L'educazione in Grecia

In Grecia ritroveremo molte cose che abbiamo incontrato in Egitto. In Omero, definito da Platone «l'educatore di tutta la Grecia», abbiamo le più antiche testimonianze, talvolta con le stesse parole degli antichi insegnamenti egizi; e accanto a lui, Esiodo.

I due elementi dell'educazione dei dominanti sono anche qui le azioni e le parole: érga ed épea, o "ginnastica" e "musica". Ma che cosa sono propriamente musica e ginnastica? Musica è la conoscenza delle tradizioni patrie, quella che oggi diremmo la letteratura, che allora si tramandava cantando in coro; e ginnastica è l'addestramento alla guerra, attraverso vari sport e la danza pirrica o guerresca.

La ginnastica anzitutto: «Non c'è maggior gloria di quella che si con­quista con le braccia e coi piedi», dirà Leodamante, figlio del re dei Feaci Antinoo (Odissea, vici, 147-148). Ma anche la musica, in quanto conoscenza delle tradizioni: Achille, ritiratosi sotto la tenda, si diletterà di musica, cantando le gesta di antichi eroi e accompagnandosi sulla cetra, come faranno nell'isola dei Feaci, o nell'Itaca di Ulisse, gli aedi Femia e Demodoco.

A educare a queste abilità provvede anche qui un "nutritore". Tale è quel Fenice (forse un mito più recente), che compare come amba­sciatore dei greci presso Achille, perché considerato da lui «come un figlio». E lui stesso a rievocare le sue prime cure di "nutritore": «Ti mettevo a sedere sulle mie ginocchia, e ti porgevo i bocconi tagliati e ti versavo il vino»-, e poi quelle di maestro, che gli insegnava «ad essere dicitore di parole e operatore difatti» (Iliade, ix, 438-433 e 485­495): cioè l'arte della parola da usare «nelle assemblee dove gli uomini diventano illustri», e l'arte della «guerra implacabile». Come non ricordare l'egizio richiamo «al luogo dove si combatte e al luogo dove si discute»? E l'arte della parola è negata ai non nobili, come avviene a Tersite, bastonato da Ulisse per aver osato parlare nell'assemblea contro i re (ivi, li, 246-275). Come non ricordare le minacce egizie al "parolaio", il nieduti?

Oltre a Fenice c'è, figura mitologica anche più antica, il centauro Chirone, che con la sua duplice natura umana ed equina, allude appunto alle parole e alle armi. Ma nell'Iliade egli compare appena, maestro a Patroclo di medicina, arte complementare alla guerra; è invece ben presente nell'opera dell'altro grande poeta della Grecia arcaica, Esiodo, i cui insegnamenti di Chirone già nel titolo ci ricordano quelli egizi (e biblici), ripetendone i contenuti comportamentali e morali. Solo che in una grecità ormai agricola e mercantile, gli insegnamenti non sono quelli di Chirone e Fenice nei poemi omerici. Troviamo invece l'esortazione al lavoro: «Il lavoro non è vergogna, vergogna è l'ozio. Se lavori, presto l'ozioso ti invidierà, non appena avrai guadagno... Se il tuo animo desidera ricchezza, fa come io ti dico: lavora, lavora, aggiungi lavoro a lavoro».

Ovviamente, accanto ai nutritori compare anche la più naturale fi­gura delle nutrici: nell'Odissea omerica quella Euriclea che «ha nutrito al suo petto» Ulisse, e nelle Coefore di Eschilo la nutrice di Oreste, che, avutolo in consegna dal padre, lo nutre e accudisce nei suoi bisogni e lo cura nelle necessarie pulizie. E c'è, e ha rilievo anche nelle testimonianze iconografiche, la consegna al nutritore o alla nutrice da parte del padre o della madre, che verrà raffigurata spesso come un atto simbolico e solenne, e ritroveremo in varie situazioni nei millenni,

Dalle due figure di nutritori-educatori, Chirone e Fenice, risultano dunque due momenti storici e ideali, e una duplicità o ambiguità del rapporto educativo, quello eroico alla parola e alle armi, e quello agricolo-mercantile al lavoro e al guadagno. Tra i rappresentanti di questi ideali una polemica correrà a lungo nella cultura greca. Da una parte Pindaro esalta le famiglie dei nobili vincitori di Olimpiadi, gagliardi nelle arti guerresche perché favoriti per natura dagli dèi, e disprezza i non nobili, i mathontes, che, non dotati dalla natura o dagli dèi, devono apprendere. Dall'altra Senofane, convinto che «dalle vittorie nel pentathlon o nella lotta o nella corsa non può venire alcun vantaggio agli stati», e che «non è giusto anteporre la forza all'utile scienza» (Silli, in Ateneo, Deipnosofisti, 10, 413).

