Alba Sasso
Il senso delle riforme
1.Il respiro del lungo termine
Perché
questo titolo, perché "il senso delle
riforme"? Un obiettivo ambizioso, forse,
che nasce dalla volontà di cercare il filo,
le motivazioni forti di questa stagione di
riforme, e insieme di capire i collegamenti,
di riconnettere i percorsi, di ripercorrere
il cammino faticoso, col suo carico di ambiguità,
di ostacoli, di resistenze; che nasce dalla
necessità di capire quali strade, risorse,
soggetti, strategie possano favorire il buon
esito delle riforme stesse; che nasce, infine,
dal bisogno di confrontarsi con le domande
che questa società pone al sistema dell’istruzione
e della formazione.
Ed
è da quest'ultima questione che mi pare necessario
ripartire.
E
dunque: la scuola oggi, il sistema formativo
nel suo complesso, può essere la risposta
a bisogni di sapere individuali ed effimeri,
quel che serve ora e qui? "Poche chiacchiere
- hanno detto lo scorso anno gli studenti
dell’Università Federico II di Napoli, durante
una cerimonia che ricordava gli insegnanti
ebrei di quella Università allontanati dal
loro posto dalle leggi razziali del 1938 -,
a noi queste storie del vostro passato non
interessano. Noi siamo qui per imparare quello
che ci serve per lavorare."
Ma
a questa chiusura, a questa disperazione basta
rispondere che la scuola non deve essere solo
funzionale ai mestieri e alle professioni
o all'economia o allo sviluppo - "no
alla scuola dell’addestramento" hanno
detto gli studenti dell’Università cattolica
di Milano, contestando De Mauro -, se non
si dice a che cosa deve servire il sistema
formativo oggi, in una società che rischia
di smarrire il “respiro del lungo termine”?
"In piena crisi sociale e di idee e di
metodologia - dice Rossanda - vince l'idea
comune e semplificata che la scuola si può
attraversare anche distrattamente, inglese
e informatica appunto, solo per approdare
al lavoro". Ma questa non è già una
scelta che delinea un’idea di società? Non
è una forma di addomesticamento a una
non interrogata ma asseverata modernità? E
in che modo si interroga sul lavoro, sulla
sua identità e qualità? Non appare così già
risolta la domanda di quale sia il ruolo dell’istruzione
e della formazione ?
Secondo Bill
Gates, alfiere di un’economia neoliberista
- come ricordava Vittorio Capecchi al nostro
convegno dello scorso anno - l’istruzione
è sicuramente l’investimento più importante
nell’economia di un paese, a patto però che
la tecnologia informatica diventi il nucleo
dell’esperienza didattica. L’insieme dei saperi
sociali è considerato inutile rispetto ai
saperi tecnico-scientifici, e di questi importanti
solo quelli immediatamente utilizzabili dalle
imprese. In altre parole scuola, università,
formazione professionale dovrebbero essere
direttamente o indirettamente orientate alle
imprese.
Nell’ottica
neoliberista, l’innovazione tecnologica, piuttosto
che essere orientata a migliorare le condizioni
e la qualità della vita, diventa strumento
di una competitività dell’impresa, che nel
libero mercato, appunto, si indirizza laddove
i profitti sono ritenuti maggiori.
Un
modello di cultura e di economia che suggerisce,
propone ogni momento, anche attraverso la
complicità dei mezzi di comunicazione di massa,
stili di vita e comportamenti improntati all’egoismo,
all’individualismo, all’aggressività e al
razzismo. Mai come in questo momento appare
profetico quanto denunciato nel 1931 da A.
Huxley: “Nell’era della tecnologia avanzata
il maggior pericolo per le idee, la cultura
e lo spirito potrebbe venire da un nemico
dal volto sorridente, piuttosto che da un
avversario che ispiri odio e terrore”.
La
suadente modernità della proposta delle "tre
I' - impresa inglese e informatica - può
allora avere forza di attrazione anche tra
coloro che non hanno affinità ideologica col
modello neoliberista e con la proposta politica
che lo rappresenta: genitori e famiglie attratti
dalla linearità di un percorso in fondo al
quale c’è lavoro, se non per tutti, almeno
per i propri figli, spinti, purtroppo anche
défaillances della scuola statale,
a sognare un gratuito “servizio a domanda
individuale”. Attratti infine dall’idea mitica
e salvifica di avere libertà di scegliere,
di decidere, forse condizionare la formazione
dei propri figli. Ma per questa strada si
rimpicciolisce il mondo, se ne amputano i
collegamenti, si restringe un legittimo bisogno
di cambiamento al soddisfacimento di un interesse
personale e privato.
E
proprio a partire dal rifiuto di una visione
sociale e solidale rischia di attecchire la
complessiva proposta neoconservatrice, nella
quale il decentramento regionale diventa
strumento, attraverso la politica di devolution
e del buono scuola, di differenziazione
e gerarchizzazione dei percorsi e degli obiettivi
formativi, persino delle modalità di reclutamento
e licenziamento degli insegnanti e dei loro
livelli retributivi, di messa in discussione
della libertà di insegnamento: insomma, di
sostanziale smantellamento dell’identità nazionale
e del carattere pubblico del nostro sistema
scolastico.
2.La
difficile ricerca di un mandato sociale
In
una società, in cui sembra autoritario e vetero-statalista
non prostrarsi alla domanda prepotente dell’utente
- o meglio del "cliente" - credo
che sia invece tenacemente, ostinatamente
necessario costruire, continuare a costruire
un sistema nel quale sia la collettività nelle
sue forme di rappresentanza istituzionale
– la res pubblica - a decidere, a governare
e indirizzare i processi senza arrendersi
alle logiche individuali e del mercato. Accettare
l’idea del "cliente" non finisce,
insomma, con l'accondiscendere a che il progetto
dell’istruzione guardi all’immediato, risponda
al committente singolo, proponga una logica
di competizione - riuscire meglio degli altri,
magari al posto loro -, cancelli ogni idea
di interesse generale, rinunci a ogni sollecitazione
di futuro?
