”
in una pagina inserita a ll’interno di documenti programmatici,
in paragrafi su “vincoli e risorse” di opinabile valore giuridico.
Al riguardo ricordiamo che i genitori, interpellati in occasione degli
Stati Generali, si sono espressi contro la riduzione o la trasformazione
del tempo scuola (cfr. Annali dell’Istruzione, Stati generali 2001,
Le Monnier, 1-2, 2001: cap. V – Piani di studio, Tavola 5.7 –
pag. 218 - “Suddivisione dell’orario scolastico settimanale
in 25 ore obbligatorie e in 10 ore facoltative”: solo il 18,6 %
dei genitori si è espresso a favore di questa ipotesi caldeggiata
dalla Commissione di esperti).
Riteniamo importante una riflessione sui saperi e sulle conoscenze fondamentali,
anzi condividiamo la percezione che la scuola in questi anni sia stata
sovraccaricata di funzioni genericamente socializzanti ed educative, a
scapito della sua preminente funzione culturale. Ma un curricolo “essenziale”
non si qualifica per la riduzione del tempo scuola o per una manovra di
semplice alleggerimento e sfoltimento dei contenuti disciplinari, quanto
piuttosto attraverso una ricerca (delle scuole autonome) in ogni ambito
del sapere per individuare significativi percorsi di apprendimento, capaci
di stimolare operazioni cognitive, formative e durature, in grado di interpretare
ogni dimensione della riflessività, creatività, espressività
umana, di arricchire i linguaggi e le modalità comunicative, di
favorire la capacità di argomentazione e metodi sempre più
autonomi di studio.
Perciò la prospettata riduzione dei tempi scolastici obbligatori
- con ipotesi che oscillano, a seconda dei documenti, tra 25, 27, 30 ore
settimanali - rischia di impoverire la possibilità di realizzare
esperienze didattiche di qualità, assicurando a ogni allievo l’integrazione
tra sollecitazioni operative, sociali, culturali e la progressiva e graduale
organizzazione delle conoscenze.
E’ presente nei documenti la proposta di distinguere nettamente
il tempo scuola obbligatorio comune da quello facoltativo, dedicato ad
attività trasversali di laboratorio, espressive ecc.
L’ipotesi desta legittima contrarietà, sia per la diversa
configurazione giuridica dei tempi della scuola - che può rendere
marginale l’offerta formativa della scuola stessa, un bene “negoziato”
con gli utenti -, sia perché il tempo scuola obbligatorio sembra
caratterizzarsi come tempo della “trasmissione” delle conoscenze,
centrato su metodologie frontali di insegnamento (infatti, nella scuola
primaria è finanche bandito il concetto di compresenza). Accanto
al tempo obbligatorio c’è il tempo del laboratorio, inteso
non come spazio di ricerca e di approfondimento, luogo delle metodologie
interattive ma, di fatto, tempo dello svago, della ricreazione, delle
libere attività complementari cui assegnare, appunto, un ruolo
marginale e secondario.
Nella scuola tutto questo era stato superato almeno da un ventennio, da
quando si decise di eliminare le “attività integrative pomeridiane”
previste dalla legge 820/1971 e le “libere attività complementari”
nella scuola media, a favore di una progettazione realmente integrata
delle diverse opportunità formative.
Avanziamo perciò forti preoccupazioni circa il modello proposto
di tempo scuola, imperniato, nella scuola media, su una soglia-base di
900 ore annue (circa 27 ore settimanali) dedicata alle discipline fondamentali,
ulteriormente variabile nel limite del 15%, e non compensata dall’incerta
quota aggiuntiva di 200 ore (circa 6 ore settimanali), dedicata all’“arricchimento”
o “ampliamento” del percorso obbligatorio e demandata alla
negoziazione con i ragazzi, le famiglie e il territorio. Ancora più
elusiva appare la previsione del tempo scolastico obbligatorio per la
scuola primaria.
Resta inoltre il fondato dubbio che il quadro nazionale delle discipline
fondamentali (cui si aggiungono 6 educazioni) sia compatibile con il complessivo
contenimento del tempo-scuola che viene prospettato, anche per l’introduzione
di una ulteriore soglia-minima individuale di frequenza che non trova
riscontro nel nostro ordinamento.
Ciò non significa che nella attuale organizzazione del tempo scolastico
del ciclo di base non ci siano aspetti da riesaminare, questioni da approfondire,
elementi da modificare. Ma tale riflessione richiederebbe l'avvio di un
processo di ricerca, di approfondimento critico, di partecipazione ampia
di cui invece non c’è minima traccia nei documenti attuali.
Sarebbe quindi opportuno aprire un dibattito - non solo tra gli addetti
ai lavori - relativo ai tempi della scuola, in grado di cogliere nuovi
bisogni e nuove domande. C’è da chiesi quali siano oggi i
tempi di vita, di relazione e di apprendimento dei bambini, nelle famiglie,
nella città; come utilizzare il tempo scuola per qualificare meglio
l'ambiente di apprendimento; come costruire un progetto educativo a misura
di ogni allievo, senza entrare in una logica di separazione, di competizione
e di esclusione.
Si va diffondendo, ad esempio, l’idea che il tempo della scuola
debba essere una variabile sempre più flessibile, mano a mano che
si procede nel corso degli studi: dagli anni iniziali del ciclo di base,
ove va assicurata una giornata educativa distesa e fortemente unitaria
(sull’esempio del tempo pieno europeo), agli anni terminali, ove
si possono favorire scelte più personali e autonome dei ragazzi
con la regia progettuale della scuola.
Gli insegnanti sono interessati al dibattito, ma chiedono che una questione
“pedagogica” (come articolare i tempi della scuola e rendere
più equilibrata ed efficace la loro gestione) non si trasformi
in una questione “ideologica” (tempo della scuola-istituzione
contrapposto al tempo della società-comunità) e, soprattutto,
che una nuova organizzazione del tempo scuola non diventi la premessa
per una consistente riduzione delle risorse di personale.
Una attenzione a parte merita la questione del “tempo pieno”
nella scuola elementare, in virtù della sua rilevanza sociale e
della sua storia, fondamentale per l’innovazione di tutta la scuola
primaria. Esprimiamo perciò forte perplessità circa il “silenzio”
dei documenti su questo tema, sulla fragilità di molte delle esemplificazioni
di modelli orari e organizzativi, sulla scarsa conoscenza, come si evince
dai testi, delle modalità di funzionamento delle classi a tempo
pieno (si giunge perfino ad aumentare il numero dei docenti operanti in
esse e a introdurre differenziazioni di funzioni scarsamente motivate).
