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Formazione e ruolo dell’insegnante nel cambiamento

Formazione e ruolo dell’insegnante nel cambiamento

di Domenico Chiesa*

Cambia la scuola, cambia l’insegnante

Nel dibattito sull’istruzione, che negli ultimi decenni ha accompagnato la scolarizzazione di tutti i ragazzi fino a 14 e poi fino a 16 anni, è sempre risultata centrale la ridefinizione del ruolo e della formazione degli insegnanti. Il dibattito sulla scuola è, nella sostanza, il dibattito sugli insegnanti.
Fino all’inizio degli anni Sessanta, l’insegnante “gentiliano”, nel ciclo secondario, esauriva le proprie competenze nello spessore della sua formazione culturale in riferimento all’ambito disciplinare di cui era titolare. L’atto dell’insegnare era riconducibile alla spiegazione in classe, alla capacità di “tenere la disciplina” e alla correttezza nella valutazione (intesa come verifica dell’avvenuta trasmissione del sapere). Garantita una sufficiente qualità delle tre azioni, il mancato apprendimento era riferibile alle due variabili di cui era portatore lo studente: l’intelligenza (almeno nella dimensione di “vocazione” allo studio) e l’impegno.
Una situazione molto diversa era invece presente nella scuola dell’obbligo ancora ridotta, anticostituzionalmente, alla fascia 6-11 anni. Qui operavano insegnanti con una formazione “culturale” non universitaria ma in possesso di una notevole competenza didattica.
Per gli insegnanti della scuola secondaria (nei diversi percorsi derivati per sottrazione dalla matrice del Ginnasio-Liceo) la didattica era un orpello fastidioso, forse persino incompatibile con il rigore dei saperi disciplinari e dai più ritenuto superfluo in una scuola non dell’obbligo. L’istruzione, dopo l’alfabetizzazione strumentale, era un’alternativa per pochi, rigidamente proiettata nel futuro ruolo di adulto. La funzione selettiva non produceva emarginazione, esistendo effettive alternative di formazione, coerenti con i diversi sbocchi lavorativi e protette da consistenti identità e forme di appartenenza di ceto.
Diversamente, la scuola elementare era la scuola per tutti, indipendente dal futuro status sociale; era tale per il figlio del carbonaio come per il figlio del dottore, una grande palestra di adesione alla stessa Nazione. Certo, al termine dei cinque anni le differenze culturali erano diventate profonde, ma erano sostanzialmente il risultato delle condizioni culturali familiari più che della scuola. Compito della scuola era semmai quello di individuare i ragazzi eccezionalmente “portati” allo studio anche se appartenenti a classi sociali popolari.
Maestri e professori erano dunque portatori di professionalità non paragonabili per formazione iniziale, ruolo e pratica scolastica.
L’innalzamento dell’obbligo scolastico di altri tre anni in un unico percorso di istruzione creò enormi problemi. Da un lato, la nuova scuola media avrebbe dovuto assumere lo stesso impegno formativo della scuola elementare, ormai consolidato e acquisito dal senso comune (una scuola non finalizzata alla selezione bensì alla formazione del cittadino), ma nel contempo manteneva un elemento di profonda distinzione dal ciclo primario: era strutturata come scuola secondaria e come tale collegata con il ciclo successivo. Paradossale fu il mantenimento dei due anni di ginnasio con la curiosa numerazione “quarta” e “quinta”: quale incentivo migliore a mantenere la scuola media come propedeutica al percorso “nobile” della scuola?
All’innalzamento istituzionale dell’istruzione fino a 14 anni si aggiunse l’invasione spontanea, nella seconda metà degli anni Sessanta, dei primi anni della scuola media superiore, fino al riconoscimento formale realizzato con la legge 296 del 2006.
È stato un susseguirsi di stravolgimenti per cui ogni fascia scolare ha subito (e, di riscontro, ha forzato) i cambiamenti di quelle che la precedono e la seguono, senza che sia mai stata messa a punto una politica scolastica di sistema in grado di armonizzare il processo di innovazione in un comune progetto di riferimento.
La ricaduta più forte si è riscontrata sul lavoro degli insegnanti, sia del ciclo primario sia di quello secondario. Gli insegnanti della scuola primaria sono stati chiamati a ripensare le proprie competenze (disciplinari e didattiche) fino a veder modificare alla radice l’organizzazione del loro lavoro (da insegnante unico a team corresponsabile di un progetto). Fare scuola a bambini che continueranno (tutti) il percorso scolastico è molto più impegnativo: si deve garantire a tutti le basi formative necessarie per proseguire lo studio in una società sempre più complessa. Gli insegnanti della scuola secondaria di primo e secondo grado sono stati quindi chiamati a fare i conti con la dimensione dell’obbligo.
In un certo senso si è realizzata, non per opzione ideologica bensì nei fatti e per necessità, una dimensione di unicità effettiva della funzione docente (dalla scuola dell’infanzia a quella secondaria superiore) senza che questo, ovviamente, abbia cancellato le specificità.
In parte si è anche ridotta la contrapposizione fra tre visioni caricaturali del mestiere dell’insegnare: l’idea che sia una missione, la smania di viversi come un libero professionista (il mitico “Docente di Storia e Filosofia nei Licei”) e la sconsolata accettazione di figura impiegatizia statale.
L’insegnante è stato (non solo nel bene) il vero elemento che ha retto il cambiamento, che ha cercato di ridurre i danni e, in alcuni casi, ha reso possibile l’innovazione (si pensi al miracolo della scuola dell’infanzia e alle esperienze di eccellenza come il tempo pieno nella scuola elementare) in una scuola senza timone e in una società che non è stata in grado di fornirle un progetto alto e condiviso.