Lo
so. Non è dalla scuola che si può condizionare
un modello di sviluppo, ma sono convinta che
c’è, ci deve essere, uno spazio di intervento
tra questa consapevolezza e la convinzione
che non si possa opporre nulla all’idea,
quasi un’imbattibile legge di natura,
di una società dove “uno su mille ce la fa”,
alla società definita dei 4/5, un quinto di
popolazione mondiale vincente, realmente necessario
per far funzionare la macchina mondiale, e
4/5 di perdenti, eccedenti, effimeri su cui
scaricare i capricci del mercato.
Se
questo spazio non ci fosse, se introiettassimo
l’idea di questa società come l’unica possibile
nella modernità corrente, non resterebbe che
l’accettazione di quel modello o solitarie
vie di fuga.
Come
se ne esce? Il sistema formativo inglese o
americano, con percorsi di fatto separati
- uno per i futuri vincenti, basato su solide
conoscenze alfabetiche, il secondo prevalentemente
socializzante, per tutti gli altri -, non
ha funzionato. Non ha funzionato, perché il
tasso di cosiddetto analfabetismo di ritorno
in quei paesi è assai alto e preclude la possibilità
di accesso al sapere, al lavoro e alla democrazia
di milioni di individui. E non ha funzionato
neanche per i primi, i vincenti, se è vero
che le Università americane sono piene, ai
massimi livelli della ricerca, di orientali
e di europei, se è vero quanto racconta Bret
Easton Ellis dell’afasia e della disperazione
di una generazione, che ha tutto, può consumare
tutto e non riesce a desiderare più niente.
Ma
non se ne esce nemmeno rinchiudendosi nella
cittadella assediata: affidandosi solo al
lavoro sommesso, prezioso e continuo di chi
costruisce nella scuola complesse relazioni
di affidamento e di cura, indubbiamente finalizzate
alla crescita e alla formazione di donne e
uomini. Anche gli intellettuali di Farheneit
451, superstiti al rogo dei libri, custodivano
memoria preziosa, ma erano prigionieri della
stessa società della quale si mettevano o
venivano messi ai margini.
Certo,
se fosse questo e solo questo il modello di
sviluppo, perché farsi carico degli ultimi
e dei penultimi? E d’altra parte, si dice,
anche quando il sistema se n’è fatto carico,
come nella nostra tradizione di scuola della
Costituzione, non ha risolto proprio questo
problema. Continuando a produrre dolorosamente
selezione, dispersione, abbandoni.
E
qui torniamo al punto in discussione. In fondo
l’unico aspetto che veramente è stato messo
in discussione della riforma Gentile è il
fatto che per molti anni la scuola italiana
non ha più avuto un preciso mandato sociale.
Cosa che ai tempi di Casati e Gentile aveva.
Un compito di alfabetizzazione ai primi livelli
dell’istruzione, “istruire quanto basta, educare
più che si può”, un compito di formare la
classe dirigente del paese, attraverso una
gerarchia di saperi e di percorsi scolastici,
con l’idea di ricostruire e consolidare attraverso
la scuola la nomenclatura sociale e le sue
gerarchie.
Allora
in che modo si contrasta e ci si oppone a
questo modello, a quest’idea della società,
della cultura e del lavoro?
3.La
scuola: risorsa per l'economia o risorsa per
la democrazia?
Permettetemi
di scorrere velocemente alcune questioni,
già più volte trattate nei nostri convegni,
e che hanno costituito lo sfondo di riferimento
politico e culturale del panorama riformatore
di questi ultimi anni.
Già nel '93,
il Libro Bianco dell'Unione Europea
sottolineava come le competenze fondamentali,
indispensabili all'inserimento sociale e
professionale debbano comprendere “un'acquisizione
completa sia delle conoscenze di base (linguistiche,
scientifiche, ecc.), sia delle competenze
a carattere tecnologico o sociale: capacità
di muoversi e di agire in un ambiente complesso
e ad alta densità tecnologica, caratterizzato,
più in particolare, dall'entità delle tecnologie
informative; capacità di comunicazione, di
contatto e di organizzazione; insomma e anzitutto
la capacità fondamentale di acquisire nuove
conoscenze e nuove competenze, di imparare
ad imparare per tutto il corso della vita”.
Certo il documento, secondo l’ottica che è
risultata dominante in questa fase di realizzazione
dell’Unione europea, sembra, in qualche modo,
privilegiare la logica dell’impresa, e perdere
di vista la centralità delle persone. Soprattutto
quando vi si afferma che lo sviluppo delle
capacità di adeguamento degli individui si
rivelerà sempre più necessario sia alle imprese,
per avvalersi al meglio delle innovazioni
tecnologiche da esse acquisite o messe a punto,
sia agli individui stessi: una parte importante
dei quali rischia di dover cambiare attività
professionale quattro o cinque volte nel corso
delle vita attiva.
E c’è da chiedersi
quanto questa ispirazione di fondo abbia influenzato
le politiche dei governi europei sul terreno
dell’istruzione e della formazione.
Eppure resta
importante che in questo documento sia ribadito
il ruolo autonomo della formazione. E che
la scuola sia considerata non solo un passaggio
verso l'esperienza del lavoro, ma luogo di
osservazione e riflessione sul cambiamento,
dove si costruisce - attraverso la capacità
di leggere e interpretare la realtà - la coscienza
civile e democratica del paese. Insomma risorsa,
certo, per l’economia, ma soprattutto risorsa
per la democrazia.