Il tempo pieno dovrebbe invece continuare ad essere un “laboratorio
per l’innovazione”, a patto che gli si consenta di sviluppare
la sua naturale attitudine alla ricerca e alla sperimentazione, anziché
rinchiuderlo nel recinto dei reperti del passato.
La continuità educativa
Vogliamo segnalare che
l’articolazione del ciclo di base secondo lo schema 1+2+2 e 2+1
non trova riscontro né nei documenti preparatori elaborati dalla
Commissione di studio, coordinata dal professor Bertagna, né nelle
esperienze migliori degli Istituti comprensivi (a cui non si fa mai cenno
nei documenti). Tale soluzione (introdotta nell’ordinamento con
scelte affrettate e mai seriamente motivate) accantona ogni idea di continuità
tra scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado,
pur comprese nella comune dizione di “primo ciclo” dell’istruzione,
limitando illegittimamente l’autonomia delle scuole in materia di
organizzazione scolastica e di curricolo verticale. Ricordiamo, in proposito,
che il 42 % delle scuole di base è strutturato in verticale negli
istituti comprensivi.
L’individuazione di obiettivi specifici di apprendimento per ogni
“periodo didattico” (con 5 “tavole” di obiettivi
lungo tutto il corso di base) appare un inutile appesantimento, configurando
una declaratoria di obiettivi didattici fortemente intrusiva rispetto
alle esigenze di progettazione didattica. Una simile articolazione, invece
di rafforzare la formazione di base e offrire respiro concettuale alle
pratiche di continuità, sanziona la separatezza tra scuola elementare
e media. L’impianto prescelto per la scuola media, articolata in
un biennio iniziale e in un “monoennio” finale, appare del
tutto incomprensibile e foriero di una ulteriore frammentazione del progetto
curricolare.
Si enfatizza il momento della “rottura” (epistemica, curricolare,
organizzativa) tra la scuola elementare, pervasa dall’approccio
“primario” all’esperienza conoscitiva, e la scuola media,
caratterizzata dall’organizzazione “secondaria” e “modellizzata”
della conoscenza (senza peraltro motivare in modo convincente questa polarizzazione).
Si definisce poi un ultimo anno “orientativo” della scuola
secondaria di I° grado (con un’interpretazione nettamente riduttiva
del concetto di orientamento), che rischia di prefigurare il ripristino
di una precoce canalizzazione degli allievi verso tre filiere formative
nettamente separate: i licei, gli indirizzi professionali, lo studio “in
alternanza” con il lavoro.
Vogliamo segnalare infine che la discontinuità strutturale, dalla
scuola dell’infanzia alla scuola media (che non ha nessuna giustificazione
pedagogica), indebolisce l’idea regolativa della necessaria gradualità
e progressività dell’apprendimento-insegnamento: dalla globalità
dell’esperienza alla sua sistemazione/traduzione nei codici simbolici
dei saperi formalizzati.
L’impianto culturale della scuola di base (primo ciclo)
Il dibattito sulla scuola di base che ci ha accompagnato negli ultimi
anni, anche per la sollecitazione dei documenti europei sulle prospettive
di sviluppo dei sistemi educativi (dai Libri bianchi di Delors e Cresson
al Memorandum sull’Istruzione e formazione del Consiglio Europeo
di Lisbona, 2000), si è incentrato sulla necessità di valorizzare
la formazione e le competenze di base per rendere più coerente
e solida l’istruzione di tutti, per garantire la padronanza dei
linguaggi e delle abilità fondamentali (i saperi procedurali, le
competenze logico linguistiche) e una prima organizzazione del sapere
(le cosiddette conoscenze “dichiarative” progressivamente
organizzate nelle discipline).
Condividiamo l’esigenza di rafforzare i livelli di alfabetizzazione
funzionale e di offrire una padronanza adeguata di conoscenze e abilità
nel campo della lingua, della matematica e delle scienze. Ma desta preoccupazione
l’incuria dei documenti rispetto ai compiti formativi di una scuola
di base che vuole “pesare” di più nella formazione
dei cittadini: oggi si tratta di insegnare ai ragazzi a muoversi in uno
spazio culturale e simbolico sempre più complesso e ricco di segni,
oggetti, immagini, tecnologie.
Non traspare dalle Indicazioni una interpretazione evoluta (non ripiegata
cioè su formule comportamentiste, né su un vacuo moralismo)
dei modelli di apprendimento e della connessione tra aspetti cognitivi,
sociali ed affettivi. Non viene mai sottolineato il valore formativo delle
discipline di studio, il loro effettivo promuovere processi cognitivi,
mentre si coglie un ritorno a pratiche didattiche minuziosamente contenutistiche.
Manca, inoltre, una necessaria coerenza sul piano metodologico.
A questo proposito vogliamo sottolineare che una didattica laboratoriale,
operativa, di stile cooperativo non può essere relegata solo ai
momenti facoltativi ed aggiuntivi del curricolo.
La prospettiva curricolare consente l’organizzazione e la traduzione
dei sistemi simbolico-culturali in discipline di studio, in funzione dell’apprendimento
ai diversi livelli di età. Le discipline sono interpretate in un’ottica
“formativa”, non perché genericamente aperte alle trasversalità
o alla dimensione sociale ed operativa della conoscenza, ma perché,
caratterizzandosi come contesti operativi e simbolici, “disciplinano”
gradualmente l’intelligenza e la conoscenza, dalla scuola dell’infanzia
alla scuola secondaria superiore. Riteniamo che nei documenti questo carattere
di verticalità e processualità del curricolo non sia sufficientemente
esplicitato, essendo stata preferita una rigida demarcazione tra dimensioni
primarie e secondarie della conoscenza. In particolare, appare del tutto
sottovalutato l’apporto della scuola dell’infanzia allo sviluppo
dell’apprendimento e della conoscenza.
Autonomia di ricerca e formazione in servizio
Facciamo inoltre notare
che non si fa mai cenno all’importanza di garantire ai docenti uno
spazio per la ricerca e la formazione nella scuola autonoma, mentre l’autonomia
di ricerca e sviluppo rappresenta il più sicuro riferimento normativo
e operativo per consentire ad ogni scuola di sviluppare propri programmi
di ricerca e analisi sulle caratteristiche dei percorsi di studio e dei
curricoli (art. 6 del Dpr 275/’99).
L’autonomia ha, infatti, determinato nuove condizioni di esercizio
e di governo dei diversi livelli di progettazione curricolare, riferiti
all’offerta formativa di ogni scuola, alla elaborazione dei curricoli
disciplinari, alla definizione di coerenti percorsi verticali. Occorre
perciò garantire alla scuola effettive condizioni operative per
alimentare la ricerca sul curricolo.
