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Contributi, approfondimenti, strumenti per la formazione delle funzioni obiettivo/strumentali e dei docenti |
Un tema assai complesso da affrontare con cautela attraverso scelte trasparenti e partecipate.di SOFIA TOSELLI * Si afferma sempre, di fronte ai cambiamenti, che c'è molto malessere fra gli insegnanti. Questo è particolarmente vero in questo momento. L'incertezza rispetto alle prospettive della riforma (quali le finalità, le linee guida, il mandato della scuola, "che fine farò"); l'irregolarità e la scompostezza, che dura da anni, del processo riformatore (due leggi di riforma del sistema scolastico nel giro di pochi anni, ma di segno completamente opposto); le spinte contraddittorie dell'amministrazione (circolari sulla sperimentazione che si susseguono, smentendosi a vicenda); le peggiorate condizioni di lavoro (classi sempre più affollate, ore di lezione aumentate, taglio di risorse); le crescenti difficoltà di rapporto con gli studenti, sommati ai colpi che gli insegnanti hanno ricevuto in questi anni (la perdita del potere di acquisto e lo scadimento del valore sociale del loro ruolo), stanno polarizzando scontento e malessere sul modo di vivere e di fare scuola. Tutto questo non giova ai singoli alunni e non giova alla collettività. Certo, non è facile affrontare e risolvere la questione insegnante. Per la complessità del problema in sé e per tutte le implicazioni che richiama. In Italia, dove è cradicalizzato il problema del personale "precario" e non si è risolto ancora quello della formazione iniziale, è anche più complicato. Così, mentre la maggior parte degli altri Paesi europei cerca le strade per trattenere o chiamare alla docenza i giovani laureati, in Italia si cercano i modi per licenziare e scoraggiare al mestiere, più che valorizzare e rendere appetibile la professione. «La gestione del personale - scrive l'Ocse in uno degli ultimi rapporti - è un problema difficile in tutti i Paesi europei. Innanzitutto è difficile per la massa del personale coinvolto, per il suo livello di formazione, per il modo in cui si organizza, per la sua èapacità negoziale con le autorità, infine per l'influenza politica che gli insegnanti esercitano. Per tutte queste ragioni, in nessun Paese si è finora potuto risolvere in modo soddisfacente la duplice questione, legata alla professionalità, della formazione iniziale e della formazione in servizio dei docenti. In Italia tali problemi sono amplificati per il carattere troppo burocratico del sistema di gestione del personale, poco propizio a incoraggiare l'iniziativa e il dinamismo». Anche Norberto Bottani 1) mette in evidenza come gli insegnanti siano la componente più complessa, difficile e misteriosa delle politiche scolastiche. E Jerome Bruner 2) scrive che «non si può fare una riforma a prova di insegnante, non più di quanto si possa immaginare una famiglia a poova di genitori». Mentre il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel discorso augurale di inizio d'anno scolastico, sottolinea quanto sia difficile il mestiere degli insegnanti. Ma chi è oggi l'insegnante? Di insegnanti si parla poco e quando se ne parla non mancano ironia, sottovalutazione, pressappochismo. Basti ricordare il recente articolo di Umberto Galimberti (apparso su "L'Espresso" del 10 ottobre 2003), dove con la solita analisi "da bar", gli insegnanti sono definiti impreparati, senza interessi e capacità educativa, poco carismatici, insomma, da cacciare senza indugi! Uno sguardo indietro Già nel corso degli ultimi decenni sono stati messi in discussione i due tradizionali paradigmi del fare scuola: la trasmissione del sapere come percorso a senso unico e il lavoro dell'insegnante circoscritto all'attività d'aula. È entrata soprattutto in crisi l'idea della centralità del singolo docente rispetto a un progetto collegiale e cooperativo di educazione. Contemporaneamente perde forza l'idea di un sapere statico, enciclopedico e sacro da trasmettere agli alunni. Intanto la nuova domanda di istruzione e formazione, che a partire dagli anni settanta ha introdotto importanti innovazioni e riforme - la legge 517/77, gli "Orientamenti" della scuola dell'infanzia, i