Un approccio non astratto alla funzione insegnante

È valso negli ultimi quarant’anni e vale ora: il rinnovamento della scuola può essere costruito solo riconoscendo e valorizzando il lavoro degli insegnanti come “professionisti in un progetto”.
Deve essere evidenziata la dimensione di professione più legata alla qualità della prestazione che all’orario di servizio, senza però perdere il carattere sociale nella prospettiva di intellettuali e di professionisti che operano collegialmente in un progetto formativo condiviso.
L’insegnante opera in una istituzione “costituzionale” finalizzata a realizzare un progetto educativo pubblico.
Il vero problema della professionalità degli insegnanti non è allora riducibile alla ricerca in astratto di una definizione, bensì all’individualizzazione di campi, azioni, percorsi che la possano far decollare e far corrispondere ai bisogni della crescita della scuola.
Certo bisogna tener presente le competenze che sono alla base del fare scuola e i processi necessari per formarle e svilupparle, avendo però sempre in primo piano la dimensione cooperativa e collegiale in cui si esercitano e il ruolo sociale dell’insegnamento.
Il profilo culturale/professionale, che si può individuare per il “mestiere dell’insegnare”, ci pare rimanga centrato sulla capacità di utilizzare il sapere disciplinare per la formazione culturale ai diversi livelli di scolarizzazione.
È una competenza che comprende, in modo fortemente integrato:
- la padronanza della cultura disciplinare, con consapevolezza dei nuclei centrali e dei “confini”, nonché della valenza formativa delle discipline;
- la capacità di operare sulla definizione e sulla attuazione del curricolo (progettazione, ricerca e sperimentazione), collocando l’intervento didattico sia a livello di coerenza verticale (W progressività) sia a livello di coerenza orizzontale (W unitarietà);
- la capacità di gestire le relazioni interpersonali che caratterizzano i processi di insegnamento/apprendimento in situazione collettiva;
- la capacità di costruire il proprio percorso di lavoro all’interno di team (dipartimenti e organi di programmazione).
Rimane certamente importante ragionare sulla libertà di insegnamento: anche se questa, in assenza di luoghi di confronto e in una struttura organizzativa rigida, perde di significato; si è liberi di scegliere l’unico modello di comportamento professionale praticabile; forse non è tanto una “libertà” quanto una forma di isolamento professionale. La libertà dell’insegnamento deve assumere invece la funzione di garanzia costituzionale della libertà (al pluralismo, alla laicità) degli studenti: il diritto/dovere all’istruzione appartiene ai giovani cittadini in crescita e al patto costituzionale di convivenza sociale; gli insegnanti sono i garanti della piena realizzazione di tale diritto/dovere e la loro piena libertà culturale ne misura il livello di garanzia.
In un’accezione di questo tipo la dimensione “individuale” non entra in contrasto con quella “collegiale”, ne diviene invece elemento di base indispensabile, che proprio nella collegialità può esprimersi in modo compiuto.
Alla personale dimensione culturale, espressa attraverso una libertà d’insegnamento consapevole, si affiancano la partecipazione alle scelte culturali delineate dal progetto nazionale e a quelle definite dal progetto dell’unità scolastica in cui si opera.
Si tratta proprio di operare sul come sviluppare la dimensione collegiale della professionalità degli insegnanti valorizzando quella individuale; sul come costruire e attivare momenti organizzativi intermedi tra il collegio docenti e il lavoro individuale nelle classi, interrogandosi sul come far crescere il protagonismo degli studenti, sperimentando forme di gestione sociale della scuola che siano in grado di superare la scarsa significatività degli attuali organi collegiali.