I documenti nazionali non possono imbrigliare gli spazi di ricerca autonoma
delle scuole nel campo del curricolo. Essi devono, semmai, definire alcuni
essenziali traguardi prescrittivi, da raccordare con le pratiche valutative
“esterne” e con gli standard di funzionamento (art. 8-Dpr
275/99). La scuola dell’autonomia dovrebbe portare il suo originale
contributo al potenziamento e allo sviluppo del sistema nazionale di istruzione
e formazione, con esperienze e modelli organizzativi significativi, osservabili
e comparabili. Solo il rispetto dell’autonomia delle scuole consentirà
di attribuire un corretto significato alla “valutazione del sistema
di istruzione” attraverso “verifiche periodiche e sistematiche
sulle conoscenze e abilità degli studenti e sulla qualità
complessiva dell’offerta formativa delle istituzioni scolastiche
e formative”, cosi come previsto dalla legge 53/2003.
Riteniamo inoltre necessario un sistema valutativo coerente con le scelte
pedagogiche e culturali, per evitare sia la pretesa della misurabilità
di ogni prestazione scolastica, sia l’uso tecnico (e politico) improprio
che si fa dei dati forniti da un sistema nazionale di valutazione basato
esclusivamente su prove standardizzate. Agli operatori scolastici vanno
forniti incentivi che stimolino un lavoro di ricerca (dipartimenti disciplinari
con figure di coordinatori, risorse per consulenze qualificate, rapporti
con sedi universitarie e di ricerca, tempo di lavoro). Vogliamo ricordare
che le Associazioni professionali, nel loro pluralismo culturale e metodologico,
rappresentano un luogo di ricerca e di crescita professionale, un ambiente
integrato di apprendimento per gli insegnanti, ove mettere a confronto
“buone pratiche”, ma anche sviluppare un impegno etico per
la realizzazione delle finalità costituzionali della scuola pubblica.
Auspichiamo pertanto che nei futuri piani di formazione in servizio sia
attivamente sollecitato il contributo critico degli insegnanti e delle
loro libere Associazioni e siano evitate inutili somministrazioni di “pacchetti
confezionati” ed unilateralmente progettati, fidando magari nelle
potenzialità e nella economicità dei metodi e-learning (formazione
a distanza). L’uso delle nuove tecnologie (per le quali si devono
garantire una pluralità di fonti e di piattaforme, nonché
trasparenza e varietà delle sedi di produzione scientifica e didattica),
dovrebbe essere accompagnato da una forte investimento sulle competenze
professionali e culturali del mondo della scuola e della ricerca. La formazione
deve trasformarsi in un processo di ricerca-azione, dove abbiano spazio
prioritario le domande degli insegnanti, le loro esperienze, il confronto
con fonti didattiche accreditate ed autorevoli, il gusto della ricerca
e del confronto delle diverse ipotesi scientifiche e didattiche.
Siamo preoccupati che la formazione, sulla quale sono da investire risorse
finanziarie rilevanti, si possa trasformare in una serie di eventi mediatici
e comunicativi al limite dell’azione di marketing, senza che sia
dato adeguato rilievo alla partecipazione attiva dei docenti, delle loro
rappresentanze professionali, del mondo della ricerca.
Gli obiettivi di
apprendimento
Esprimiamo forti perplessità
sul complessivo impianto concettuale che dovrebbe sorreggere il passaggio
dagli obiettivi specifici agli obiettivi formativi in funzione delle competenze
da acquisire. Lamentiamo una eccessiva frammentazione degli obiettivi,
dovuta anche alla scelta di dividere il percorso formativo (dai 3 ai 18/19
anni) in una serie di bienni e monoenni, ciascuno corredato da uno specifico
e troppo rigido elenco di conoscenze e abilità, con il rischio
di togliere ogni respiro educativo e culturale all’esperienza didattica
oltre che autonomia alla progettazione scolastica.
Il quadro delle conoscenze e delle abilità appare troppo generico
e confuso nella sua descrizione, presenta molte ingenuità semantiche
e sovrappone piani concettuali diversi: accanto a conoscenze (intese come
contenuti e concetti) figurano strategie, procedure, attività.
In alcuni casi si definiscono come obiettivi specifici quelle che invece
sono finalità.
Manca un ordine progressivo di sviluppo degli apprendimenti e non si evince
quali materie siano obbligatorie e quali opzionali.
Ma c’è un ulteriore motivo che rende difficile l’analisi
dei contenuti educativi proposti: è l’ambiguità della
natura stessa di ciò che si legge. Il documento propone, disciplina
per disciplina, e poi, educazione per educazione, l’elenco delle
«conoscenze e delle abilità» che la scuola deve trasformare
in “competenze”. Non è però chiaro se si tratti
di «obiettivi specifici di apprendimento» che la scuola deve
trasformare in «obiettivi formativi», con i quali strutturare
i piani di studio personalizzati (com’è ampiamente esposto
nelle pagine che li precedono), oppure se si tratti di «livelli
essenziali di prestazione a cui tutte le scuole […]del Sistema nazionale
di Istruzione sono tenute». Resta l’incertezza di un documento
che oscilla tra indicazioni puramente orientative ed elenchi fortemente
prescrittivi.
Infatti in un punto del documento troviamo scritto: “non hanno alcuna
pretesa validità per i casi singoli, siano essi le singole istituzioni
scolastiche o, a maggior ragione, i singoli allievi…” Ma in
altro punto leggiamo: “ All’inizio del primo e del secondo
biennio il SNV procede alla valutazione esterna, sia agli elementi strutturali
del sistema, sia ai livelli di padronanza mostrati dagli allievi nelle
conoscenze nelle abilità raccolte negli obiettivi specifici di
apprendimento indicati per la fine del primo e del terzo anno”.
Ci si chiede: se gli obiettivi non sono prescrittivi il Servizio Nazionale
di Valutazione su quali indicatori tarerà le sue prove? Su obiettivi
considerati in astratto? Occorre dunque più chiarezza perché
su questo terreno, che sta impegnando anche gli altri sistemi scolastici
europei, si gioca la scelta fra un sistema nazionale di valutazione che
sostiene e orienta un’autonomia della collaborazione e della responsabilità
e un sistema di valutazione che condiziona e premia un’autonomia
della competitività fra scuole, impegnate non tanto a far meglio
delle altre sul piano organizzativo e didattico, ma a procurarsi preventivamente
quegli allievi che garantiscano risultati migliori, indipendentemente
dall’efficacia degli insegnamenti.
