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Contributi, approfondimenti, strumenti per la formazione delle funzioni obiettivo/strumentali e dei docenti

QUALE SCUOLA, QUALE DOCENTE?

del Cidi di Napoli

Valutazioni intorno all'idea di scuola e di docente emerse nel corso di un seminario promosso il 22-23 settembre scorso da un "Comitato tecnico scientifico" costituitosi presso il Cidi di Napoli.

 

1. Quale scuola?

2. Quale docente?

 

1. Quale scuola?

La scuola dell'autonomia non si traduce in innovazione reale, vissuta e praticata da tutti i soggetti che operano nell'Istituzione, se non si sciolgono quattro nodi fondamentali.

 

  1. Definizione dei saperi attraverso una corretta e rigorosa analisi disciplinare. Si tratta di superare:
    1. inutili contrapposizioni tra esasperate aperture pluridisciplinari e configurazioni angustamente monodisciplinari;
    2. fuorvianti querelles tra riduzionismo cognitivo e eccessiva flessibilità nella co-costruzione dei significati;
    3. rischi di un incalzante didatticismo (proliferazioni di griglie, obiettivi e sottobiettivi, descrittori, misurazioni di conoscenza, penalizzazione dell'errore ecc.) che possa drammaticamente divaricare il valore del metodo dalla componente affettivo-motivazionale dell'insegnamento;
    4. la persistente connotazione aziendalistica del lessico che ancora tradisce l'iniziale impianto ideologico del processo di riforma;
    5. l'ambiguità interpretativa - anche a livello istituzionale, oltre che nell'ampia letteratura specialistica - di termini e concetti chiave relativi al passaggio dai programmi ai curricoli: modulo, competenza, efficacia, efficienza ecc.
  2. Costruzione di una dimensione collegiale del lavoro docente. Ne costituisce il punto di partenza un'improcrastinabile riforma degli Organi collegiali che vada in direzione di un loro snellimento, rispetto alle proposte di legge fin qui avanzate, e di un rafforzamento della componente docente in ciascuno di essi, non solo dal punto di vista numerico ma anche dal punto di vista decisionale.
  3. Responsabilità intesa come coerenza interna al sistema tra scelte ed esecuzione delle stesse, in relazione all'organizzazione interna, al Pof, agli Enti territoriali.
  4. Valutazione, intesa sia come autovalutazione, in conseguenza di quanto al punto 3, dei singoli operatori, degli Organi collegiali e delle singole scuole al fine di migliorare il processo di insegnamento-apprendimento, sia come valutazione degli studenti, non per selezionare ma per formare e orientare.

In conclusione la scuola deve innanzitutto "insegnare bene", cioè riacquistare rigore e serietà.

 

 

2. Quale docente?

Qualsiasi trasformazione della scuola non può che passare attraverso una definizione chiara del profilo e della collocazione dell'insegnante nel nuovo sistema. Questo è uno snodo centrale su cui nel corso della recente stagione di riforma non si sono spese sufficienti energie: ancor più adesso, in un momento di sospensione e disorientamento, la questione docente sembra essere l'anello di congiunzione necessario tra una scuola che faticosamente, tra pause e ripensamenti, rinnova il suo progetto culturale e la società che investe la stessa di attese e bisogni educativi, formativi e occupazionali.

Il recentissimo rapporto Ocse "Teachers for tomorrow's schools" (Luisa Ribolzi, in "Nuova secondaria", settembre  2001) ha delineato il nuovo profilo professionale del docente dalla cui qualità - finalmente lo si riconosce - dipende direttamente il successo formativo dell'allievo.

Al docente del terzo millennio si chiede di:

·         essere esperto nella propria disciplina;

·         avere competenze didattico-pedagogiche;

·         saper utilizzare le nuove tecnologie;

·         possedere doti organizzative e collaborative;

·         dimostrare flessibilità e pertanto essere disponibile ai continui cambiamenti imposti dalle necessità emergenti (da non trascurare la versatilità didattico-metodologica che permette a ciascuno di insegnare a differenti livelli di età e competenze);

·         essere disponibile ad acquisire ed effettuare esperienze diverse anche al di fuori dell'insegnamento (per esempio, accettando di impegnarsi in differenti esperienze di lavoro);

·         essere disposto al più ampio confronto con genitori, colleghi, personale esterno o interno alla scuola.