Non è allora
soltanto necessario sapere di più, ad ogni
livello della vita scolastica e della vita
in generale; è necessario ripensare profondamente
a quale sapere serve, e ragionare di come
la necessità di una formazione permanente
ridisegni i profili e l’identità dei sistemi
di istruzione, che dovranno accompagnare ogni
cittadina e ogni cittadino per l’intero arco
della sua vita.
Ma
per ritornare più volte a scuola nel corso
della vita, per acquisire le competenze richieste
dalla celerità del progresso scientifico e
dall’innovazione nel settore tecnologico,
per gestire ad esempio nuove macchine, per
farle lavorare, è necessario avere acquisito
e metabolizzato solide competenze di base.
"La capacità intellettuale crea nuove
tecnologie - sostiene Lester Thurow -, ma
sarà il lavoro qualificato la base che consentirà
di impiegare le nuove tecnologie di processo
e di prodotto generate." Più conoscenze
e competenze in ogni posizione lavorativa,
dunque. "Ad esempio - sostiene ancora
Thurow-, per poter svolgere le proprie mansioni,
ogni lavoratore deve avere un livello di conoscenza
della matematica di base molto superiore a
quello posseduto dalla maggior parte dei diplomati
delle scuole superiori. Senza controllo statistico
della qualità, oggi i semiconduttori ad alta
densità non possono essere fabbricati. Possono
essere ideati, ma non fabbricati”.
Certo,
qui c’è un intreccio vero tra le scelte dell’economia
e quelle della formazione, che insieme possono
prefigurare un modello di società piuttosto
che un altro. Sicuramente trasformare il livello
qualitativo del sapere, garantire il diritto
a una formazione qualificata per tutti è questione
che pesa – ed in modo rilevante - sulla qualità
del sistema produttivo. Una struttura
economica, che si fondi in modo diffuso sul
lavoro dequalificato, come sembra essere
l’economia del nostro paese, soprattutto in
alcune aree geografiche, rischia di diventare
- nello stesso tempo- una realtà debole e
marginale, collocata in posizione subalterna
nella divisione internazionale del lavoro.
Ma si tratta, ancora, di ragionare su quale
risorsa per l’economia e la democrazia possano
rappresentare donne e uomini, che sappiano
attraversare e riattraversare continuamente
i percorsi dell’apprendimento, perché ne hanno
i requisiti di accesso, che sappiano vivere
da cittadini fruitori e produttori (per citare
un vecchio slogan del Cidi), perché hanno
consolidato gli strumenti per capire, interpretare,
scegliere, progettare. E soprattutto perché
hanno imparato a metterli in discussione.
E’
su questo terreno che ritorna prepotentemente
in primo piano il nodo decisivo dell’istruzione
come risorsa per la cittadinanza democratica,
come strumento possibile per contrastare un
modello di sviluppo insostenibile e incontrollato
dai più.
Se
dunque la società della conoscenza si propone
come luogo di sviluppo, salvaguardia, condivisione
dei beni comuni rappresentati dalle conoscenze
e dai saperi, non solo appare appunto obsoleto
continuare a proporre separatezza tra cultura
disinteressata e cultura del lavoro, ma diventa
necessario un sistema dell’istruzione e della
formazione continua, che sappia rispondere
a bisogni nuovi di apprendimento, come
ai bisogni antichi di sicurezza e di
stabilità, riuscendo a coniugarli con le mutazioni
profonde che nel nostro presente e nel nostro
futuro sono indotte e determinate dalla nascita
della società dell’informazione e dallo sviluppo
della civiltà scientifica e tecnica.
Perché
se ognuno di questi fattori apre nuove possibilità
nei processi di organizzazione del lavoro,
e dei sistemi di istruzione, allo stesso tempo
porta con sé il rischio di nuovi e più drammatici
processi di esclusione tra coloro che sanno
e coloro che non sanno, processi che
rischiano di sommarsi alle già acute differenze
sociali, moltiplicandole in modo doloroso
e irreparabile. Diventa allora scelta di democrazia
quella di un paese che riesce a garantire
livelli diffusi di istruzione al più alto
numero di cittadini, combattendo l’idea che
la formazione serva a selezionare i migliori,
piuttosto che a intercettare e valorizzare
le capacità specifiche di ognuna e ognuno.
Ed è scelta di democrazia quella di un paese
che riesce a combattere le disuguaglianze
che, attraverso quest’idea dell’istruzione,
si riproducono nella scuola e attraverso la
scuola, tra coloro che hanno accesso alla
competenza che conta e coloro che ne sono
esclusi.
4.Una
leva per ridurre le diseguaglianze
Ecco,
di fronte alla molteplicità del cambiamento,
o la scuola diventa strumento per disegnare
un progetto più evoluto e solidale di organizzazione
sociale o la formazione finisce con l’assecondare
un processo di destrutturazione sociale. Credo
che sia questa oggi la posta in gioco,
nel nostro come negli altri paesi.
È
questo lo sfondo che ridefinisce la missione
fondamentale del sistema dell’istruzione e
della formazione nella società contemporanea.
Non è facile oggi ragionare di finalità univoche
e semplificate, come nel secolo passato, quando
il mandato era quello di formare i cittadini
dello stato nascente attraverso l’unificazione
linguistica del paese, la lettura risorgimentale
del concetto di patria, l’immaginario letterario,
che ne consolidava emotivamente identità
e appartenenze; e l’obiettivo era quello di
rafforzare, attraverso la struttura organizzativa
della scuola, le rigide gerarchie di quell’Italia.