Le Educazioni
Nonostante le ricorrenti
affermazioni circa una lettura integrata e ricorsiva tra le discipline
di studio e la cosiddetta “Educazione alla Convivenza civile”
(che si articola in ulteriori aree educative), resta l’impressione
di una separatezza tra i due percorsi, quasi un curricolo parallelo di
cui non si coglie fino in fondo il significato. Meglio sarebbe integrare
alcune esigenze “educative” all’interno degli ordinari
percorsi disciplinari, se si condivide l’idea che il valore educativo
di un’esperienza scolastica risiede essenzialmente nella sua valenza
culturale, nella pertinenza della scelta dei contenuti, nella qualità
degli insegnamenti, nella coerenza dei comportamenti, nell’integrazione
tra relazione e apprendimento in una scuola caratterizzata da vivacità
culturale essenziale per il benessere di adulti e ragazzi.
Sarebbe, allora, utile precisare come le educazioni si intreccino con
le discipline: si prevedono ore a parte o le ore di “educazioni”
si sovrappongono a quelle disciplinari? Ci si chiede inoltre con quale
criterio siano state scelte le educazioni: perché trascurare, per
esempio, una educazione al corretto consumo o all’intercultura,
vista la natura sempre più multiculturale della nostra società?
Nel merito degli obiettivi specifici per le singole educazioni, facciamo
presente che richieste fortemente specialistiche metterebbero i docenti
nella necessità di far intervenire esperti esterni alla scuola.
Ma sapendo che l’esperto esterno non possiede le competenze didattiche
necessarie all’apprendimento, quale sarà il vantaggio di
una simile educazione alla Convivenza civile?
Scuola dell’infanzia
La tradizione instauratasi
con l’istituzione della scuola materna statale e con i relativi
Orientamenti del 1968 e i successivi Orientamenti del 1991, tendeva a
stabilire una proposta programmatica orientativa e non prescrittiva, per
il timore di irrigidire eccessivamente le attività didattico-educative
della scuola dell’infanzia.
Le Indicazioni nazionali invece dichiarano, nel sottotitolo, il loro carattere
prescrittivo “Le Indicazioni esplicitano i livelli essenziali di
prestazione a cui tutte le Scuole dell’Infanzia del Sistema Nazionale
di Istruzione sono tenute per garantire il diritto personale, sociale
e civile all’istruzione e alla formazione di qualità”,
con il rischio di dare a questa scuola una dimensione troppo “scolasticistica”
e “valutativa”.
Riteniamo perciò che gli obiettivi specifici di apprendimento dovrebbero
indicare un impegno preciso, ma non ossessivo, dell’insegnante in
vista del loro conseguimento/consolidamento in competenze, altrimenti
il pericolo di avviare un processo di differenziazione precoce tra i soggetti,
che tali competenze dovrebbero conquistare, è reale. L’importanza
e la funzione fondamentale della scuola dell’infanzia sta proprio
nella sua capacità di mettere in atto processi di compensazione
delle differenze e degli svantaggi per superare le disuguaglianze di partenza
sin dai primi anni.
Le Indicazioni riprendono parzialmente i “campi d’esperienza”
dei vigenti Orientamenti, ma risultano impoveriti e nel contempo particolarmente
esemplificati. Vogliamo anche sottolineare che quelle che nel testo del
’91 erano le tre finalità della scuola dell’infanzia
nelle Indicazioni vengono ridotte a obiettivi generali del processo formativo,
con una sostanziale differenza in termini di valore.
Inoltre, nel documento si afferma che i docenti di sezione svolgono anche
la funzione di tutor, come se tale funzione fosse aggiuntiva e non connaturata
all’essere docente. E poiché in relazione alla scelta dell’anticipo
delle iscrizioni alla scuola primaria si fa riferimento al tutor che ha
seguito l’evoluzione del bambino e il riferimento è al singolare
sebbene entrambi gli insegnanti svolgano la stessa funzione, c’è
da chiedersi: per tale compito di “consigliere” dei genitori
si farà riferimento a uno solo dei due docenti? Uno dei due avrà
un ruolo più “istituzionale” dell’altro?
Facciamo anche notare che l’impiego di “eventuali convenzioni
con gli Enti locali per la costituzione, quando è possibile, di
sezioni con bambini di età inferiore ai tre anni e di raccordo
con asili nido” appare un vincolo organizzativo fittizio, visto
che è previsto in termini di eventualità, di possibilità.
Fra l’altro, tale indicazione determinerà forti disomogeneità
a livello nazionale, tra le aree che avranno più possibilità
di altre, a discapito ulteriore della - ormai disattesa - generalizzazione
della scuola dell’infanzia.
Ci chiediamo infine quale criterio pedagogico abbia ispirato la decisione
di non considerare rilevante la scuola dell’infanzia ai fini del
Profilo educativo, culturale e professionale dello studente, dal momento
che essa non solo viene esclusa (si parla infatti di un percorso dai 6
ai 14 anni) ma non viene mai nominata (salvo un riferimento nelle righe
di sintesi).
In merito agli obiettivi specifici ci sembra che alcuni punti rimandino
ad una visione troppo ideologica che non può essere condivisa.
“Soffermarsi sul senso della nascita e della morte, delle origini
della vita e del cosmo, della malattia e del dolore, del ruolo dell’uomo
nell’universo, dell’esistenza di Dio a partire dalle diverse
risposte elaborate e testimoniate in famiglia e nelle comunità
di appartenenza” (Il sé e l’altro, punto 7).
Esprimiamo stupore e dissenso per la precoce problematizzazione di temi
come la malattia, il dolore, la morte, che non possono trovare un senso
condiviso e che sono di difficile, se non impossibile, soluzione da parte
degli stessi adulti, a meno che non si rifacciano ad una concezione religiosa
o filosofica determinata.
Non ci sembra corretto proporre un precocissimo confronto su temi etico-religiosi,
sapendo che le risposte non possono che venire dalle famiglie di appartenenza,
con il rischio di creare differenziazioni e di accentuare l’appartenenza
alle diverse tradizioni familiari.
Analoga contrarietà avanziamo anche sul punto 3 (Il sé e
l’altro): “Accorgersi se, e in che senso, pensieri, azioni,
sentimenti dei maschi e delle femmine mostrano differenze e perché”.
Ci sembra infatti un modo arretrato e stereotipato di porre la questione
sull’identità di genere e sui ruoli maschili e femminili.
Rileviamo infine che non viene mai messo in luce il problema dei bambini
stranieri, o la questione del dialetto o di una lingua minoritaria (come
unica lingua o con bilinguismo lingua locale/italiano). La diversità
di queste situazioni è totalmente ignorata: non c’è
infatti un contenuto o un obiettivo che faccia riferimento a ciò.