Ma da quale percorso dovrebbe scaturire un  simile "monstrum"?

Non certo da un passato in cui l'attività di insegnante è stata considerata  una sorta di valvola di sfogo per la disoccupazione intellettuale, in massima parte femminile, ed equiparata, come ogni burocrazia professionale, a qualsiasi altra condizione impiegatizia.

 

La formazione

Per la costruzione del nuovo modello di insegnante sarebbe innanzitutto necessaria l'introduzione di percorsi formativi lineari e nel contempo complessi: percorsi nei quali i contenuti culturali acquisiti all'Università andrebbero accompagnati dallo sviluppo di competenze didattico-psico-pedagogiche presso adeguate agenzie formative, da attività di tirocinio in servizio per costruire un bagaglio esperienziale, da un sostenuto numero di occasioni di aggiornamento.

Nutriamo seri dubbi sul fatto che il sistema che si sta profilando possa garantire tutto questo: esso attribuisce all'Università l'onere delle Scuole di specializzazione che stentano a decollare e, almeno nel Mezzogiorno, non sembrano intenzionate a valorizzare adeguatamente il tirocinio e le attività laboratoriali in situazione.

Tanto meno appare garanzia di qualità della formazione il servizio nudo e puro svolto in qualità di precario iscritto alle graduatorie provinciali: in assenza di adeguate forme di sostegno e controllo, il docente precario, inserito in una struttura e in un un ambiente formativo che lo lascia solo con se stesso, corre il rischio di non esprimere mai il suo potenziale di qualità e di adottare unicamente la logica della ricerca di un  "posto di lavoro" poco remunerativo ma "fisso".

 

Il reclutamento

Il precariato di cui si è detto costituisce anche uno dei canali privilegiati per il reclutamento. Il Cidi di Napoli si troverà forse ad assumere posizioni scomode, invise ai sindacati e a parte della categoria; ma francamente appaiono dequalificanti tutti i canali del reclutamento sinora attivi sul territorio nazionale: non solo l'anzianità di servizio precario, ma concorsi decennali che esaminano solo le conoscenze disciplinari e corsi abilitanti offensivi verso l'intera categoria. Inquietante addirittura lo scenario, che tanto appassiona l'Anp, di un dirigente-manager che "si sceglie i suoi" con criteri tutt'altro che trasparenti.

La questione reclutamento invita a riflettere anche sulle conseguenze dell'ormai avviato processo di parificazione tra scuola pubblica e privata. Già dallo scorso agosto, per decreto del nuovo ministro, il servizio prestato presso le scuole legalmente riconosciute è stato parificato a quello prestato nelle scuole statali: se il canale delle graduatoria, accompagnato ad abilitazioni facili, continuerà ad essere la via privilegiata di accesso all'insegnamento,  come non temere che nella scuola "paritaria" del domani entrino a pieno diritto docenti selezionati per "chiamata diretta" o con criteri poco trasparenti?

È logica conclusione di quanto sinora esposto che la riforma di un sistema formativo debba passare necessariamente per la ricostruzione di un serio itinerario al termine del quale studi universitari, specializzazione didattico-pedagogica, tirocinio e servizio trovino il loro filtro in un concorso a cadenza biennale o triennale.

Ma, se le vie d'accesso diventano così impervie, perché mai - si chiederà qualcuno - ambire all'insegnamento? La risposta apre lo spazio ad altre questioni, le più difficili: perché il docente, negata ogni logica impiegatizia, va valorizzato come professionista e deve vedere riconosciuto uno "status" e la possibilità di una crescita retributiva e di carriera.