Ma
oggi, a cinquanta anni dal dettato costituzionale
che considera l’istruzione fattore di decondizionamento
sociale, dopo gli interventi degli anni '60
e '70 volti a rendere quel sistema più equo,
meno classista e diseguale, di fronte al sistema
attuale, dichiarato ingenerosamente dai media
dequalificato e lassista, occorre ragionare
di un principio educativo di formazione alla
cittadinanza, nel quale la cultura non sia
intesa solo come “capacità di capire i cambiamenti
in corso e di adattarvisi”. Ma sia intesa
come occasione per formare donne e uomini
in grado di pensare criticamente, di avere
conoscenze e strumenti di interpretazione,
di rifiutare le certezze affrettate e il pensiero
semplificato, di conquistare una disciplina
mentale sicura. Un principio educativo secondo
il quale diventare cittadini di un mondo più
vasto significhi un dialogo costante con le
altre e con gli altri, dove la valorizzazione
delle differenze serva a rendere ognuno e
ognuna forte del dialogo e del rapporto
con altre storie e altre culture.
Insomma
per ripartire dai soggetti, dalle persone
per tener conto delle diversità, senza che
tutto questo diventi deregolamentazione del
sistema, “appropriazione privata delle conoscenze”,
c’è bisogno di un sistema scuola che riesca
a garantire obiettivi e livelli di qualità
per tutti, imparando a governare la ricchezza
dei percorsi e delle scelte.
5.L'itinerario
delle riforme
Il
piano di riforme, presentate e già in gran
parte avviate in questa legislatura va nella
direzione di una scuola che attua il dettato
costituzionale - "rimuovere gli ostacoli
per un’effettiva uguaglianza" -? Cerca
di farsi carico della qualità della scuola
di tutti, intende coniugare qualità e democrazia:
nel senso di affrontare i temi dell’inclusione
e dell’esclusione, dei diritti di cittadinanza,
del ruolo dei sistemi pubblici di garanti
dell’efficacia e dell’equità dei sistemi di
istruzione?
Propone
di contrastare la malattia del nostro sistema
scolastico? I ragazzi che perde. Ragiona di
combattere le disuguaglianze e di valorizzare
le differenze? Riesce a parlare di una scuola
efficace, efficiente, equa, rigorosa, di democrazia
e di diritti? Ci troviamo o no di fronte a
una riforma che conviene non solo ai singoli,
ma allo sviluppo democratico del paese e perciò
ai singoli?
Io
credo di sì, anche se pesano nella disaffezione,
nel disorientamento di una parte del mondo
della scuola una cattiva informazione, una
malevola ricostruzione della realtà che rischia
di far smarrire la direzione, ma soprattutto
il senso delle trasformazioni già avviate.
Con un singolare errore logico, o meglio di
prospettiva, stampa e opinion makers accusano
la riforma proprio per quegli aspetti che
essa vuole modificare: la si critica per un
eccesso di rigidità e nello stesso tempo le
si chiede di tornare a strumenti di puro controllo,
come il voto di condotta, riproponendo un
modello che è quello che si intende mettere
in discussione: la scuola che giudica, che
sancisce, che espelle. Si finisce così col
rivelare la vera convinzione di fondo: che
l’obiettivo di garantire a tutti, non uno
di meno, un buon livello culturale e un proficuo
apprendimento non è un obiettivo costituzionale
ma una solenne imbecillità. Perché - si dice
- non tutti ce la possono fare, tacendo ipocritamente
sul fatto che nella storia della nostra scuola
la provenienza o il destino sociale sono stati
determinanti nel decidere attitudini e capacità.
Vogliamo ragionare su quale sia, ancora oggi,
la provenienza sociale dei cosiddetti "dispersi"?
Pesano
sicuramente nell’atteggiamento di attesa,
a volte di diffidenza nei confronti della
riforma, il riflettersi su di essa di dissensi
su scelte operate dal governo, la legge di
parità per esempio, apparsa in contrasto
con l’idea della scuola di tutti; il fatto
che su una serie di questioni e di applicazioni
legislative si siano fronteggiate e ancora
si fronteggino ipotesi e interpretazioni diverse,
penso all’autonomia (responsabilizzazione
in progetto condiviso o strumento di competitività);
un paradossale ed eccessivo aumento di procedure
burocratiche; l’incertezza sul proprio destino
professionale; la difficoltà di capire il
quadro generale e di prefigurare scenari possibili
rispetto ad alcune scelte. Ad esempio su come
l’obbligo formativo si rapporta con la scuola,
attraverso quali strade contrasta o asseconda
la sollecitazione di aree forti del mercato
del lavoro (prima di tutte il Nord-Est) ad
un abbandono precoce del percorso di istruzione?
Si
tratta allora di sollecitare un impegno politico
su questi terreni e non solo del mondo della
scuola, un impegno politico che implichi discussione
approfondita e scelte conseguenti, con la
consapevolezza che sulla scuola ancora una
volta si gioca e si giocherà una partita di
democrazia e di civiltà.
6.Una
legge di sistema
Vorrei
allora partire dalla legge di riordino dei
cicli, dal suo piano di attuazione, per andare
poi a ritroso nella storia di questi ultimi
anni.