Come ignorata è l’educazione linguistica, unitamente a quella
scientifica e a quella logico- matematica, che fa emergere una sottovalutazione
della dimensione cognitiva, ampiamente presente invece nei Campi d’esperienza
degli attuali Orientamenti.
Scuola primaria
Le Indicazioni individuano
una fondamentale motivazione culturale della scuola primaria: l’acquisizione
di linguaggi e conoscenze che accompagnino il “fanciullo”
dalla dimensione del “sapere comune” a quella del “sapere
scientifico”, in direzione di apprendimenti formali e di categorie
formali.
Ma l’impostazione strutturale del documento e la minuziosa indicazione
di contenuti rischiano di favorire una precoce “secondarizzazione”
del curricolo, che appare una forzatura vista l’età dei bambini,
di cui non si considera la necessità di una lenta e graduale costruzione
della conoscenza.
Vogliamo segnalare che una delle conquiste più importanti per gli
insegnanti di scuola elementare è la piena corresponsabilità
nella conduzione delle classi e la pratica della collegialità professionale,
due innovazioni di “costume” professionale condivise dalla
riforma del 1990 (Legge 5-6-1990, n. 148 ora nel T.U. del 1994)
La legge n. 53/2003 nulla dice circa le caratteristiche del lavoro di
team dei docenti, ormai tipico di tutti i livelli scolastici: appaiono
perciò del tutto “fuori misura” le previsioni contenute
in alcuni documenti di lavoro (ed anche nel paragrafo “risorse e
vincoli” delle Indicazioni nazionali) circa il superamento di concetti
di contitolarità, di pari dignità professionale, di corresponsabilità
educativa, che hanno retto (e bene!) in questi anni la vita della nostra
scuola elementare.
Ricordiamo che lo “stile collaborativo” viene anche apprezzato
dai genitori (cfr. Annali dell’Istruzione, Stati generali 2001,
Le Monnier, 1-2, 2001: cap. III – Proposte per la riforma, Tavola
3.2 – pag. 203). Alla domanda sul modello didattico il 60,0 % dei
genitori (il 66 % dei maestri elementari) risponde di preferire la formula
di “più maestri specializzati che si dividano equamente l’orario”,
rispetto ad altre formule: il maestro unico o prevalente, ad esempio.
Disporre di una pluralità di figure e di relazioni educative è
dunque considerata dalle famiglie e dagli insegnanti un’opportunità
di arricchimento e di crescita per i bambini. Appare quindi una forzatura
introdurre, nei documenti, modelli organizzativi rigidi che ripristinano,
di fatto, la figura del docente unico, costellato da alcuni (o tanti)
“specialisti” con poche ore settoriali dedicate a discipline
particolari (Lingua straniera, Musica, Educazione motoria e altro). L’idea
dell’équipe docente dovrebbe essere invece favorita e salvaguardata
in tutti i livelli scolastici: è infatti una scelta progettuale
e non semplicemente relazionale. Non basta curare le buone relazioni tra
i docenti di un team, occorre un progetto culturale comune, da cui far
discendere una strategia didattica chiara e scelte metodologiche complementari
e coerenti.
In questa prospettiva ci paiono riduttive e confuse le considerazioni
che vengono svolte in favore di un docente “tutor”, unico
responsabile della classe e della “tenuta” educativa di un
gruppo di allievi. Vorremmo che fosse chiaro che quando si parla di funzioni
tutoriali ci si riferisce ad aspetti assai diversi della vita della scuola:
possiamo avere (non solo nella scuola elementare) funzioni di “tutoring”,
cioè di orientamento e di accompagnamento dell’alunno per
stimolarne la motivazione, facilitarne la comunicazione, sostenerne l’apprendimento
(soprattutto nei casi dei bambini più “deboli”). Le
strategie tutoriali, infatti, mirano a valorizzare le potenzialità
dell’alunno, le sue capacità, l’impegno, anche in particolari
settori di interesse poco esplorati. Il tutoring richiede perciò
un alto livello di professionalità, di competenze relazionali,
di gestione della classe, di padronanza dei “saperi” che non
si improvvisano e non sono certamente legati ad una particolare vocazione
al “maternage”.
Queste importanti funzioni dovrebbero essere svolte da tutti i docenti
dell’équipe di classe, con modalità affidate all’autonomia
di ricerca delle scuole, senza che siano imposti modelli professionali
gerarchizzati.
Un altro aspetto da considerare riguarda il coordinamento dell’équipe
docente, una funzione che dovrebbe essere valorizzata in tutti i livelli
scolastici, verificando –anche contrattualmente - quali siano le
condizioni, le modalità, gli incentivi atti a sostenere modelli
di arricchimento professionale e di efficacia nella gestione collegiale.
Siamo convinti che solo una piena corresponsabilità professionale
dei docenti consente di costruire un vero “ambiente educativo di
apprendimento”, in cui promuovere processi di scambio, di costruzione,
di interazione, dove sia presente una pedagogia della “compiutezza”
e della collaborazione e non della parcellizzazione: unità di apprendimento
a sé stanti, schede ed esercizi per disciplina, orari non comunicanti.
Questi sono i rischi di un modello organizzativo dettato dall’alto,
dove la divisione delle funzioni viene imposta, dove le scelte non sono
negoziate, dove il gruppo viene vissuto come un peso e non come una risorsa.
Riteniamo per questo fondamentale ripensare alla pluralità degli
insegnanti come ad una vera risorsa educativa. Un buon team di scuola
elementare rappresenta un ambiente ideale per lo sviluppo di una professionalità
docente responsabile, che evita la solitudine dell’insegnante e
lo impegna nella ideazione, gestione e verifica di un progetto educativo
condiviso.
In merito agli obiettivi specifici di apprendimento ci limitiamo in questa
parte ad alcune considerazioni, limitatamente ad alcune discipline, a
titolo esemplificativo delle osservazioni precedentemente avanzate.
Italiano
Dagli obiettivi proposti si ricava l’intenzione di ridimensionare
la riflessione sulla lingua per tornare ad un insegnamento prevalentemente
formale e grammaticale dell’italiano, quasi fosse pensato in funzione
del latino. Fin dai primi anni infatti, le competenze linguistiche sono
identificate soprattutto come categorie grammaticali, sovente scollegate
dallo sviluppo delle abilità. Addirittura è stato introdotto
un generico “grammatica e sintassi”, senza che si capisca
quale sia il criterio di classificazione adottato e quale rapporto questa
voce abbia con le altre nozioni grammaticali, indicate nella stessa colonna.