Cambiare il modo di insegnare per cambiare la scuola

Negli ultimi anni si è cercato di far fronte alle insufficienze della scuola inseguendo affannosamente la strada della “Grande Riforma” ordinamentale. Forse sarebbe meglio fermarsi a ripensare dalle fondamenta la quotidianità del fare scuola.
E ciò al fine di operare sul curricolo praticato, sulla organizzazione delle unità scolastiche, sviluppando e valorizzando la professionalità insegnante, oltre che rafforzando alcuni elementi fondamentali e indispensabili per sorreggere la trasformazione della scuola dai 3 ai 19 anni:
- la centralità nel processo di insegnamento-apprendimento;
- il passaggio da una prevalenza dell’aspetto trasmissivo a quello di mediazione culturale;
- l’emergere di nuove responsabilità, funzioni e compiti;
- il bisogno di conciliare, non al ribasso, l’autonomia culturale professionale del singolo insegnante con la collegialità e la cooperazione, che sono presupposti per corrispondere a bisogni formativi più complessi e caratteristici di una scuola di qualità per tutti.
In tale processo la “responsabilizzazione individuale” è un elemento determinante nel guidare il ridisegno dell’organizzazione delle scuole: ogni “potere” deve risultare da una “responsabilità” e ogni responsabilità deve essere costruita su una “competenza professionale”.
La competenza degli insegnanti si manifesta come responsabilità individuale nell’insegnamento e responsabilità collegiale nei consigli di classe, nei vari dipartimenti e nel collegio; ma perché sia competenza che diventa vera responsabilità deve riconoscere sempre la dimensione individuale.
Strutturare una rete organizzativa di tipo professionale e riconoscere la responsabilità del governo della didattica agli insegnanti (nel collegio dei docenti, nel consiglio di classe, nel dipartimento, nel centro di documentazione e di ricerca didattica, nel laboratorio territoriale, nell’attività tutorale, nel costruire la memoria della scuola...) diventa uno strumento utile per:
- sostenere in modo reale e non volontaristico la dimensione collegiale del lavoro scolastico e del suo collegamento con le attività individuali, non separando lavoro nella classe e attività di ricerca, progetto, governo e valutazione: rendendo cioè “conveniente” professionalmente il lavoro collegiale;
- collegare l’incremento della professionalità degli insegnanti con il processo di miglioramento della qualità dell’istruzione;
- rendere possibile la valorizzazione della cultura e del ruolo degli insegnanti nel governo del progetto didattico complessivo delle unità scolastiche, centrandoli sulla reale capacità professionale di assunzione di responsabilità;
- ripensare il significato e la pratica della formazione in servizio ricondotta alla logica della ricerca-azione finalizzata al ripensamento e consolidamento delle competenze con cui si realizza l’uso formativo dei saperi.

