10. LA FUGA DEL RE E DEL GOVERNO 10.1. Dopo l'annuncio dell'armistizio Nel pomeriggio dell'8 settembre, la notizia dell'annuncio anticipato dell'armistizio giunge mentre è in corso una sorta di "consiglio della Corona" convocato dal re in Quirinale. Sono presenti, oltre al re e a Badoglio, il ministro Guariglia, i generali Ambrosio, Roatta, Carboni, Sandalli e Zanussi, l'ammiraglio De Courten, il maggiore Marchesi, il duca Acquarone e Puntoni, aiutante in campo del re. E' in questa sede che si discute della nuova situazione e si prendono le decisioni fondamentali, mentre non viene convocata nessuna riunione del governo, tenuto fuori da tutto, e non sono convocate riunioni di emergenza al ministero della Guerra, per affrontare le eventuali misure militari da prendere. L'annuncio dell'armistizio, dato alle 16.30 da radio New York, coglie del tutto di sorpresa il re e Badoglio. Negli accordi del 3 settembre, a Cassibile, gli alleati hanno solo comunicato informalmente che gli sbarchi previsti sul suolo italiano sarebbero avvenuti entro due settimane. Il governo e i comandanti militari italiani sono convinti che l'armistizio verrà comunicato intorno al 12 settembre, e comunque hanno cercato di convincere i rappresentanti alleati della necessità di spostare quanto più possibile nel tempo l'annuncio. Eisenhover, per ridurre le paure degli italiani circa l'eventuale occupazione di Roma da parte dei tedeschi, ha promesso che lo sbarco sarebbe avvenuto il più a nord possibile, mentre la scelta effettiva è già caduta su Salerno, troppo lontana per influenzare la situazione militare romana. 10.2. Il governo e il re tra due fuochi In questa situazione il governo italiano si trova in mezzo a due spinte diverse: da una parte la paura della reazione tedesca all'annuncio del "tradimento" italiano (e ancora l'8 settembre il re ha confermato ad Hitler, attraverso l'ambasciatore germanico, la fedeltà ai patti sottoscritti con l'alleato); dall'altra la volontà di Eisenhover di rompere gli indugi, anche perchè l'annuncio dell'armistizio va dato prima dello sbarco alleato, per impedire una resistenza delle truppe italiane assieme a quella, prevedibile, dei tedeschi. Ma c'è soprattutto, negli alleati, una malcelata diffidenza nei confronti degli interlocutori italiani; per loro gli atteggiamenti di Vittorio Emanuele III e di Badoglio appaiono oscillanti, equivoci e pericolosi. Meglio, allora, costringere gli italiani a decisioni nette, per impedire loro di mantenersi in bilico tra i due campi. In effetti, il "consiglio della Corona" discute, ancora nel pomeriggio dell'8, se accettare o meno l'armistizio, anche se la cosa può sembrare, a quel punto, assurda. Nella discussione emerge l'impossibilità di avvisare i comandi e diramare gli ordini eventuali per organizzare una difesa dalla sicura reazione tedesca. Per questo vi è chi propone di sconfessare l'armistizio, attribuendone la responsabilità al solo Badoglio, e confermando la fedeltà all'alleato tedesco. A far pesare l'orientamento contrario sono la convizione che Hitler reagirà comunque all'annuncio, che gli alleati faranno valere la loro forza militare, senza più la possibilità di trattative, che gli italiani non saranno, in ogni caso, disponibili a continuare a combattere. 