Le
ragioni della riforma sono ribadite, nel Piano
quinquennale di attuazione, previsto dalla
legge di riordino, a partire dall’ultimo rapporto
Ocse ’98, laddove si dice che il quadro complessivo
del nostro sistema “resta ancora segnato da
un accumulo di problemi e questioni rimaste
senza risposta”. Il Piano individua
“nella discontinuità tra le diverse parti
del sistema di istruzione e nella parzialità
degli interventi di riforma le difficoltà
di affrontare i nodi dell’insuccesso scolastico
e della dispersione (…) E, ancora, sottolinea
come la debolezza del nostro sistema si misuri
non solo nei tassi inaccettabili di ripetenze
e di abbandoni, ma si riveli anche nel tipo
di istruzione che la scuola è riuscita a dare
negli ultimi decenni. Al di là dei titoli
di studio conseguiti, questa istruzione si
sta rivelando sempre meno adeguata: quote
significative della popolazione adulta, pur
scolarizzata, tendono a essere sospinte ai
margini della fruizione culturale indispensabile
per vivere e lavorare in una società complessa.
Rispondere a questi problemi implica avviare
un’impegnativa azione di riordinamento del
sistema (…) E questo è un compito difficile
(…) e tuttavia è compito irrinunciabile che
costituisce la motivazione profonda del processo
di riforma”.
Abbiamo
da sempre condiviso l’impianto del riordino
dei cicli, e apprezzato i cambiamenti apportati
tra la prima e l’ultima stesura del disegno
di legge, per esempio rispetto al problema
della canalizzazione precoce, e da sempre
ci hanno convinto alcune scelte:
-l’idea
dei cicli lunghi, percorsi unitari, dove la
continuità non significa giustapposizione,
ma individuazione di articolazioni, di snodi,
anche di discontinuità necessarie alle fasi
dell’apprendimento: un’idea al centro della
cultura democratica sulla scuola - pensiamo
a Bruno Ciari -;
-la
riduzione di un anno di scolarità come scelta
di un percorso più agile, più adeguato ai
tempi della crescita, al passaggio all’età
adulta;
-il
rilievo dato alla scuola dell’infanzia, riconosciuta
finalmente come scuola;
-la
proposta di una scuola secondaria senza gerarchie
di percorsi (terreno su cui ci si lascia definitivamente
alle spalle il modello gentiliano), all’interno
di un sistema che si ponga con la scuola il
problema di un’alta alfabetizzazione e offra
al termine dei cicli, obbligo e diploma,
una pluralità di occasioni formative, dalla
formazione professionale di primo e secondo
livello, alla formazione superiore integrata.
Quanto più la scuola promuove una formazione
culturale e una cultura professionale comune
a una generazione, tanto più sono necessari
strumenti agili ed efficaci di formazione
ai lavori, superando l’angustia dell’unico
e rigido percorso dalla scuola all'università,
che da sempre ha prodotto selezione e dispersione.
E tutto questo nell’ottica di un
sistema di educazione permanente e di educazione
degli adulti che rappresenta una sfida democratica
e culturale oggi essenziale e pone il problema
di ridefinire confini e cultura dell’intero
sistema di istruzione e di formazione.
Un sistema, insomma, che riesca a intercettare
intelligenze, storie diverse e che sappia
metterle a valore, nel quale ogni ragazza
e ragazzo scelga e prosegua il suo percorso,
secondo le sue attitudini e propensioni: e
non secondo la storia e la cultura familiare.
O dobbiamo tornare a ipotizzare una scuola
(è la proposta del gruppo Nova Spes, Centro
studi Gilda e altri) dove a conclusione della
scuola di base si scelga tra due percorsi:
uno nella cosiddetta scuola formale, l’altro
nella scuola professionale secondo il principio
della “selezione orientante”; proposta non
molto diversa da quella che fa la destra di
differenziare i percorsi nella fase conclusiva
dell’attuale scuola media.
Oggi
e domani scenderemo nel merito delle singole
questioni, affronteremo problemi di contesto,
l’analisi delle strutture, i rapporti tra
i vari percorsi, la delicata questione docente
all’interno del cammino della riforma. A me
interessa ora cercare di leggere l’intero
piano di riforme a partire da alcune chiavi
di lettura o nodi problematici.
7. La necessità di pensare alla
riforma come sistema.
Con il piano
di attuazione del riordino dei cicli, con
le prime indicazioni curricolari per la scuola
di base, con le linee di prospettiva per la
scuola secondaria, di cui si sta ragionando
nella Commissione di studio come necessaria
premessa alla stesura delle indicazioni curricolari
anche per il secondo ciclo, emerge con la
maggiore evidenza possibile che oggi la riforma
o è una riforma complessiva o rischia di non
avere respiro e che esige la riforma di tutti
gli altri tasselli del sistema.
Ad esempio, ragionare
di profili di uscita e fisionomia della scuola
secondaria significa anche ragionare di formazione
professionale, dell’intero sistema di formazione
post-secondario, di formazione permanente
e ricorrente, del percorso universitario.
L’obbligo formativo, ad esempio, è scelta
che presuppone una riforma dell’intero settore
della formazione professionale, oggi latitante
in molte regioni, che pone domande di investimento
al mondo del lavoro nel sistema dell’apprendistato.
Sarà poi necessario ragionare di quali possano
essere oggi i tratti significativi, le caratteristiche,
le modalità di una qualificata formazione
professionale. E, allo stesso tempo, affrontare
il nodo culturale della formazione al lavoro:
quali i saperi di base cui far riferimento,
rispetto alla ridefinizione continua di profili
e saperi professionali, al diffondersi del
lavoro immateriale.
O, per fare un
altro esempio, parlare di nuovi compiti e
funzione dei docenti significa anche parlare
di una nuova e qualificata prima formazione
dei docenti. E parlare di formazione in servizio
significa anche parlare di un legame più stretto
e continuo appunto con la prima formazione,
anch’essa vista nella logica di una formazione
permanente e ricorrente.