programmi della scuola elementare, i programmi della media, fino alla sperimentazione "Brocca" nella scuola superiore - cambia un po' alla volta i comportamenti professionali di moltissimi docenti. Comincia a farsi strada, attraverso la progettazione e la programmazione scolastica, l'idea di una scuola come "comunità di insegnanti". Comincia a prendere corpo, attraverso il maturare di- "buone pratiche", la scuola che pone al centro l'allievo, la scuola cosiddetta del "curricolo". Perché allora l'impegno di tanti docenti non si è trasformato in complessiva qualità del sistema? Che cosa non ha funzionato? Una prima risposta è che alle innovazioni, che pure ci sono state, non si sono date gambe per camminare: investimenti, qualificazione del personale (formazione iniziale e in servizio), riorganizzazione culturale e ordinamentale complessiva della scuola c'erano stati solo spezzoni sovrapposti di riforme -, non stavano nelle agende politiche dei governi di allora. Non si voleva chiedere a nessuno (né ai docenti né ai capi di Istituto) responsabilità e risultati. Ognuno perciò si arrangiava come poteva (da solo o con altri colleghi), mentre si continuavano a ingros..sare gli organici della scuola per arginare la disoccupazione intellettuale, specie del Sud. Gli insegnanti, "i lavoratori dal profilo ambiguo" come li definì qualcuno -, erano considerati (e si consideravano) impiegati dello Stato, esecutori più o meno fedeli di decisioni prese altrove. Oggi persino l'Aran ci dice che la sindrome impiegatizia dei docenti non era la causa del cattivo funzionamento della scuola, ma l'effetto, funzionale al tipo di scuola che si voleva mantenere. È perciò da ritenersi falsa l'idea - sostenuta da molti e per molto tempo - che la scuola non cam "inC:I'>an:::lrl'> II-I?nnn':! bia perché gli insegnanti resistono al cambiamento. Si è capito solo con il tempo che nella possibilità di affidare responsabilità e visibilità a ogni soggetto della vita della scuola, ridefinendone ruolo e funzione, stava la scommessa di un "governo" intenzionale del processo di insegnamento-apprendimento. Così come nell'idea che la formazione iniziale e l'aggiornamento, la ricerc e la riflessione sul "fare" scuola non fossero da considerare qualcosa di diverso, aggiuntivo e opzionale rispetto al mestiere di insegnare. L'autonomia e il protagonismo dei docenti Comincia l'era dell'autonomia, vista - da destra e da sinistra - come uno strumento per migliorare la qualità complessiva della scuola, una opportunità per organizzare il lavoro scolastico in maniera meno rigida e burocratica. Un modo per dare protagonismo agli insegnanti. Spazzato via il vizio d'origine di una "scuola-é}zienda... tutta competizione", l'autonomia diviene legge e regolamenti. Diventa l'altra faccia di una nuova questione docente: quale professionalità, quali compiti e quale sviluppo professionale, sono i grandi temi del momento. Dibattiti, convegni, articoli (contratti di lavoro), pongono al ceotro la questione degli insegnanti, tracciano i tratti di un profilo ricco e articolato. La scuola dell'autonomia infatti accentua il bisogno di insegnanti non genericamente bravi ma professionisti responsabili, autorevoli, colti, capaci di autonomia progettuale, in grado di governare e regolare, in ogni situazione, l'azione didattica, di scegliere percorsi culturali e strategie didattiche, di valutare l'efficacia dei percorsi realizzati, di fare ricerca e sperimentazione, di lavorare e di confrontarsi con altri colleghi, di aggiornarsi continuamente. L'autonomia, insomma, mette a fuoco le competenze che compongono il profilo, da quelle disciplinari e didattiche a quelle relazionali e organizzative. Dovunque si snocciolano come Ave Maria: saper padroneggiare i contenuti della propria disciplina, sapersi confrontare con le altre materie, saper utilizzare le conoscenze a seconda dell'età dei ragazzi (dei loro stili di apprendimento, degli obiettivi programmati), saper costruire un progetto educativo, saper coordinare e gestire commissioni, dipartimenti ecc. Si sono dette molte cose sul docente protagonista, artefice consapevole della costruzione intenzionale di un sapere finalizzato all'apprendimento dell'alunno. È