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Nota sul documento ministeriale Cultura scuola persona
di Mario Ambel

Un documento un po’ preoccupante

Da un lato appare positiva la vocazione autenticamente inclusiva, la scelta di disincagliare le riflessioni sulla persona dalle secche dell’individualismo e della competitività, la volontà di affrontare globalmente una revisione profonda delle filosofie educative (meno delle pratiche professionali conseguenti); dall’altro appare inevitabile la percezione della carenza di prospettive praticabili e di una accelerazione che non tiene in giusta considerazione l’evoluzione della scuola cui ci si rivolge, la sua storia, le sue caratteristiche attuali, i limiti antichi in cui si dibatte, i risultati storicamente accertati che ha saputo conseguire.
Il documento appare fin troppo preoccupato di fornire una lettura (peraltro un po’ unilaterale) dei problemi nuovi che il mondo (più che la scuola) deve affrontare. A leggerlo con attenzione, si ha la sensazione che da una simile scuola più che un allievo con la testa ... ben fatta, uscirebbe un allievo con la testa un po’ frastornata!
Nessuno nega la complessità del mondo in cui viviamo, la necessità di rinnovare profondamente l’orizzonte culturale con cui l’umanità deve affrontare il problema della propria stessa sopravvivenza o la rapida evoluzione dei saperi e delle tecniche.
Ciò che lascia perplessi è se il documento indica effettivamente una strada praticabile per conciliare questo scenario con l’inevitabile gradualità, seppur rinnovata e ciclica, di ogni progetto educativo. In tal senso, la strada indicata dal documento suscita tre ordini di perplessità Sul piano culturale, oltre a un eccesso di enfasi legata a preoccupazioni di natura valoriale forse un po’ troppo contingenti (“insegnare a vivere” è finalità che trascende e confonde i compiti della scuola), il documento propone un’idea di complessità e di nuovo umanesimo un po’ troppo destoricizzata. L’idea di fattura epocale che pervade il documento sembra sottrarre al progetto educativo punti di riferimento, chiavi interpretative (rinvenibili solo all’interno dell’osmosi fra statuti pluridisciplinari nuovi o profondamente trasformati). Se la suggestione appare affascinante sul piano della discussione teoretica, non mancano perplessità e cautele sulla sua traduzione educativa, pedagogica e didattica.
Sul piano educativo e pedagogico, non si scorgono i criteri per governare la dialettica fra complessità dei fini e pur rinnovata gradualità degli apprendimenti, anche perché il documento è certamente sorretto da un’idea forte di complessità (più o meno condivisibile, ma presente e a tratti pervasiva) ma non sufficientemente garantito o bilanciato da un’idea altrettanto forte di apprendimento o di insegnamento/ apprendimento. La trattazione di questo secondo aspetto appare più preoccupata di conciliare istanze legittime, ma almeno in parte diverse (la centralità della persona e il coinvolgimento attivo nell’apprendimento; la dimensione gruppale - ma cooperativa, comunitaria o sociale? - dell’apprendimento; l’esigenza di proiettare il tempo dell’apprendimento lungo l’intero corso della vita) che tesa a risolvere alcune contraddizioni in cui si dibatte oggi la nostra scuola. Il positivo ritorno a una scuola del “curricolo”, che si coglie in filigrana in questo documento e viene proposto con coerenza in un altro documento parallelo e complementare, necessita oggi di un’idea vincente (anche se dinamica, sperimentale, dialettica, disposta a rinnovarsi e mettersi perennemente in discussione) su come fronteggiare la crisi delle mediazioni e delle relazioni educative.
Al documento, infine, non toccava il compito di indicare strategie di tipo didattico, ma è inevitabile chiedersi quale idea e quale pratica di scuola siano compatibili e coerenti con questo scenario complessivo.
Siamo tutti convinti da decenni della necessità di superare una concezione e una pratica rigide, compartimentale, museificate e nozionistiche delle discipline, ma siamo altrettanto consapevoli di quanto sia impervia la strada del superamento della scuola contenutistica e trasmissiva. La costruzione di una didattica laboratoriale inserita in un nuovo quadro di mediazioni culturali e di pratiche relazionali va realizzata attraverso una trasformazione degli atteggiamenti e delle azioni professionali cui però forse non giovano accelerazioni e fughe verso malintese accezioni della complessità o della trasversalità.
Non vorremmo ritrovarci in scuole in cui insegnanti un po’ incerti e confusi su che cosa sia il caso di insegnare raccontano la complessità del mondo e certificano la trasversalità ad allievi che nel frattempo non hanno capito bene che cosa dovessero imparare, tutti però consolati dal fatto che è importante non quel che si impara e soprattutto come lo si impara, ma “imparare a imparare”.
In generale il ministero sembra in questi mesi cogliere il reale problema della scuola: l’avvenuta frattura del rapporto educativo fra gli oggetti della conoscenza, i soggetti protagonisti dei processi di insegnamento/apprendimento, le filosofie e le metodiche della mediazione culturale e delle loro relazioni ambientali. Ma sembra incontrare qualche difficoltà a individuare la direzione giusta per fronteggiarlo:
- sul piano relazionale e comportamentale con una serie di interventi che oscillano fra rigore difficilmente praticabile e piani di sensibilizzazione etica estranei al fare scuola quotidiano;
- sul terreno istituzionale dando troppa legittimità alle resistenze, ai lacci e lacciuoli, che impediscono all’innalzamento dell’obbligo di dispiegare tutta la sua potenzialità riformatrice;
- sul piano educativo con un progetto di revisione delle indicazioni in bilico fra le accelerazioni avveniristiche della cornice generale e la comprensibile difficoltà di dire che cosa si debba intendere con “obiettivi specifici di apprendimento” e chi li
debba scrivere; difficoltà su cui rischia di arenarsi il positivo ritorno alla prospettiva curricolare.
Noi riteniamo che quella frattura si possa superare solo ricostruendo la percezione positiva del rapporto fra il progetto culturale della scuola e la qualità della vita delle persone e delle collettività, ma non facendone l’oggetto diretto degli insegnamenti, la tematica per piani di intervento un po’ demagogici, l’oggetto parcellizzato delle certificazioni o un alibi per la sola destrutturazione delle pratiche educative consolidate.
Riteniamo che ancora una volta la strada da percorrere sia quella “di riprendere l’analisi della crisi di un rapporto educativo che rischia di fallire proprio nella forma essenziale della sua costituzione, nella comunicazione mediata dei contenuti culturali.” (G. Di Caro, in Apprendere a scuola nella società complessa,a cura di A. Sasso e S. Toselli, Cidi- Paravia, 1997).
Ci sembra, invece, che anche il documento del 3 aprile rinunci a scavare, magari impietosamente, nelle ragioni di quella crisi e a indicare vie per ricomporre la“comunicazione mediata dei contenuti culturali” e si conceda invece qualche
affascinante, ma un po’ rischiosa, via di fuga.

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