Insomma, mi sembra
decisivo avere la pazienza, la tenacia e la
volontà di ricostruire sempre lo sfondo complessivo,
sia pure nella consapevolezza delle difficoltà
derivanti dal fatto che le innovazioni hanno
avuto tempi diversi, che c’è stata una natura
diversa dei processi di trasformazione, che
sono diversi i soggetti che hanno il compito
di governarli.
Un sistema che
da decenni, nonostante significative riforme,
nonostante la generosità, l’impegno e la capacità
di operare concretamente di tante e tanti
insegnanti, ha mantenuto intatto il suo dna
pedagogico e organizzativo, la sua struttura
profonda, bombardato da un insieme di riforme
rischia di implodere, se non riesce a collegare
le motivazioni delle singole questioni - perché
il curricolo invece del programma? perché
la valutazione di sistema? perché le autonomie?
- a un orizzonte di fini e a riannodare,
per questa strada, i singoli fili dell’intero
processo.
8. La
riforma come processo, con le radici nel passato
e la fantasia nel futuro
L’insieme
delle riforme, proprio perché ragiona di un
rapporto diverso tra centro e periferia e
di un diverso governo del sistema, perché
è all’interno di un processo complesso di
riorganizzazione amministrativa dello stato,
perché chiama a responsabilità, ruoli e funzioni
diverse tutti i soggetti della vita della
scuola, può sgomentare proprio quanti commisurano
la vastità e la difficoltà dell’impresa alla
scomoda quotidianità di chi ogni giorno, lontano
dalla sicurezza degli slogan, si sforza
di dare un senso al proprio lavoro.
"Ogni opera che lascia il segno
- scriveva Claude Lévi-Strauss - è fatta delle
regole, che sono state di ostacolo alla sua
nascita, e che essa ha dovuto infrangere,
e delle regole nuove che essa, una volta riconosciuta,
a sua volta imporrà."
Voglio dire che la giusta ambizione di
segnalare la discontinuità col passato non
può mettere in ombra la sostanziale continuità
del cammino avviato sulla base di principi
educativi maturati e sperimentati in anni
di dibattito e in importanti realizzazioni.
D’altra parte, non c’è cambiamento che
possa rinunciare a quanto di meglio la saggezza
e la passione dei padri abbia prodotto (la
centralità e la storicità del soggetto che
apprende - Gianni, proprio lui, Pierino, proprio
lui -, la volontà di innalzare per tutti la
qualità dell’istruzione e della formazione,
la necessità di un unitario percorso di base
e quella di superare la struttura separata
e gerarchizzata "a canne d’organo"
- si diceva - della scuola superiore gentiliana).
Come non ricordare l’impegno generoso su questo
terreno di Don Milani, Lucio Lombardo Radice,
Sergio Neri, Loris Malaguzzi, della nostra
Luciana Pecchioli.
E
certo è tutto da costruire il percorso che
possa far vivere e pesare in questa riforma
principi, modalità, scelte che hanno qualificato
la migliore tradizione della nostra scuola:
il patrimonio di esperienze realizzato nell’attuazione
delle leggi istitutive della scuola media,
elementare e dei loro programmi, le innovazioni
determinate dalla legge sull’inserimento dei
soggetti portatori di handicap che
istituiva modalità di lavoro come la programmazione,
la nuova valutazione, la grande tradizione
della scuola dell’infanzia, che ha trovato
sistemazione negli Orientamenti del ’91,
le tante sperimentazioni della scuola
secondaria, i programmi sperimentali Brocca,
e le più recenti trasformazioni e sperimentazioni:
l’attuazione degli esami di stato, l’avvio
degli istituti comprensivi, le sperimentazioni
dell’autonomia.
8.Dilemmi
e prospettive dell'autonomia
Raccogliere
e ricollocare: questo il senso del processo
che si avvia. Le riforme non sono un prodotto
confezionato e chiuso, che viene consegnato
alle periferie: una scuola che passa dall’idea
della trasmissione delle conoscenze a quella
dell’attenzione ai soggetti che apprendono
ha necessità di una verifica continua dell’efficacia
e della qualità del suo lavoro: di modifiche,
arricchimenti, correzioni in itinere.
Infatti
il Piano di attuazione per il riordino
dei cicli prevede l’avvio della nuova
scuola dal settembre 2001 e chiama, inoltre,
ad una verifica triennale, sulla base di quanto
le scuole diranno sull’andamento delle riforme,
in particolare sulla compatibilità, sostenibilità,
efficacia di quanto proposto.
E
sarà, perciò, importante che la verifica e
il dibattito non restino nel recinto scolastico:
e che anzi nel paese si riesca a parlare della
scuola, del suo progetto culturale, del suo
ruolo e della sua funzione, dimenticando per
un momento le proprie storie, i propri interessi
e le proprie nostalgie. E dovrà contare in
questa verifica il confronto con quel patrimonio
di esperienze di cui prima parlavo, con una
ricerca didattica e disciplinare condotta
e promossa, in questi anni, da riviste scolastiche,
associazioni professionali e disciplinari,
istituti di ricerca, da università. Perciò
bisognerà trovare i modi, sin da ora, per
rendere stabile un collegamento tra ricerca
nella scuola e ricerca sulla scuola. Affinché
ricerca e riflessione possano tornare ad essere
sapere della scuola, pratica quotidiana.
Il
carattere processuale deriva anche dal fatto
che, accanto all’attuazione del riordino dei
cicli, vanno avanti tutte le altre riforme,
da quella del governo del sistema, che prevede
la riorganizzazione amministrativa e il decentramento
del ministero in strutture regionali, a quella
dell’autonomia che attribuisce alle scuole
responsabilità progettuale in merito alle
scelte culturali e curricolari.