Ma qui una parola occorre dedicare anche alla donna, destinata in generale a "opere femminili" ed esclusa dall'istruzione scolastica. A Sparta si educava come gli uomini, mentre tra gli eoli di Lesbo troviamo i thíasoi, circoli di educazione e di vita, come quello di Saffo.

Così, oltre l'età eroica della guerra di Troia e il medioevo ellenico, siamo entrati nella Grecia storica delle olimpiadi e delle pòleis, le città dove si compie il rivolgimento politico che dai regimi nobiliari e monarchici porterà alle democrazie. E qui troviamo o l'opposizione tra l'educazione spartana, memore dei tempi eroici, e l'educazione ateniese.

A Sparta l'educazione altro non è che un tirocinio militare: come Achille, gli spartani, oltre che a corsa, nuoto, giavellotto, disco, cavalcare, si educano alla "musica", gli inni patriottici di guerra, che sono la sola loro letteratura. La scuola è un chorós, al quale i ragazzi partecipano in gruppi di età o aghélai, e l'insegnamento è un choreghéin, cioè un esercitarsi nella danza guerriera sotto la guida di un choregós.

Ad Atene, dapprima la situazione non era molto diversa da quella di Sparta. Senofonte parla nel Cinegetico della «caccia che educa alla guerra». Anche se si attribuisce a Solone una legge che obbliga i padri a far educare i figli alla caccia, al nuoto, all'equitazione, alla filosofia, alla musica, e anche a leggere, solo agli inizi del quinto secolo, gli anni della vittoria ateniese sui persiani a Maratona, troviamo una scuola di musica e di ginnastica che sia anche di lettere. A metà del secolo, Aristofane, rievocando il passato, ci dice che «i ragazzi si recavano a scuola in file ordinate e imparavano a cantare» versi eroici di antichi poeti, e poi passavano al maestro di ginnastica. Ai diciotto anni per i ragazzi ateniesi veniva l'efebia, una specie di servizio militare. Aristofane non parla ancora di scrittura, e commenta: «Questa è l'educazione che ebbero i combattenti di Maratona» (Nuvole, vv. 961-985).

Eppure, in questa scuola di ginnastica e musica, dopo che verso la metà del vi secolo a.C. si è sistemata la scrittura alfabetica, e che Omero, prima ascoltato dalla viva voce degli aedi o rapsodi, è stato messo in iscritto, deve aver avuto inizio l'insegnamento dei grammatistés, cioè di lettura e di scrittura. Ne abbiamo testimonianze iconografiche in vasi attici, di Duride e di Onesimo, dove è testimoniato l'insegnamento della lettura e della scrittura, e letterarie, come quella di Erodoto, che nel 496 a .C. nell'isola di Chio cadde il tetto di una scuola seppellendo, tutti meno uno, i «centoventi ragazzi che imparavano le lettere» (Storie, vi, 27). Ci sono allora maestri di musica, che sono un chitaristés e un haulétes, e di ginnastica, un paidotribes e di lettere, un grammatistés. E accanto a loro troviamo uno schiavo pedagogo: la professione di nutritore-educatore, che era unica in Fenice, si è sdoppiata.

Quanto ai metodi d'insegnamento, in un frammento di una Tragedia grammaticale di un autore ateniese del v secolo, i cui personaggi sono le lettere dell'alfabeto che recitano se stesse, si rifà il verso alla didattica usuale: «Alfa, beta, gamma, delta, e la e degli dèi...», e così via fino all'omega, e poi seguono le sillabe: «Beta-alfa ba, beta-e be..., gamma-alfa a», e così via fino a «gamma-omega» (in Ateneo, cit., i, 453 e). E Platone ci dice che solo dopo un lungo tirocinio del genere si passava «a leggere i versi dei migliori poeti, in cui ci sono molti ammaestramenti, molti racconti educativi, e lodi e solenni pubblici encomi di uomini virtuosi dell'antichità; e li costringono a impararli a memoria» (Protagora, 325 d).