Vogliamo sottolineare che la riflessione sulla lingua gioca un ruolo fondamentale
per la crescita complessiva dell’individuo, perché sviluppa
la capacità di riflettere sull’atto comunicativo, sul pensiero,
su quelle operazioni cognitive che influenzano i processi mentali e i
comportamenti. Inoltre, privilegiare il modello metalinguistico tradizionale
a scapito di altri modelli rimette in discussione acquisizioni teoriche
largamente condivise e diffusamente presenti nella pratica didattica.
Storia.
Riteniamo che anticipare agli ultimi due anni della scuola primaria ciò
che attualmente si insegna in prima media è una proposta che sottovaluta
le difficoltà che la struttura del testo storico e del sistema
del sapere storico oppongono alla capacità di comprensione dei
bambini. Inoltre la scelta dell’asse cronologico lineare rischia
di essere improduttiva per la formazione di una cultura storica: i bambini
di quella età non riescono a mettere ordine tra i fatti che non
sia quello della successione temporale, a discapito dei quadri cronologici
Rispetto ai programmi del 1985 osserviamo un complessivo arretramento:
risultano impoveriti gli aspetti formativi e didattici a vantaggio di
quelli più nozionistici e disciplinari. Inoltre la visione eurocentrica
della storia diventa un’occasione mancata per una educazione interculturale
che dovrebbe essere un obiettivo fondamentale della nuova scuola. Emerge
infine la volontà di anticipare troppo, mentre sarebbe fondamentale,
dal punto di vista formativo, dare più tempo e spazio a tutti gli
aspetti propedeutici allo studio della storia.
Arte e Immagine
Le conoscenze e gli obiettivi di apprendimento proposti non sembrano rispettare
le tappe evolutive dell’alunno: non c’è un’adeguata
attenzione agli aspetti relativi allo sviluppo sensoriale, motorio e percettivo,
decisivi per poter sviluppare e potenziare le capacità espressive,
comunicative e creative del bambino.
E’ inoltre sottovalutata la dimensione dello sviluppo percettivo
visivo, inteso come educazione al vedere e all’osservare, che costituisce
oggi, nella società multimediale, un’abilità centrale
per sviluppare competenze di lettura (denotativa/connotativa) delle immagini
e di produzione con i linguaggi della comunicazione visiva.
Non risultano chiari gli apporti interdisciplinari, in particolare con
l’area linguistica, musicale, motoria, scientifica ecc., necessari
per potenziare le capacità percettivo/sensoriali e sviluppare un
uso integrato dei codici, indispensabile anche per leggere e comprendere
il linguaggio audiovisivo e multimediale.
Gli obiettivi relativi all’alfabetizzazione ai linguaggi dell’immagine,
cioè l’acquisizione di capacità espressive attraverso
la conoscenza degli strumenti e delle regole del linguaggio visuale, risultano
sovradimensionati rispetto alle capacità di concettualizzazione
dei bambini, che a quella età non hanno ancora pienamente sviluppato
le categorie cognitive del simbolico/astratto.
Matematica e Scienze
Ci sembra eccessiva la quantità delle conoscenze e degli obiettivi
da perseguire rispetto alle ore che saranno effettivamente dedicate alla
matematica e alle scienze. Un eccesso di contenuti favorisce una impostazione
superficiale, nozionistica, che non sollecita un approccio di tipo operativo-laboratoriale
e trascura i processi di apprendimento dei bambini e la relazione didattica.
Scienze motorie e sportive:
dove sono finite la psicomotricità e l’educazione psicomotoria?
Scuola secondaria di 1° grado
Vogliamo ricordare che
i punti di forza della scuola media, soprattutto a partire dagli interventi
normativi degli anni settanta (decisiva al riguardo la L. 517/1977) sono
costituite dalla programmazione educativo-didattica, che traduce i Programmi
in percorsi/strategie volti a contestualizzare, individualizzare, integrare
l’insegnamento/apprendimento; dalla collegialità che caratterizza
l’attività di programmazione e garantisce la coerenza degli
interventi, l’unitarietà del processo di apprendimento/insegnamento,
la pari dignità e valenza formativa di tutte le discipline che
concorrono in ugual misura alla realizzazione della mediazione didattica
e alla formazione di tutti gli allievi; dall’individualizzazione
intesa come principio regolatore dell’azione didattica stessa.
Le Indicazioni sembrano invece non considerare gli elementi portanti che
hanno costituito l’asse pedagogico-didattico-culturale della scuola
media e dell’intero ciclo di base.
Dai documenti traspare infatti una programmazione con un ridotto campo
d’azione, diventando solo la trasposizione degli obiettivi specifici
in obiettivi formativi.
La collegialità scompare del tutto (non si ravvisano indizi nelle
Indicazioni), aprendo fra l’altro la questione complessa della titolarità
della responsabilità dell’azione educativa, dal momento che
i Piani personalizzati rimandano ad altri soggetti (docente tutor, famiglie,
studenti) le scelte da compiere, attraverso una impropria quanto ambigua
negoziazione delle parti, che porrà non pochi problemi di natura
pedagogica, professionale, culturale.
Il valore formativo dell’individualizzazione si deforma (di ciò
abbiamo precedentemente argomentato).
Registriamo quindi la volontà di non prendere atto delle esperienze
più significative di questo grado di scuola, la sottovalutazione
dei suoi punti di forza, il disconoscimento degli elementi che ne hanno
determinato la crescita.
Vediamo così affermarsi il rischio di una gerarchizzazione tra
discipline, tra insegnanti, tra percorsi di studio all’interno di
un contesto scolastico privo di organizzazione (classe, Consigli di classe,
dipartimenti) dove la richiesta, pur legittima che viene dall’esterno,
si potrebbe trasformare in una negoziazione privatistica, con buona pace
della progettualità educativa della scuola.
Vogliamo inoltre far notare che la “rottura” (sul piano epistemologico,
psico-pedagogico e organizzativo) con la scuola primaria, sottolinea la
natura della “media” come scuola “secondaria”,
con argomentazioni, fra l’altro, assai forzate. Si presuppone, per
esempio, in ragazzi di quella età, la compiutezza del processo
di astrazione e la capacità di capire immediatamente il rapporto
tra realtà e rappresentazioni, mentre sappiamo che la preadolescenza
si caratterizza per una compresenza di modalità del conoscere -
deduttiva e induttiva - che spesso fanno collocare un approccio “modellizzato”
alla fine del triennio (e non sempre in uguale misura di consapevolezza
e di padronanza concettuale).