stata sottolineata la dimensione intellettuale e collegiale del lavoro. Si è detto dell'insegnante come "mediatore" culturale. Si è paragonato il lavoro dei docenti a quello dei liberi professionisti - sollevando l'indignazione di coloro che vedono la scuola come una Istituzione della Repubblica e la funzione del docente paragonabile a quella del magistrato -. Si sono allora fatti dei distinguo (rispetto ai liberi professionisti), e si è detto che l'autonomia degli insegnanti e la loro libertà di insegnamento sono circoscritte e parziali, vincolate come sono alle finalitàgenerali del sistema scolastico. Soprattutto si è parlato degli insegnanti come professionisti dell'insegnamento, del loro lavoro come professione, della formazione iniziale e in servizio come premessa di qualità della scuola. Insomma, fiumi di parole e di inchiostro, che sono però serviti a capire meglio la complessità di una figura difficilmente definibile, valutabile e in continua evoluzione. Intanto avanza, dentro e fuori la scuola, l'idea di uno sviluppo professionale che si comincia a configurare come possibile "carriera". Gli scatti stipendiali del pubblico impiego, legati al solo meccanismo dell'anzianità, non convincono più nessuno. Si comincia così a parlare di "differenziazione" di funzione: l'idea (maturata con l'incentivazione del lavoro aggiuntivo) che non tutti gli insegnanti svolgano la stessa quantità di lavoro, comincia a camminare dentro la scuola e si parla sempre più frequentemente di differenziazioni di funzione (al di là, evidentemente, di quelle storiche del vicario e del collaboratore del preside) e di articolazione di carriera. Il Contratto di lavoro del 1999 introduce così le funzioni-obiettivo, sulla scia di una motivazione incc>ntrovertibile:la scuola dell'autonomia presuppone una nuova organizzazione del lavoro, un maggiore impegno in compiti e mansioni diversi, perciò i colleghi che se ne assumono il carico, vanno retribuiti. Intanto il meccanismo messo in moto dall'art. 29 del Contratto di lavoro del 1999 alimenta una valanga che da lì a poco avrebbe travolto ogni cosa. ,. Ma oggi, con il dovuto distacco da quella vicenda, si deve riconoscere che il rifiuto della categoria a ogni proposta di differenziazione della funzione e di articolazione di carriera segnala soprattutto la difficoltàdi valutare la qualità di un lavoro così particolare e atipico come quello degli insegnanti. «Se in tutti questi anni - scrive Domenico Chiesa non si sono costruite proposte condivise di carriera non è solo per la cocciuta resistenza dell'integralismo egualitarista, ma perché esiste una obiettiva difficoltà a definire e a riconoscere uno sviluppo professionale che assuma i caratteri della carriera». Certo, nella vicenda del concorsone si commise l'errore di proporre una "carriera" non solo in concorrenza con i colleghi (l'attribuzione del beneficio economico solo al 20% dei docenti di una stessa scuola), ma sulle base di prestazioni didattiche difficilmente valutabili in sé e, a maggior ragione, sulla base di prove decisamente improbabili. Il Cidi, il mestiere e le differenziazioni Il Cidi non è mai stato contrario a differenziare compiti e funzioni, anzi è sempre stato favorevole al riconoscimento economico del lavoro aggiuntivo, purché assegnato sulla base di oggettive e certificate competenze. Il Cidi semmai è contrario all'idea che si configuri una fascia di insegnanti considerati "più bravi" di altri, perché è convinto che il lavoro docente rimanga, al di là dell'eventuale accertamento di titoli e crediti, espressione dell'impegno e delle capacità di tutti gli insegnanti. «Per una categoria come la nostra - scriveva Luciana Pecchioli nel 1988 - storicamente costruita su una carriera uniforme e appiattita, trovare i modi per introdurre un'equa, accettabile e produttiva differenziazione (cui per altro non siamo sfavorevoli) non èfacile. Non si tratta di creare competizione fra i docenti, ma di riconoscere concretamente il lavoro di chi fa funzionare un laboratorio o di chi organizza attività utili al funzionamento complessivo della scuola. Si chiami straordinario o incentivazione, l'importante è che siano chiari e omogenei i criteri e l'entità, sempre