Ugualmente lenta era la didattica della scrittura, che richiedeva anni di paziente manualità. Sempre Platone ci spiega: «I maestri dell'alfabeto... porgono ai ragazzi la tavoletta dopo avere accennato le lettere con lo stilo, obbligandoli a scrivere seguendo quella traccia» (ivi, 326 e): e li sì costringeva a ripetere all'infinito le stesse frasi, in genere severi "insegnamenti", magari per punizione: finché troviamo scritto un'aggiunta dello scolaro: «Queste sono scritture di mano di un ragazzo torturato».

Il rapporto educativo tra maestro e scolaro, in Grecia come già in Egitto, merita di essere definito come sadismo pedagogico. Alle cinghie d'ippopotamo si è sostituito il nervo di bue: «Dov'è il nerbo di bue con cui punisco quelli che scappano e i discoli?», chiede il maestro Lamprisco in una commedia di Eronda. Segno che, come in Egitto, scappavano dalla scuola e che per questo li si frustava, come in Egitto. Piovono nerbate sul ragazzo sollevato e tenuto bocconi per le spalle e per i piedi da due compagni, in una posizione che ritroveremo per millenni, e che sarà detta "del cavallo": «Quante nerbate, maestro, ti prego, stai per affibbiarmi?»; e interviene la madre: «Quante ne può sopportare la sua cattiva pellaccia» (Didaska1os, 111, 59-80). E in Menandro, tradotto in latino da Plauto, il pedagogo ricorda che «quando leggevi un libro, se avessi sbagliato una sola sillaba, la cinghia del maestro si sarebbe macchiata dei tuo sangue» (Bacchides, w. 420-448). Di fronte a questo sadismo, poteva capitare che i ragazzi si ribellassero, colpendo a loro volta il maestro, corale nella scena di una coppa di Duride del 480 a .C., dove Eracle uccide a colpi di sgabello il suo maestro di musica, Lino, fratello di Orfeo: altra riprova del carattere subalterno, da artigiano del demo, propria dei maestro.

Resta da dire dei nuovi professionisti dell'educazione. Se Chirone e Fenice erano nobili decaduti, accolti per pietà a esercitare il loro nuovo mestiere, non troppo diversa sarà la condizione sociale dei nuovi educatori. L'insegnamento non è mai stato una professione nobile. Ma bisogna distinguere nettamente i suoi diversi livelli, che vanno da quello del pedagogo, una specie di accompagnatore e ripetitore, in generale uno schiavo straniero che balbettava appena in greco (hyperbarízon), come lo Zopiro Trace a cui fu affidato il giovane Alcibiade, a quello di maestro dei grammata (didàskalos), su su fino ai retori e ai sofisti del V secolo che, come Prodico, Gorgia e Protagora, ebbero seguaci, prestigio e ricchezze.

Pedagoghi e anche maestri si diventava se si era schiavi o in miseria, e poteva essere un modo per riacquistare dignità e libertà. Diogene il cinico, divenuto schiavo dei figli di Xeniade, li istruiva, «a parte gli altri insegnamenti» musaico-letterari, anche «a cavalcare, tirare con l'arco, con la fionda, i dardi; e poi nella palestra» (Diogene Laerzio, Diogene, VI, 30-31). Il padre dell'oratore Eschine. rovinato dalla guerra del Peloponneso, fu costretto a fare il maestro; e gli ateniesi presi prigionieri in Sicilia durante quella stessa guerra, «insegnarono le lettere ai figli dei siracusani» (in Zenobio, Iv, 17). E nell'Egitto ellenizzato, Tolomeo di Evergete esiliò molti suoi oppositori, e così «riempì le isole di grammatici, filosofi, geometri, musici, pittori, maestri di ginnastica e medici, e di molti altri professionisti; i quali, insegnando a causa della loro povertà le cose che sapevano, educarono molti uomini illustri» (Ateneo, cit., 83).

Insomma, si insegnava "a causa della povertà". Il fatto è che gli uomini liberi, gli eléutheroi, potevano esercitare un'attività di lavoro, purché «non per l'arte, ma per l'educazione», come dice Platone, ovvero, «non per il guadagno, ma per la conoscenza». come dice Aristotele. Così, secondo la leggenda, Eracle in Italia insegnò l'alfabeto ai familiari di Evandro, un po' come Chirone e Fenice. Come dirà più tardi Plutarco, questa era ritenuta una «attività degna (pragma semnón) quando insegnavano ad amici e parenti; ma più tardi cominciarono a insegnare per mercede» (Quaestiones Romanae, 53), e ciò non era degno di un uomo libero.

