21. LA VICENDA DEI SOPRAVVISSUTI

I militari italiani sopravvissuti a Cefalonia, dopo essere stati trattati con molta durezza nei primi giorni dai loro carcerieri, sono gradualmente trasferiti ad Atene e da qui avviati verso i campi di lavoro forzato in Europa centrale. Tuttavia il dramma di questi uomini continua. Il trasferimento sul continente avviene in condizioni estremamente precarie e di forte pericolo per i prigionieri trasportati senza rispettare alcuna norma di sicurezza, per decisione esplicita dei comandi tedeschi. Gli incidenti che si verificano alle navi trasporto nelle settimane successive sono, in un certo senso, quasi volute. Il 28 settembre il piroscafo Ardena fa a finire contro una mina e affonda poco a sud del porto di Argostoli. Si salvano i 60 tedeschi di scorta, ma solo 120 degli 840 prigionieri accalcati nelle stive. Il 13 ottobre c'è l'affondamento del piroscafo Marguerita, sempre a causa di una mina, ma in alto mare, muoiono 544 prigionieri sui 900 imbarcati, oltre a 5 tedeschi. Tra il 13 ottobre e il 2 novembre altri quattro piroscafi riescono a raggiungere il porto di Atene, trasportando circa 4.500 prigionieri. Altri 102 sono trasferiti prima della fine di dicembre a bordo di due motovelieri. Poi, il 6 gennaio 1944, c'è l'affondamento del motoveliero Alma, con un centinaio di prigionieri. In totale da Cefalonia partono, quindi 6.400 prigionieri italiani, le vittime sono 1.350. Bisogna tuttavia considerare che circa 2.250 sono i militari italiani trasferiti a Cefalonia da Zacinto, anche se probabilmente le vittime degli affondamenti sono in prevalenza soldati della Acqui.

In totale sono circa 2.500 i prigionieri della divisione Acqui trasportati nei campi di lavoro tedeschi, soprattutto in Germania e in Polonia; della loro sorte non sappiamo molto; i dati esistenti parlano di almeno 175 soldati morti durante la prigionia come IMI, internati militari italiani. Ricordiamo, però, un episodio accaduto agli inizi del 1945, nel Lager 240 di Borisoff, in Bielorussia: dopo la battaglia di Minsk, 152 soldati italiani prigionieri, tra cui 40 provenienti da Cefalonia e 18 da Corfù, riescono ad evadere e a raggiungere il comando russo; in un primo tempo rinchiusi in un campo di prigionieri tedeschi, riescono a far conoscere la loro storia e vengono liberati, collaborando poi con i soldati dell'Armata Rossa.

A Cefalonia rimangono così circa un migliaio di "prigionieri" italiani, sottoposti, almeno per un certo periodo, ad un duro regime disciplinare, ma senza il terrore dei primi tempi. Sono distribuiti tra diversi campi, alle carceri civili e alla ex caserma Mussolini in Argostoli, a Chelmata, a Pessades, a Capo Munta, a Fiskardo, a Minies. Tuttavia, almeno per una parte di questi uomini, lo status riconosciuto è di militari dell'Esercito repubblicano, ovvero della RSI, nelle cui forze operanti a tutto il dicembre 1944 risultano 6 ufficiali e 328 sottufficiali e soldati del Gruppo Artiglieria Costiera Cefalonia, 225 militari del battaglione Genio fortificazione, 79 sottufficiali e soldati del Reparto Sanità, tutte queste truppe sono alle dipendenze di reparti tedeschi. A proposito di questi uomini il capitano Pampaloni parlò, allora, di collaborazionisti. Sembra tuttavia che essi si siano occupati della sola manutenzione delle batterie o fossero addetti a lavori pesanti, operando, quando possibile, anche atti di sabotaggio e rendendosi disponibili, al momento della partenza dei tedeschi, ad appoggiare l'azione armata dei patrioti.

La popolazione subisce l'occupazione tedesca in un clima di paura, i collaborazionisti sono numerosi e l'attività partigiana piuttosto scarsa. Tra i prigionieri italiani, e tra i molti che si sono rifugiati nell'interno, circa 150-200, ma Lukatos parla addirittura di 1.000, protetti spesso da contadini e cittadini di Cefalonia, si mantiene un'attività clandestina di resistenza, coordinata da Apollonio, che si protrae durante tutti i mesi di occupazione, anche se i rapporti con i partigiani comunisti non sono facili. Altri 100-150 militari riescono a raggiungere il continente, tra questi Pampaloni, aggregandosi ai partigiani dell'ELAS o dell'EDES. I tedeschi abbandonano Cefalonia ai primi di settembre 1944. L'8 settembre, un gruppo di militari italiani, alcuni prigionieri, altri entrati in clandestinità sull'isola nei mesi dell'occupazione tedesca, riescono ad impadronirsi del porto di Argostoli, impedendo che venga fatto saltare. Altre azioni accompagnano la cosiddetta "insurrezione" di Cefalonia. A sera, in piazza Valianos, ad Argostoli, sono issate assieme la bandiera greca e quella italiana. Il 22 settembre 1944 i partigiani dell'ELAS entrano in Argostoli. Nelle settimane successive si confrontano sull'isola i partigiani comunisti dell'ELAS, che vogliono mettere alle loro dipendenze i soldati della Acqui, e la missione militare del governo monarchico greco, appoggiata dagli inglesi. I militari italiani sono riorganizzati e armati, con l'aiuto della missione inglese, nel "Raggruppamento banditi Acqui", forte di 1.300 uomini, di cui una parte proveniente dal continente, li comanda il capitano Renzo Apollonio. Intanto il clima politico in Grecia peggiora. Sta per cominciare la guerra civile, con l'intervento diretto degli inglesi in appoggio ai partigiani monarchici. I rapporti con l'ELAS si inaspriscono, gli italiani sono invitati a partire. Nei giorni 11-12 novembre quasi tutti gli italiani del Raggruppamento, 1.286 reduci, si imbarcano per l'Italia a bordo di due cacciatorpediniere italiane e di cinque mezzi da sbarco inglesi. Nel pomeriggio del 12 sbarcano a Taranto. Un centinaio di volontari rimane però a combattere con i partigiani comunisti.