controllabile la gestione di questa retribuzione. Ciò però non deve prefigurare una carriera docente che preveda un livello x per i bravi e un livello y per i meno bravi. Non è automatico infatti che chi possiede più titoli, sui quali è giusto chiedere un riconoscimento, sia un insegnante più bravo. Insomma, mentre in altri settori la progressione di carriera coincide con il cambiare compiti e funzioni, non c'è carriera nella normalità del nostro lavoro». Certo, il tema della differenziazione di funzione e della carriera non può oggi essere liquidato frettolosamente. Rimaniamo convinti però che, nella normalità del nostro lavoro, l'unica carriera possibile sia quella che vede l'insegnante diventare sempre "più bravo" sul piano dell'insegnamento, in una sfida che è solo con se stesso e con i risultati che riesce a ottenere con i propri alunni. Così come siamo convinti che diventare sempre "più bravi" non sia un fatto automatico, perché richiede studio, ricerca, aggiornamento e impegno, che perciò devono essere riconosciuti, valorizzati, retribuiti. Una "carriera", dunque, se di carriera vogliamo parlare, non in opposizione agli altri colleghi e non all'interno di un sistema gerarchico, perché sappiamo quantoc sia fragile e difficile I equilibrio su cui poggia la comunità dei docenti. Un equilibrio costruito sui rapporti personali, sull'intreccio di competenze, di responsabilità e di disponibilità. Un equilibrio che ha bisogno di cooperazione e di collaborazione per ritrovare ogni volta appartenenza, relazioni, identità. Una carriera, dunque; che motivi e incoraggi il singolo insegnante a migliorare il suo modo di insegnare, a diventare sempre "più bravo" nell'attività didattica. Andrebbero allora valorizzate della professione quelle competenze che permettono di governare il curricolo, che servono a insegnare in modo -più efficace, a far apprendere meglio e di più ciascun allievo. È, insomma, il "saper insegnare ad apprendere" il terreno su cui serve misurarsi, perché questo è il terreno decisivo e centrale per la qualità della scuola. Senza, con questo, voler diminuire l'importanza delle competenze organizzative/gestionali, a patto che non preludano a "fughe" dalla classe o ad articolazioni di carriera. «Va sicuramente premiato - scriveva Alba Sasso alcuni anni fa - l'impegno di chi spende il suo tempo per migliorare il funzionamento complessivo della scuola, ma va sicuramente valorizzata la scelta di chi ha deciso che nella scuola dei mille progetti sia più utile, oserei dire più democratico, per esempio, insegnare bene la matematica». Insomma, sarebbe necessario far tesoro dell'esperienza e delle competenze che nei vari ambiti della vita della scuola alcuni colleghi hanno accumulato; ma i colleghi più competenti dovrebbero, senza incertezze, mettere a disposizione di tutta la scuola le competenze che hanno acquisito con l'esperienza, lo studio e la ricerca. Si potrebbe pensare di dare più forza e ruolo ai coordinatori dei dipartimenti disciplinari, dei laboratori territoriali. Si potrebbe pensare a funzioni o a forme di organizzazione del lavoro che rendano possibile, dentro e fuori la scuola, la ricerca didattica e la sperimentazione, individuando un modo condiviso per certificare le attività svolte, per trasformarle in titoli spendibili ai fini di un'anticipazione - a richiesta - degli scatti stipendiali o ai fini, per esempio, di un qualche concorso. C'è, insomma, la possibilità di creare articolazioni differenziate, interessanti e funzionali alla vita scola stica che, senza gerarchizzare, valorizzino la professionalità degli insegnanti per troppo tempo lasciata ai margini di qualsiasi lavoro intellettuale e culturale. Ma si può parlare di carriera? Una professione segnata Benedetto Vertecchi ha scritto recentemente 3) che la nostra è «una professione segnata per l'insieme delle condizioni che ne hanno accompagnato l'evoluzione attraverso il tempo, sempre ai margini, perché mai le è stata riconosciuta quella dignità che contraddistingue le altre professioni e che le rende apprezzabili, perché mai si è voluto riconoscere ai docenti di scuoia la capacità di fare ricerca e di sperimentare, di imparare dall'esperienza, di accumulare