 

Status e carriera

Inscindibilmente connessi e complementari, status e carriera non sono la stessa cosa. Lo status professionale si conquista attraverso una serie di garanzie e di diritti, ma anche attraverso strumenti di regolazione sociale di lavoro quali il codice deontologico.

Tutti sappiamo che non necessariamente l'insegnante fa il mestiere che desidera, spesso "fa di necessità virtù": il mestiere trionfa e il senso di identità se ne va. Ritrovare questo senso significa anche incontrarsi per mettere in comune i valori di riferimento e denunciare l'illegittimità di certi comportamenti.

Ma un codice deontologico così inteso non può che essere autodeterminato: se è un dovere seguirne i dettami, è un diritto configurare da sé le pratiche in cui si esercita la libertà di insegnamento. Concetto questo troppo spesso confuso con l'individualismo, a danno di quella collegialità operante a cui dovrebbe essere affidato il governo della scuola.

La riforma degli Organi collegiali è un pezzo del processo di rinnovamento che è venuto meno e che va sostenuto con forza perché, anche con tutti i limiti che nella passata legislatura il disegno di legge presentava (tentazioni demagogiche nei confronti del "cliente", proliferazione di commissioni e dipartimenti), va rivitalizzata la funzionalità didattica degli organi democratici della scuola al cui governo deve essere preposto come primo responsabile il docente.

Se il rispetto del codice e l'esercizio della collegialità costituiscono i doveri del professionista-docente, tuttavia non possono più essere trascurati  anche i suoi diritti:

·       il diritto alla scelta di una flessibilità d'impiego connessa all'incentivazione retributiva.
L'egualitarismo secondo cui tutti guadagnano allo stesso modo (poco) qualunque cosa facciano, va superato non nella logica del premio a chi è bravo ma in quella della differenziazione oraria tra chi svolge un tempo di servizio "definito" e chi accetta un tempo "potenziato" in relazione a ruoli, incarichi e responsabilità specifiche, anche temporanee.

È da criticare, anche alla luce delle esperienze di questi anni, la  soluzione contrattuale delle funzioni obiettivo: esse, invece di svolgere un ruolo di coordinamento, hanno finito per deresponsabilizzare ulteriormente il Collegio dei docenti restando sospese come figure di transizione da un modello burocratico malfunzionante a una nuova ma irrealizzata forma di organizzazione.

·       il diritto allo sviluppo professionale.

A scuola tutti devono essere posti nelle condizioni di essere "bravi"; a tal fine, accanto a una retribuzione di partenza di livello europeo, va garantita la possibilità di una formazione in servizio che sia veramente occasione di aggiornamento e di nuovi stimoli culturali: per esempio, periodi sabbatici da svolgersi presso enti di ricerca o università, o ancora la defiscalizzazione delle spese sostenute per libri o stages di studio.

·       il diritto alla rivendicazione di una dignità del sapere critico che sostanzia gli ambiti disciplinari e non ha bisogno di essere richiamata all'ordine dai continui inviti a rimediare alle emergenze della società attraverso le tante "educazioni a ." (salute, legalità, codice della strada, sesso .).

Resta un'ultima questione che, inserendosi tra la riaffermazione dei doveri della funzione docente e la rivendicazione dei bisogni e dei diritti di chi svolge seriamente il proprio lavoro, si configura come una sorta di diritto-dovere per il nuovo professionista: l'introduzione di un sistema di valutazione della qualità, che salvaguardi la natura multidimensionale dei processi e la molteplicità dei punti di vista e dei contesti in cui si opera (come nel modello dell'autoanalisi di istituto) e  sia finalizzato non al controllo o alla sanzione, ma al potenziamento e al miglioramento. Della valutazione, una volta che siano stati definiti con chiarezza gli standard nazionali, il docente di qualità non può né deve aver paura: ma la trasparenza dei parametri è assolutamente necessaria, e va invocata come garanzia specie in caso di affidamento della valutazione ad agenzie esterne.

 

Napoli, 23 settembre 2001

 

 

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