L’attuazione
delle riforme, in sostanza, viene sottoposta,
nel suo farsi, a una continua e costante verifica.
Ma non sarà un percorso facile e lineare,
quello che si avvia, perché chiede a tutti
di cambiare mentalità, di assumere responsabilità,
di sentirsi soggetti alla pari, di mettere
da parte rassicuranti gerarchie, di sentirsi
insomma più “governanti” e meno “governati”.
9.
Il problema dell'autonomia, o, meglio, delle
autonomie.
L’art. 21 della legge sull’autonomia,
legge di modifica amministrativa dello Stato,
disegna i singoli istituti scolastici come
enti autonomi, dotati di personalità giuridica,
in sostanza disloca presso gli stessi poteri
e responsabilità un tempo attribuiti al governo
centrale. Ma questi nuovi poteri e responsabilità,
che andrebbero comunque rafforzati dalla costituzione
e dal potenziamento delle reti di scuole,
con quali altri soggetti e poteri si confrontano,
con quale idea di governo del sistema e soprattutto
su cosa si esercitano all’interno delle singole
scuole?
Parleremo
oggi e domani di come l’autonomia dei singoli
istituti scolastici richieda un governo nuovo
del sistema, che sappia dare risposte :
·
all’esigenza di definire e sottolineare
un ruolo autorevole e significativo del centro:
un centro che dia indirizzi, con il rigore
e la coerenza indispensabili a collegare le
scelte alle finalità complessive, che sappia
accompagnare, supportare, verificare i processi,
attraverso l’interlocuzione continua e il
coinvolgimento dei vari soggetti: un centro,
ridefinito e riorganizzato, che continui ad
essere centro, ma che sappia superare le categorie
della lontananza e dell’altrove in un equilibrato
rapporto tra autonomie;
·
alla necessità di promuovere
un governo diffuso del sistema che, proprio
perché vede moltiplicarsi i luoghi delle
decisioni – a partire dal nuovo ruolo di regioni
ed enti locali, che hanno, in taluni casi,
anche titolarità a legiferare -, sappia ribadire
ruoli specifici, costruire e consolidare
capacità di rapporto, reciprocità, per superare
la tentazione di riproporre, a livello del
singolo territorio, nuovi dirigismi e nuovi
centralismi.
Sarebbe
stato insomma necessario, preliminarmente,
definire “un profilo globale del sistema e
del suo governo, in modo da non lasciare alle
scuole - in questa delicata fase di sviluppo
dell’autonomia - tutte le incertezze derivanti
da questioni attinenti la ridefinizione del
ruolo dello Stato”.
In
questo contesto, la nuova legge sul federalismo,
che affida allo Stato le “norme generali dell’istruzione”
e investe le Regioni di un ruolo legislativo
“concorrente”, non rischia di aprire la strada
ad una differenziazione di scelte, anche su
questioni decisive per il carattere nazionale
e unitario del sistema? Un tema di riflessione
e di discussione, che sarà trattato nella
tavola rotonda di oggi.
Ma
voglio qui affrontare il tema di cosa possa
significare oggi l’autonomia del sistema
e l’autonomia all’interno delle singole unità
scolastiche.
E
non vedo chiusa la partita con quanti ritengono
l’autonomia veicolo per costruire scuole
di fatto separate che rispondono al singolo
e, di volta in volta, diverso committente,
che ha la libertà di scegliere, come si legge
nei documenti della destra, “anche all’interno
della scuola statale, i percorsi, i gruppi
docenti, le soluzioni organizzative”.
Perciò
occorre continuare a lavorare per l’autonomia
come scommessa di autogoverno, occasione per
costruire regole condivise che diano spessore
alle relazioni formative e valorizzino la
libertà di insegnamento, all’interno di un
progetto più complessivo, unitario e nazionale,
in grado di superare la contingenza dell’interesse
particolare e locale.
L’autonomia,
allora, è un ridisegno di poteri, su cui certo
peserà l’assenza di una riforma degli organi
collegiali, ma è, soprattutto, un riconoscimento
di responsabilità. Presuppone, perciò, la
capacità delle varie componenti, (insegnanti,
capi di istituto, studenti, famiglie, personale
amministrativo), che hanno certo ruolo e peso
diversi su questioni specifiche, di saper
andare oltre la sicurezza delle gerarchie,
di riuscire a comunicare e a modificarsi,
a trasmettersi sapere: rappresenta insomma
la scommessa di far maturare e crescere,
anche attraverso un ineliminabile ma salutare
conflitto, la capacità, appunto, di assumere
e condividere responsabilità. Responsabilità
progettuali culturali e didattiche oggi anche
più cogenti, perché legate a scadenze prossime
come l’avvio del riordino dei cicli e alla
necessità di articolare e arricchire, nei
contesti specifici, le indicazioni curricolari
nazionali.
L’avvio
generoso della sperimentazione dell’autonomia
si è misurato in questi anni, tranne che in
circuiti più avvertiti, con le difficoltà
di utilizzare uno strumento nuovo, come leva
per scardinare dall’interno una struttura
profonda e resistente: la scuola detta simbolicamente
"del programma", "della lezione
frontale". Si è misurato, spesso, anche
con la difficoltà a intendersi sui termini
e sulle interpretazioni: il curricolo come
nuovo modo di nominare il programma o come
scelta di una progettualità culturale e didattica,
che fa riferimento a un sapere ridefinito
nelle motivazioni e nelle finalità e a una
nuova riorganizzazione nella scuola dei percorsi
della conoscenza.