altre conoscenze». Infatti, nonostante l'art. 6 del Regolamento dell'autonomia (l'autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo), ancora oggi questo aspetto della professione viene disconosciuto o sottovalutato. Anche nell'ultimo Contratto di lavoro tale dimensione viene solo evocata e non affrontata. C'è allora da chiedersi perché l'autonomia di ricerca non sia considerata, come in altre professioni, un aspetto ordinario del mestiere. E perché ci sia ancora tanta difficoltà a riconoscere che il lavoro degli insegnanti si basa soprattutto sullo studio e sulla ricerca costanti. Si tratta, in definitiva, di definire temPi e luoghi che rendano possibile, dentro e fuori le scuole, la riflessione sul lavoro e sulle pratiche didattiche, il confronto sui contenuti, sulle strategie e i metodi, le verifiche e le valutazioni delle esperienze fatte. Di favorire tutte le potenzialità presenti nella scuola, di trovare per gli. insegnanti sedi di confronto per la cura del "sé professionale", riconoscendo, come luoghi di crescita e di formazione professionale, anche le Associazioni professionali. Le migliori esperienze che la nostra scuola ha fatto in tutti questi anni, le cosiddette "buone pratiche", dimostrano che quando gli insegnanti riflettono sul proprio lavoro, quando ragionano e si confrontano, quando fanno ricerca e sperimentano, riescono sempre a trovare la strada giusta per mettere a punto percorsi didattici e attività efficaci, con risultati di qualità. Ma non è giusto e non è produttivo che questo rimanga un aspetto opzionale e volontario. Provino i sindacati a difendere l'autonomia di ricerca e sperimentazione dei docenti e provino a definirne tempi, luoghi e retribuzione all'interno dei contratti di lavoro. Provino a ribadire l'esigenza di altri tavoli su temi di specifico interesse professionale (dalla formazione iniziale e in servizio, per esempio, alla funzione, al ruolo e all'articolazione professionale). Dal canto loro gli insegnanti si convincano della loro "forza" professionale e della funzione straordinaria che svolgono. Si convincano che la scuola non è cul turalmente subalterna all'università, perché il "sapere scolastico" non è un sapere minoritario rispetto al "Sapere" accademico. E semplicemente un' altra cosa, con la sua autonomia e specificità. Le discipline, infatti, per essere formati ve e produrre apprendimento devono intrecciarsi con l'esperienza e le motivazioni dei bambini, con i loro ritmi e stili di apprendimento, con gli obiettivi che si vogliono raggiungere, con i contenuti che si vogliono utilizzare e con metodi efficaci di insegnamento. Ed è solo dall'incontro e dall'equilibrio che si riesce a stabilire fra tutti questi elementi e il sistema organizzato delle conoscenze, che il sapere, dentro la scuola, può diventare apprendimento per tutti. Saper insegnare richiede perciò una professionalità specifica che non si improvvisa né si costruisce in astratto, maè il risultato di un faticoso cammino che può essere percorso solo nella scuola, in un confronto fra pari che hanno in comune progetto, interessi, obiettivi. Certamente la scuola avrà bisogno di confrontarsi con gli altri soggetti della ricerca, in un organico, costruttivo, paritario rapporto. Ma intanto, benché a parole si dica che l'intenzione è quella di valorizzare funzione e ruolo degli insegnanti, la strada che viene intrapresa dal ministro dell'Istruzione va in tutt'altra direzione. Si pensi all'art..5 della legge 53, laddove si parla di tirocinio professionale e di formazione in servizio affidati all'università. Si pensi alle figure di tutorato, di supporto, di coordinamento dell'attività educativa, didattica e gestionale formate dall'università, con il rischio di preparare "a tavolino" figure estranee alla scuola e lontane dai bisogni che gli insegnanti maturano nei loro autonor.ni e sempre diversi contesti. Eppure non è difficile capire che l'università, per sua natura, ha altre competenze, ha altri interessi, persegue altri fini. La stessa ricerca didattica che si svolge all'università - a meno che non si svolga dentro la scuola in un confronto continuo con i bambini e con gli insegnanti - rimane astratta e poco utile agli