Il ciclo di base è un alternarsi e un arricchirsi di diverse modalità
conoscitive, per questo appare superata l’immagine “stadiale”
di un bambino che transita dal realismo ingenuo al pensiero ipotetico-deduttivo
unicamente seguendo le tappe scandite dai diversi gradi scolastici. L’identità
della scuola media dovrebbe essere cercata proprio in questa compresenza
dinamica di modalità conoscitive: da un lato vicine alla percezione
globale del sé e del mondo, dall’altro con caratteri fortemente
simbolizzati. Da qui discende quella flessibilità di metodologie
e strategie didattiche, che utilizza il passaggio dal “realismo
ingenuo” ai processi di astrazione, non in chiave di selezione,
ma di riconoscimento dei diversi stili cognitivi e, in definitiva, di
promozione sociale.
Siamo perciò contrari ad uno schematismo di comodo che veda contrapposte,
da un lato, la scuola elementare predisciplinare, dall’altro, la
scuola media disciplinarizzata. Lo statuto delle discipline non si “autosospende”
per effetto dell’età degli allievi: il rigore e la coerenza
scientifica rimangono punti di riferimento per qualsiasi azione di insegnamento/apprendimento.
Ciò che si modifica nel passaggio graduale dell’età
evolutiva è la modalità della mediazione didattica.
Fatta questa premessa vogliamo sottolineare che le discipline, anche per
le finalità istituzionali di tutto il ciclo di base, restano “pretesti”
formativi: ne deriva la nostra contrarietà all’eccessiva
“secondarizzazione” di questo grado di scuola che, attraverso
un insegnamento esasperatamente formalizzato e personalizzato, tenda a
“orientare”, “sancire”, “canalizzare”
precocemente i ragazzi in piena età evolutiva.
La scuola dell’identità.
Si dice nel documento: nella “fatica interiore del crescere…ogni
preadolescente…ha bisogno della presenza di adulti coerenti e significativi
disposti ad ascoltare, aiutare…in particolare i genitori, e più
in generale la famiglia…devono essere coinvolti nella programmazione
e nella verifica dei progetti educativi e didattici posti in essere dalla
scuola”. Facciamo presente che nella scuola, laddove si riscontrino
situazioni di svantaggio socio-culturale, da sempre i docenti tentano
di coinvolgere le famiglie nell’azione educativa e formativa dei
ragazzi, ma tutti gli operatori scolastici sanno che proprio i genitori
e le famiglie di questi ragazzi spesso si sottraggono all’azione
di coinvolgimento posta in essere dalla scuola. Si tratta dunque di una
questione molto complessa, che non può certo essere risolta con
un accorato richiamo ai doveri dei genitori.
Inoltre, l’attività di programmazione e di verifica del processo
di apprendimento - di competenza dei docenti e oggi esplicitata nel Pof
- non può essere ulteriormente estesa alla partecipazione di altri
soggetti senza incorrere nel duplice rischio di svilire la funzione docente
e di banalizzare l’impianto culturale della scuola. Né si
può condividere la tesi secondo cui è compito della scuola
farsi carico di tutti gli elementi di criticità presenti nella
società.
Non ci convince neppure l’idea secondo cui per risolvere i problemi
degli adolescenti basterebbero la disponibilità, l’ascolto,
l’amore. Fattori tutti condivisibili, ma certamente non risolutivi
per affrontare problematiche complesse la cui soluzione richiede interventi
sinergici di altre istituzioni.
La scuola dell’educazione
integrale della persona.
Troviamo scritto nel testo: la relazione educativa implica “l’accettazione
incondizionata l’uno dell’altro, ci si prende cura l’uno
dell’altro come persone…” infatti in questo “clima
gli studenti apprendono meglio”.
Vogliamo sottolineare che non basta quel “clima” per promuovere
“apprendimenti significativi e davvero personalizzati per tutti”.
C’è bisogno piuttosto di più tempo scuola, di continuità
educativa, di collaborazione tra i docenti. Aspetti fondamentali, che
invece i documenti ignorano
In merito agli Obiettivi specifici di apprendimento delle singole materie
valgono le considerazioni già fatte a proposito della scuola primaria.
Italiano
In apparenza sembrerebbe recepito l’impianto generale del programma
di italiano del ’79, tuttavia, a una più attenta analisi,
si percepisce la diversa visione: dalle Indicazioni emerge una concezione
del linguaggio non inteso come sistema complesso che vive e si arricchisce
anche attraverso il racconto delle emozioni e delle esperienze personali
dei ragazzi. Gli obiettivi specifici di apprendimento privilegiano l’analisi
degli usi linguistici funzionali, ponendo in ombra gli usi creativo-espressivi
e la dimensione dell’immaginario che invece sono fondamentali nello
sviluppo del linguaggio, specialmente in questa fascia di età.
Osserviamo, inoltre, che la riflessione sulla lingua viene intesa (come
accade anche nella scuola primaria) essenzialmente come studio formale
dell’italiano, eccessivamente scandita in un rigido repertorio di
conoscenze-abilità. Non c’è traccia di una educazione
linguistica considerata come insegnamento trasversale, veicolo per la
comprensione e lo studio delle altre discipline (in questo senso oggetto
di programmazione del Consiglio di classe). Non si fa esplicito richiamo
alla necessità di rilevare i bisogni linguistici e comunicativi
degli allievi, prima di procedere alla programmazione delle unità
di apprendimento. Non si dà spazio alla lettura intesa come attività
libera, finalizzata al piacere del leggere in sé, per l’arricchimento
delle idee, per lo sviluppo dell’immaginario. E’ posto in
ombra il riferimento all’insegnamento integrato delle lingue (L1,
L2…). I rapporti conoscitivo-critici con i media sono indicati solo
nel Profilo educativo e non si è ritenuto di doverli esplicitare
nelle abilità.
Vogliamo infine sottolineare che gli obiettivi, in particolare quelli
del terzo anno, risultano troppo ambiziosi per essere perseguiti nei tempi
previsti: le abilità di comprensione-scrittura sono fortemente
incentrate attorno al testo argomentativo e alle sue peculiarità;
sono previste alcune abilità persino congeniali al triennio delle
scuole superiori e, peraltro, improponibili senza una coerente attenzione
alla gradualità dell’educazione letteraria, come per esempio
“esplicitare le principali relazioni extratestuali con il contesto
culturale e le poetiche di riferimento” o “scrivere testi
‘imitativi’ dello stile di un autore cogliendone le peculiarità
più significative”; fino a quel “descrivere, argomentando,
il proprio progetto di vita e le scelte fatte per realizzarlo” che
appare persino irridente nei confronti delle legittime incertezze e dei
travagli caratteristici dell’età e che risultano, in tale
modo, non riconosciuti e non rispettati.