E poi c’è la relazione educativa…

L’enfasi sull’insegnante professionista è però pericolosa. È vero, il mestiere dell’insegnare presuppone una sicura formazione culturale, didattica propria di una professione intellettuale, ma è anche vero che al suo interno è compresa una delle relazioni umane più stabili che ha attraversato e attraversa tutte società: la relazione maestro-allievo.
Per un tempo limitato e in punta di piedi, si invade e si “segna” la vita di una persona che sta crescendo, con l’obiettivo di dare un contributo teso a fornire a quella persona gli strumenti culturali perché sia maggiormente libera, più sicura di sé, autonoma, indipendente e in grado di fare scelte da cittadino consapevole.
Forse sarebbe bene smetterla con la disputa su chi sta al centro (lo studente, le conoscenze, l’insegnante): al centro vi è il ragazzo che apprende, con altri ragazzi, in una situazione collegiale e sociale, attraverso una relazione umana con un adulto che riconosce come maestro e da cui è riconosciuto come allievo. È un rapporto dispari. Da un lato un professionista dell’insegnamento, non un missionario, ma certo un intellettuale appassionato della cultura e del suo uso formativo; penso non sia una forzatura la definizione di Lorenzo Milani “dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo”. Dall’altro lato un bambino, un ragazzo che incontra la cultura come strumento per crescere, per capire il mondo in cui sta costruendo la propria identità e ha bisogno di adulti con cui percorrere il cammino: a scuola si imparano gli altri.
Ho l’impressione che proprio il riconoscere l’importanza delle competenze culturali e didattiche del mestiere e l’investire sulla loro costruzione possa indurci nell’errore di porre in alternativa professionalità e relazione, o ancor peggio di ridurre la dimensione relazionale ad una delle competenze della professionalità, rischiando di confonderla con la “comunicazione”. Non sono in contrapposizione né in alternativa: nessun maestro è tale senza le competenze professionali che gli permettono di realizzare il proprio obiettivo che rimane quello di partecipare all’istruzione di tutti i suoi allievi. La forza dell’insegnamento nell’attivare apprendimento è però moltiplicata dalla qualità della relazione umana che può permettere la costruzione del necessario orizzonte di significati condivisi.
È la tesi sostenuta anche da Vittorino Andreoli nel libro Lettera ad un insegnante. Andreoli riconosce di provare indignazione verso la scuola, ma non verso gli insegnanti. La scelta di indirizzare ad un insegnante la sua denuncia sui mali della scuola è proprio legata alla stima e al riconoscimento della funzione di chi è insegnante. Si presenta come uno «“psico-coso” che ama i giovani, ma anche i maestri perché un giovane è anche il proprio o i propri maestri». Chiede di non rinunciare a pensarsi maestri e a considerare gli studenti propri allievi: il cambiamento parte dalla sostituzione della coppia insegnante/studente con la coppia maestro/allievo. Nella scuola del tempo dell’infanzia l’insegnante è immediatamente e naturalmente “maestro”, nei gradi di scuola successivi non è automatico.
Come fare? Non c’è una soluzione, solo una precondizione: fare il primo passo, cominciare a considerare gli studenti come allievi. Sul serio. E poi mettere in atto la propria professionalità.

Per saperne di più

Andreoli, V. (2006), Lettera a un insegnante, Milano, Rizzoli.
Ballanti, G. (1981), Analisi e modificazione del comportamento insegnante, Teramo,
Lisciani e Giunti.
Bloom, B.S. (1979), Caratteristiche umane e apprendimento scolastico, Roma, Armando.
Bottani, N. (2002), Insegnanti al timone?, Bologna, il Mulino.
Chiesa, D. e C. Trucco Zagrebelsky (2005), La mia scuola, Torino, Einaudi.
De Bartolomeis, F. (1977), La professionalità sociale dell’insegnante, Milano, Feltrinelli.
Iori, A.L. e A. Migliore (2001), Imparare a insegnare, Milano, Franco Angeli.
Pennac, D. (2008), Diario di scuola, Milano, Feltrinelli.
Romei, P. (1995), Autonomia e progettualità, Firenze, La Nuova Italia.
Romei, P. (2005), Fare l’insegnante nella scuola dell’autonomia, Roma, Carocci.
Scuola di Barbiana (1967), Lettera a una professoressa, Firenze, LEF.
Steiner, G. (2004), La lezione dei maestri, Milano, Garzanti

* Domenico Chiesa, ex presidente del CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), consulente del Vice-Ministro Bastico fino al settembre del 2007.

(Da "Nuvole" n. 37 - 27 febbraio 2009)

 

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