insegnanti. Lavorare sui saperi di scuola, sui curricoli, fare ricerca e sperimentare per insegnare meglio ad apprendere meglio costituiscono, invece, il fine primario della scuola. Sarebbe allora utile chiarire ma non è mai stato fatto fino in fondo - quali siano i ruoli di scuola e di università, i piani diversi della ricerca disciplinare e della ricerca didattica, quali le responsabilità di ciascun soggetto, prima di parlare in astratto di "sinergia". Una strada tutta in salita Per questi motivi la strada da percorrere per ridare senso e motivazione, efficacia e qualità al lavoro degli insegnanti, è ancora tutta in salita, altro che carriera! Si tratta, piuttosto, di incoraggiare lo studio e l'aggiornamento; di costruire condizioni di lavoro migliori di quelle attuali (nessun docente per quanto competente può raggiungere risultati efficaci con trenta alunni per classe); di retribuire meglio la categoria (nessun docente per quanto motivato puòpermettersi, oggi, di comprare troppi libri e di frequentare troppi corsi di aggiornamento). Infine si tratta di sperare che la società inverta la sua scala di valori e torni a guardare alla scuola come a una cosa seria e importante per la vita dei giovani e della comunità. Non è, insomma, la carriera che potrà ridare fiducia e ruolo sociale a una categoria scontenta e in crisi, se prima non si creano diverse e migliori condizioni di lavoro. Lo dicono le tante rilevazioni sui sistemi scolastici; l'Aran stessa ha dimostrato che non c'è alcun nesso fra carriera e qualità della scuola. Anzi, lì dove sono stati introdotti meccanismi di carriera non coerenti con la tipologia della professione, si è verificato il deterioramento dei rapporti interpersonali con effetti negativi sulla qualità della scuola. Consideriamo infatti che, all'interno del sistema scolastico italiano, persino le funzioni obiettivo scatenano conflittualità e malumori!" Occorre, insomma, essere cauti, domandandosi: quali meccanismi di incentivazione (valorizzazione/carriera) possono essere introdotti senza dar luogo a conflitto e competizione. Ma anche: che cosa si valuta, chi valuta, qual è l'incentivo economico più adeguato allo scopo. Specialmente oggi che tanto si discute di nuovo status dei docenti di scuola. Sono infatti stati presentati alla Camera dei Deputati due progetti di legge - sostanzialmente di analogo contenuto - sulle proposte di modifica dello stato giuridico dei docenti scolastici. Uno di Forza Italia, Udc e Lega, l'altro di Alleanza Nazionale; In entrambi sono definiti i principi fondamentali della funzione docente, sono previsti lo sviluppo di carriera (con l'introduzione di tre fasce: docente tirocinante, ordinario ed esperto), la retribuzione per merito, l'istituzione di un albo professionale, gli standard della docenza, il codice deontologico e l'area autonoma della docenza (ovvero la contrattazione separata per gli insegnanti). In entrambi vengono soppresse, a livello di Istituto, le Rappresentanze sindacali unitarie e circoscritta la materia di contrattazione. Viene ridefinita la funzione dei dirigenti scolastici e degli stessi ispettori. Una proposta ad effetto Non c'è che dire, è una proposta ad effetto! Ma c'è da domandarsi quali sarebbero le conseguenze sulla qualità complessiva del sistema e sulla professionalità degli insegnanti. È questo un ragionamento che andrebbe fattodiffusamente e nel merito, perché esiste una parte di insegnanti e di dirigenti scolastici che indubbiamente si riconosce in quelle proposte. E ci sono Associazioni professionali, di insegnanti e di dirigenti, che sostengono da lungo tempo la necessità di circoscrivere la negoziazione sindacale a poche precise questioni (per intenderci: orario, mobilità, salario), affidando alla via legislativa le modifiche dello stato giuridico. Sono le stesse Associazioni che, non da ora, chiedono la carriera, l'organismo autonomo della docenza, nuovi standard professionali e il codice deontologico. Parlano di albo nazionale e qualcuna persino di assunzione per "chiamata diretta" da parte delle scuole. " dibattito è aperto e ha già raggiunto toni molto accesi. I sindacati sostengono che l'art. 5 della legge 53/2003 ha definito tutta la materia di competenza