10.3. La decisione del re di fuggire Alle 19.45 Badoglio comunica per radio che l'Italia ha accettato l'armistizio imposto dagli alleati. Nel suo proclama ordina ai reparti di cessare le ostilità contro le forze angloamericane e di reagire ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza. Non vengono però date disposizioni precise ai comandi militari, e l'opposizione ai tedeschi è sporadica e breve. Non è, quello di resistere ai tedeschi, l'obiettivo del re e di Badoglio. Infatti, già da tempo il re ha parlato dell'eventualità di un suo allontanamento da Roma, per poter continuare la sua azione di capo dello Stato. Il 28 luglio ha ordinato a Puntoni, suo aiutante in campo, di predisporre tutto per un'eventuale partenza da Roma: "Non voglio correre il rischio di fare la fine del re dei Belgi. ... Non ho alcuna intenzione di cadere nelle mani di Hitler e di diventare una marionetta di cui il Führer possa muovere i fili a seconda dei suoi capricci". Il 2-3 agosto i preparativi per un suo allontanamento da Roma sono terminati. Puntoni gli fa, però, presente che "un allontanamento non giustificato da ragioni pressanti, quali la dichiarazione della Capitale città aperta, o la minaccia di un'azione tedesca, [avrebbe potuto] avere ripercussioni gravissime e compromettere l'esistenza della stessa Dinastia". Proprio questa situazione si delinea nella notte tra l'8 e il 9 settembre, quando, nonostante i combattimenti a Porta San Paolo, le truppe corazzate e i paracadutisti tedeschi sembrano sul punto di entrare in Roma. I generali Ambrosio e Roatta consigliano a Badoglio di lasciare Roma; il re, informato, non muove alcuna obiezione. Per Puntoni, il re sarebbe disposto "a malincuore ad abbandonare Roma" e solo con l'intento di "garantire la continuità dell'azione di governo in collegamento con gli alleati e di impedire che la Città Eterna [subisca] gli orrori della guerra". Qualche perplessità viene invece dal principe di Piemonte, che preferirebbe, almeno lui, rimanere, soprattutto per non dare spazio alle sicure reazioni delle correnti democratiche alla scelta del re. La decisione è comunque già stata presa. 10.4. Le conseguenze della fuga Nelle primissime ore del 9 settembre Vittorio Emanuele III, la famiglia reale, Badoglio e due ministri militari, più altre persone del seguito, lasciano Roma lungo la via Tiburtina, stranamente lasciata libera dall'avanzata tedesca, e si dirigono verso Pescara; ad Ortona si imbarcano sulla corvetta Baionetta e si consegnano agli alleati nell'Adriatico meridionale. Indipendentemente dalle motivazioni immediate che portano il re e il Governo ad abbandonare Roma, questa scelta si accompagna al disastro politico e militare successivo all'8 settembre. Il Paese si trova in un momento tragico della sua storia, senza una guida e senza indicazioni. Le forze armate affrontano i tedeschi solo in casi limitati, senza coordinamento, ma il grosso dell'esercito è allo sbando; l'Italia perde la possibilità di contribuire come forza decisiva alla continuazione della guerra, vedendo fortemente ridimensionato il suo ruolo nell'opinione degli alleati. Per i tedeschi gli italiani sono diventati "traditori" e saranno puniti con un'occupazione durissima e con una guerra che attraverserà la penisola per altri 20 mesi. Uno Stato italiano non esiste più: nè il Regno del Sud, creato dagli alleati nel Meridione, nè la Repubblica sociale di Mussolini, sotto il controllo degli occupanti tedeschi, esercitano più un'effettiva sovranità. Il re e la Corona, oltre a Badoglio e al suo governo, finiscono per apparire, non soltanto ai partiti democratici ed antifascisti, ma alla maggioranza dell'opinione pubblica, a sud come a nord, responsabili della catastrofe, tanto più che hanno lasciato l'esercito e gran parte del Paese nelle mani dell'occupante tedesco e delle loro rappresaglie. Con la fallimentare gestione dell'armistizio, il sovrano perde l'ultima occasione per riabilitarsi dalla responsabilità del coinvolgimento nel regime di Mussolini e nella decisione di entrare in guerra. Da questo crollo di credibilità non solo Vittorio Emanuele III, ma tutta la famiglia reale, sapranno più riprendersi. |
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