La sorte dei prigionieri raccolti a Corfù non sarà meno drammatica. Un primo imbarco verso Atene è del 30 settembre, con un trasporto di 1.588 prigionieri. Il 10 ottobre è in partenza da Corfù la motonave Mario Roselli, con ben 5.500 prigionieri. La nave viene colpita e danneggiata da un primo attacco aereo inglese. Il giorno dopo un massiccio bombardamento provoca l'affondamento della Roselli. 1.300 prigionieri muoiono nell'affondamento o a causa delle bombe. Qualche giorno dopo un altro piroscafo riesce a portare in Grecia 2.000 italiani. Non abbiamo nessuna notizia di ciò che accade nei mesi successivi fino alla liberazione dell'isola.

Nelle prime settimane dopo la liberazione di Cefalonia, tra ottobre e novembre 1944, gli italiani sopravvissuti iniziano una prima opera di recupero dei resti dei caduti, ancora abbandonati a centinaia nei campi e sui dirupi. Molti corpi erano stati affondati in mare o gettati in fosse naturali. Una parte dei miseri resti di circa 1.500 caduti recuperati verranno raccolti nel cimitero cattolico che si trova a pochi chilometri da Argostoli, che diviene un primo provvisorio ossario della divisione Acqui.

Le autorità militari italiane iniziano subito un'attività di studio per ricostruire i fatti di Cefalonia; allo Stato Maggiore interessa non solo la strage della Acqui, ma anche capire le responsabilità di Gandin e di alcuni ufficiali nella fase preliminare alla battaglia. Lo stesso Amos Pampaloni, rientrato a Taranto nel novembre 1944, dopo aver combattuto sui monti dell'Epiro con le formazioni partigiane comuniste per 14 mesi, sarà subito interrogato da uomini del Servizio informazione militare (SIM). Nel 1945 l'Ufficio Storico dell'Esercito incarica il tenente colonnello Giuseppe Moscardelli di raccogliere le testimonianze in una memoria complessiva su Cefalonia.

Tra il 19 ottobre e il 5 novembre 1948, vi è finalmente una missione governativa militare ufficiale, che ha il compito di approfondire l'inchiesta, anche interrogando i testimoni greci; inoltre si cerca di creare un ossario dei caduti direttamente a Cefalonia, ma la guerra civile allora in corso in Grecia e le tensioni politiche internazionali impediscono di attuare questo progetto. Al ritorno della missione, la "Relazione riservata circa i fatti di Cefalonia" presentata dal tenente colonnello Picozzi, evidenzia le perplessità per il ruolo di alcuni ufficiali, in particolare del capitano Apollonio, su cui vi sono testimonianze contraddittorie: un eroe, guida della lotta ai tedeschi per alcuni, un insubordinato e quasi un "traditore" per altri. In effetti ad Apollonio sarà rifiutata la medaglia al valore, sia dopo la guerra, quando sarà decorata la divisione Acqui, sia nuovamente nel 1962. Queste accuse ritorneranno nel corso di un processo intentato dal Tribunale militare di Roma. Per lo Stato Maggiore, comunque, la "questione" Cefalonia rimane, per molti anni, imbarazzante e, preferibilmente, da chiudere definitivamente.

E' a questo punto che il governo italiano decide di riportare in patria tutte le salme di militari italiani caduti in Grecia. L'esumazione sistematica delle salme a Cefalonia inizia solo nel 1952, ma richiede circa un anno di lavoro: solo nel luglio 1953 sarà possibile recuperare i resti scaraventati nei pozzi di Troianata. Nel febbraio 1953, è effettuato un primo rimpatrio, a bordo della nave Stromboli, che trasporta i resti a Bari, dove è presente il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi. Un secondo trasporto sarà effettuato, sempre verso Bari, qualche mese dopo, con la nave Dalmazia. Oggi riposano nel Sacrario Nazionale dei Caduti d'Oltremare di Bari.