legislativa, che i due disegni di legge fanno incursione in terreni impropri e che, pertanto, sono da rigettare. Preparano, dunque, giornate di agitazione e di mobilitazione. Certo, non ci sfugge che mentre l'obiettivo dichiarato è quello di valorizzare le professioni di scuola, l'obiettivo implicito è quello di togliere potere contrattuale ai sindacati. Così come non ci sfugge che "aggirare" la contrattazione non è un modo più efficace per raggiungere gli interessi della scuola, quanto la scorciatoia per diminuire i livelli di garanzia dei nostri diritti e per ridurre gli spazi di libertà. Alla prova dei fatti, quello che oggi emerge è, da una parte, il disconoscimento delle buone pratiche e delle competenze di scuola (vedi l'azzeramento delle migliori esperienze maturate nella scuola primaria e la formazione dei docenti affidata all'università), dall'altra, un giro di vite netto sugli spazi di autonomia e di collegialità delle scuole. Ecco perché siamo diffidenti sulla dichiarata volontà di valorizzare ruolo e funzione docente. Tema, per altro, cui la nostra Associazione è interessata da lungo tempo per le evidenti implicazioni che esso ha sulla qualità della scuola. Siamo pronti perciò al confronto, se esiste la volontà di dialogo, e intendiamo ragionare su tutte le questioni. A partire però da alcuni punti fermi: la libertà di insegnamento come garanzia del diritto all'apprendimento; l'autonomia e la collegialità come condizioni irrinunciabili per la qualità della vita scolastica; l'unicità della funzione come tutela della centralità del processo di insegnamento/apprendimento (le specificità e i compiti vanno visti in funzione dell'efficacia e del miglioramento dell'azione didattica); l'articolazione della carriera (meglio sarebbe parlare di valorizzazione professionale), per incentivare le competenze che servono a insegnare meglio; la natura pubblica del reclutamento a garanzia dell'imparzialità del sistema scolastico pubblico. Possiamo dunque ragionare di articolazione di carriera, di insegnanti esperti e di possibile fascia specialistica, se parliamo di figure interne alla scuola, con competenze utili alla scuola. Possiamo ragionare delle figure di coordinamento, di tutorato, di supporto, se queste figure non hanno il distacco totale dall'insegnamento (o se il distacco totale è temporaneo), se queste figure non infrangono il principio della collegialità e se hanno maturato la loro professionalità con l'esperienza diretta sul campo. Possiamo ragionare di codice deontologico se questo può servire a costruire identità e appartenenza e se prima ragioniamo di ruolo edi funzione docente. Possiamo ragionare di standard professionali, se prima ragioniamo del progetto culturale della scuola, .delle sue finalità, delle competenze che servono per insegnare, delle pratiche didattiche più efficaci e di tutta l'organizzazione scolastica. Possiamo persino parlare di carriera, se prima facciamo chiarezza sul suo significato e se prima parliamo di valutazione di sistema, di valutazione e autovalutazione delle singole scuole, di meccanismi e criteri per la valutazione dei singoli docenti. Definire la professionalità degli insegnanti, ridefinirne lo status è certamente una questione complessa, ma non lo si può fare in astratto. Un nuovo stato giuridico coerentemente all'altezza delle sfide attuali, puòconcorrere a valorizzare il ruolo e la funzione che gli insegnanti svolgono. Può aiutare a modificare mentalità e comportamenti. A patto però che ci sia una idea condivisa di professione e una comune visione di scuola. " tema è ostico e la discussione è difficile. Noi non vogliamo sottrarci, siamo pronti a misurarci, senza rabbia e senza rassegnazione. * Vicepresidente nazionale del Cidi. Questo articolo è in corso di pubblicazione nel volume curato dall'Ufficio scolastico regionale, dall'lrre e dalle Associazioni professionali dell'Emilia Romagna, dal titolo: /I portfolio dell'insegnante. 1) N. Bottani, Professoressa addio, il Mulino, 1994. 2) J. Bruner, La cultura dell'educazione, Feltrinelli, 1997.
3) B. Vertecchi, Le parole della scuola, La Nuova Italia 2002 |
Da "insegnare" n. 11/12 2003
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