Storia
Dal testo non emerge una cultura storiografica esplicita, anzi sembra
che l’insegnamento della storia debba rincorrere la “verità
oggettiva”, inevitabilmente parziale e legata alla diversità
degli approcci. La visione eurocentrica non favorisce la comprensione
del mondo e non si intreccia con una necessaria educazione alla “Convivenza
civile”. Anche per questa materia riteniamo che gli obiettivi siano
troppo ambiziosi per essere perseguiti nei tempi previsti. Inoltre, riproporre
nell’ultimo anno lo studio della storia dell’Ottocento e del
Novecento significa voler ridurre lo spazio che aveva consentito agli
insegnanti di trattare in tempi più distesi e in modo più
approfondito la storia recente. Mancano infine riferimenti al rapporto,
pur così importante, tra storia e geografia, con il rischio di
vanificare una pratica di apprendimento/insegnamento pluridisciplinare
e interdisciplinare avviata e consolidata da diversi anni proprio nella
scuola di base. I richiami all’inter e alla pluridisciplinarità,
pur presenti nel documento, rimangono perciò solo dichiarazioni
di principio.
Arte e Immagine
L’impianto della disciplina, organizzato rigidamente in un primo
biennio e in un ultimo anno, impone una forzata scansione del percorso
di apprendimento che contrasta con il modello didattico flessibile e ricorsivo
previsto dagli attuali programmi di educazione artistica. Non si fa alcun
riferimento allo sviluppo delle capacità visive relative al saper
osservare e descrivere le immagini e le opere d’arte; sono insufficienti
le indicazioni che riguardano l’acquisizione di competenze sintattico-grammaticali
per produrre e comunicare con il linguaggio delle immagini; c’è
un eccessivo sbilanciamento sul versante dell’arte, che viene intesa,
non solo come lettura delle opere, ma anche come conoscenza cronologica
delle epoche storiche.
Scienze
La quantità delle contenuti risulta veramente eccessiva, alcuni
obiettivi sono addirittura specialistici e presuppongono, per essere effettivamente
perseguiti, sia uno studente di età maggiore sia un maggior numero
di ore. Alcuni contenuti e obiettivi sono più propriamente educativi,
andrebbero quindi collocati nelle Educazioni o cancellati. Anche per le
scienze si coglie poca organicità nel rapporto che dovrebbe esistere
fra conoscenze e abilità.
Matematica
La scansione curricolare 2+1 non ha alcun senso nella didattica della
matematica; inoltre non c’è coerenza fra le conoscenze e
le rispettive abilità. L’impianto della geometria è
molto tradizionale e rappresenta un passo indietro rispetto ai programmi
del 1979, con poco spazio, e mal collocato, dedicato alle trasformazioni
geometriche. Anche l’impianto dell'aritmetica e dell’algebra
è tradizionale senza il coraggio di operare tagli; la matematica
dell’incertezza è giustapposta in modo poco significativo.
Registriamo inoltre che sono annullati o ridimensionati tutti i caratteri
di “trasversalità” presenti nei programmi del ’79.
Manca un approccio costruttivo e problematico verso la disciplina e non
c’è alcuno spazio per una dimensione operativa e laboratoriale,
per cui predomina l’ottica della formazione precoce, senza continuità
con la scuola primaria e senza attenzione alle modalità di sviluppo
cognitivo.
Il Profilo educativo,
culturale e professionale dello studente alla fine del primo ciclo di
istruzione (6-14 anni)
Riteniamo che parlare di
“profilo professionale” a conclusione della scuola di base,
in presenza comunque di un obbligo formativo sino ai 18 anni, sia inopportuno
ed eccessivamente anticipatorio. Il “profilo” sembra andare
nella logica di una scuola finalizzata unicamente all’orientamento,
attraverso una precoce differenziazione dei percorsi e un troppo precoce
riferimento al cosiddetto “progetto di vita”. Sostenere che
l’adolescente, all’uscita dalla scuola di base, sia in grado
di costruirsi un personale “progetto di vita”, scommette su
una anticipata capacità di scelta scolastico-professionale, quasi
a voler giustificare la canalizzazione precoce dei percorsi formativi
proposti dalla legge n. 53 del 28 marzo 2003.
Colpisce la sottovalutazione di quella delicata fase di crescita dei ragazzi
che corrisponde ai 13-15 anni (che gli insegnanti conoscono bene), carica
di incertezze, di inquietudini e di ansie, tali da far parlare di “crisi
adolescenziale”. Si pensa veramente che il nostro/la nostra adolescente
(e ci limitiamo a qualche esempio tra i più clamorosi, nel contesto
di una descrizione di competenze) sia capace “di conferire senso
alla vita”, di ravvisare “la differenza tra il bene e il male”,
di maturare, esprimere e argomentare “un proprio progetto di vita”?
Da tutto il documento emerge un profilo caratterizzato da eccellenti attitudini
intellettuali e da eccellenti doti caratteriali, in una prospettiva spiritualistica
che travalica il ruolo e i compiti formativi della scuola.
Si coglie infatti uno sbilanciamento tra affermazioni relative alla maturazione
dell’identità personale e sociale del ragazzo e l’incidenza
della formazione culturale sullo sviluppo personale, obiettivo specifico
della formazione scolastica.
Questa debole e non esplicitata connessione tra conoscenza, abilità,
atteggiamenti (nella quale si configura il profilo della “competenza”),
fa assumere a molte pagine dedicate ai comportamenti, alla conquista dell’autonomia,
alle relazioni sociali, un risvolto del tutto moralistico, al limite della
precettistica.
Ribadiamo invece la necessità di definire un profilo culturale
alla fine del primo ciclo attraverso un quadro culturale e concettuale
di conoscenze/abilità/competenze da cui si evinca la continuità-coerenza-evoluzione
di procedure metodologiche, di modalità di lavoro, di strumenti
culturali, così che ci sia congruenza tra il progressivo evolversi
dei contenuti e lo sviluppo della personalità. A maggior ragione,
essendo il primo ciclo caratterizzato da discontinuità e separatezze,
c’è bisogno di un contesto flessibile che accompagni e contenga
tale andamento.
Ribadiamo quindi la necessità di un ripensamento del significato
formativo e culturale di tutto il primo ciclo, che dovrebbe trovare adeguata
trattazione nel “Profilo educativo, culturale e professionale dello
studente alla fine del primo ciclo di istruzione (6-14 anni)”.
Sottolineiamo inoltre che tale ciclo deve chiamare in causa le migliori
tradizioni della scuola elementare e media, recuperando pienamente il
valore formativo della scuola dell’infanzia; solo in questo modo
sarà possibile reinterpetare la funzione di ambiente di apprendimento
dell’intero percorso formativo di base, in modo da stimolare motivazioni,
curiosità e partecipazione degli allievi, offrendo solidi alfabeti
e codici per rappresentare il mondo, comprenderlo, comunicarlo.
Roma, 5 maggio 2003
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