Presto si avviò un processo di statalizzazione della scuola, ma quasi casualmente, in seguito alle necessità di guerra, come quando Trezene ospitò i profughi di Atene prima della battaglia di Maratona, e decise non solo di nutrirli, ma anche «di consentire ai fanciulli di crescere tra loro pagando le mercedi per i loro maestri» (Plutarco, Temistocle, 10). Così Astipalea decise di «allevare e educare i figli dei cittadini di Efeso liberati dalla prigionia» (Inscriptiones Graecae, XII, 3, 171). E Locri dispone all'atto della fondazione che «tutti i figli dei cittadini apprendessero le lettere, provvedendo la stessa città ai salari dei maestri» (Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, XII). Poi Platone discusse se convenisse l'istruzione privata o pubblica (idía - demosía); e Aristotele, dopo essersi anche lui domandato «se sia vantaggioso che la loro cura sia pubblica o privata, come si fa. ancora oggi in moltissimi luoghi», concluse che era necessaria una legislazione, ed era meglio che la scuola fosse pubblica e «unica e eguale per tutti» (Politica, vii e viri, 1337 a ). In età ellenistica, dopo l'espansione greca nel Mediterraneo orientale a opera di Alessandro Magno, questo processo può essere documentato per moltissime città, che se ne assumeranno l'onere, spesso giovandosi delle donazioni di benefattori privati o evergeti. Allora si provvide a regolare il funzionamento delle scuole, il calendario, le forniture, i doveri e i salari dei maestri; e si pensò non soltanto alla «educazione degli uomini liberi», gli eléutheroi, come suona l'antica formula, ma in qualche misura anche dei poveri, delle fanciulle e perfino degli schiavi. E questa funzione pubblica comporta una crescita di prestigio per gli insegnanti, anche se con differenze nei tempi e nei luoghi tra gli insegnanti delle lettere ai gradi inferiori e alcuni retori ai gradi superiori.

Le scuole non ebbero mai grandi edifici, ma li ebbero palestre e ginnasi, o luoghi della nudità, cioè di educazione e di svago fisico; e gli stadi, che servivano per lo sport spettacolare. Nei ginnasi, l'antica educazione fisica o ginnastica continua a lungo a prevalere, ma accanto ad essa crescono le attività culturali, nelle quali all'antica musica si sostituisce sempre più la cultura letteraria, e al canto e alla danza gli agoni poetici e culturali. L'antica unità di musica e ginnastica, di fisico e intellettuale, va a poco a poco perduta: la ginnastica perde il suo carattere di tirocinio e mimesi di guerra, e la cultura "musaica" diventa letteraria. I Greci, che abbiamo conosciuto come un popolo di eroi, appariranno ormai ai romani un popolo imbelle di filosofi, letterati e artisti.

In Platone, in Senofonte e in Aristotele è costante la distinzione tra la musica e la ginnastica (e la danza e la caccia, loro mimesi sportiva) da una parte, e le attività produttive svolte per mercede, che non sono degne degli «uomini liberi», dall'altra: e questo principio è talmente fondamentale che Platone nei suoi dialoghi vi insiste tanto da parlare del confronto tra le varie arti (téchnai) e la musica e la ginnastica, nonché l'arte «regale» della politica, molto più spesso che delle idee, per le quali è più noto.

A parte quel tanto di alfabetizzazione, per gli uomini del demo essenziale era l'apprendimento di un'arte. Ma le attività svolte per mercede non sono libere, anche se in esse alcune arti più ricche di cultura, come la medicina o l'architettura o l'insegnamento della retorica e della filosofia, appaiono più ricche di prestigio. Le attività produttive artigianali, come in Egitto, sono cosa dei ceti dominati, non dei dominanti. Nei poemi omerici gli artigiani - indovini, carpentieri, guaritori, aedi - sono stranieri (Odissea, xvii, 382-385); e compaiono donne che eseguono lavori domestici e artigianali, come cardare la lana, alle quali «sono state addestrate» quasi con un vero e proprio apprendistato (ivi, XXII, 422-424). E già sappiamo che l'apprendistato delle arti segue la via dell'osservare, imitare, servire, riprodurre, che già abbiamo visto in Egitto, e su cui tornerà Platone.

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