Io
credo che dobbiamo avere una consapevolezza:
che termini come curricolo, come progettazione
curricolare, su cui si è tanto dibattuto in
questi anni, su cui si discute e su cui torneremo
ostinatamente a discutere, fanno riferimento
a una tradizione educativa e didattica con
solide radici, da Dewey in poi, accantonata
e messa in ombra nel nostro paese dalla tradizione,
anch’essa assai nobile, del programma che
però oggi non sempre appare in grado di rispondere
alla sfida democratica, cui non può sottrarsi
il nostro sistema scolastico: non perdere
nessuno, non dimenticarsi di nessuno.
Mi
sembra sia stato saggio che le scelte fatte
da leggi e regolamenti abbiano però tenuto
conto della nostra storia e della tradizione
culturale e didattica della nostra scuola.
Penso alla scelta di indicare alle scuole
il raggiungimento degli obiettivi specifici
di apprendimento relativi a competenze, senz’enfasi
su quest’ultime, proprio perché esse sono
il risultato, che si acquisisce nel tempo,
di una molteplicità non sempre prevedibile
di occasioni di apprendimento.
Quel
che mi sembra importante è riflettere sulla
portata dei cambiamenti che leggi e regolamenti
potranno indurre nella pratica di lavoro
delle scuole, nel rapporto tra loro e nel
loro rapporto col centro.
L’autonomia
si gioca allora qui, nell’incontro tra le
indicazioni curricolari nazionali anche di
contenuto, definite per ora per il ciclo
di base, e le scelte professionali e didattiche
delle scuole, nella loro capacità di scegliere
strade diverse per raggiungere obiettivi comuni
e di commisurarne gli esiti, nella loro capacità
di progettare percorsi, organizzare i tempi,
integrare le discipline del curricolo obbligatorio
nazionale e quelle del curricolo di scuola,
nel costruire, curare, governare l’intero
curricolo della scuola, tenendo conto delle
diversità e specificità di ogni studentessa
e ogni studente, della loro storia, della
loro cultura, dei loro tempi di apprendimento,
dei contesti in cui imparano.
“Il curricolo - è scritto nel documento di
indirizzo - è elaborato dai docenti e non
centralmente dal ministero; non è unico dappertutto
e per sempre, ma è commisurato dai docenti
alla realtà degli allievi e delle singole
realtà scolastiche e ambientali”: una modalità
che non rinuncia né ad un sistema nazionale
di istruzione, né ai contenuti. "Il curricolo
- si legge ancora nel documento - parte dai
contenuti e delinea l’articolato e complesso
processo delle tappe e delle scansioni dell’apprendimento;
contenuti che sono non tanto guida dell’insegnante
ma via per far conseguire ad allieve e allievi
conoscenze solidamente assimilate e durature
nel tempo”.
Una responsabilità progettuale forte delle
scuole, una richiesta alta alla professionalità
docente, un’idea matura e concreta di libertà
di insegnamento, ma insieme una responsabilità
del centro non solo nel controllare, ma anche
nell’indirizzare percorsi e processi, nel
ribadire finalità complessive e nazionali,
nel promuovere quel governo diffuso del sistema,
di cui prima parlavo.
E
si gioca in questo rapporto un’idea della
cultura e del sapere della scuola.
10.Idee
per riprogettare la scuola
Un
sapere che deve misurarsi da un lato col patrimonio
di conoscenze, che danno valore, identità,
fisionomia alla storia del paese, e che ogni
società ha il compito di consegnare alle generazioni
successive, dall’altro con l’impossibilità
di proporsi come nuovo monumento del sapere,
che possa valere per altri cento anni.
Sappiamo
bene che il sapere non può essere definito
una volta per tutte, come illusoriamente
in passato si è pensato potesse avvenire,
che oggi nella scuola si ricostruisce a partire
dalle esperienze e dalle storie di ognuna
e ognuno, che deve avere come obiettivo quello
di moltiplicare le prospettive conoscitive
e di fornire chiavi di interpretazione della
realtà, secondo il metodo della ricerca, riservando
una forte attenzione alla prospettiva storica
e alla dimensione problematica dei percorsi
che hanno portato alla sistemazione attuale
delle conoscenze.
Perciò
è stato importante che i criteri di costruzione
delle indicazioni curricolari abbiano fatto
riferimento a quelle finalità del sistema
che - si legge nel Piano di attuazione-, a
partire dall’attenzione “alla crescita e alla
valorizzazione della persona " (art.1,
L.30), si propongono di formare menti aperte
e critiche, in grado di leggere e interpretare
la realtà, di comprenderne i cambiamenti,
di orientarsi in essa “secondo ragione”, attraverso
l’esercizio continuo del collegare i fatti
ai loro nessi causali e di saperli collocare
nel tempo e nella storia; di saper restituire
senso e significato a esperienze e apprendimenti
che si acquisiscono anche fuori della scuola;
di imparare a rapportarsi e a confrontarsi
con la pluralità e la ricchezza delle differenze
e delle diversità. Passa da qui la possibilità
di costruire un sapere laico, premessa e condizione
di un’etica pubblica condivisa.
Se
vogliamo, allora, cominciare a dar senso e
concretezza a uno slogan felice, “la
formazione alla cittadinanza”, dobbiamo ripartire
da qui, dalla possibilità, come sostiene Andrea
Bagni, di ricostruire “tensione” tra l’istituzione
e le culture che l’attraversano.
“Il
modo stesso di proporsi e organizzarsi della
scuola - si legge nel documento - porta gli
alunni a saper vivere insieme nella diversità
della classe e dei gruppi di apprendimento;
a maturare progressivamente abitudini di rispetto
reciproco e di partecipazione alla vita della
scuola, a operare insieme per l’attuazione
di obiettivi e di finalità condivisi e progettati
insieme, a saper discutere di comportamenti,
di idee, di bisogni, di diritti e di valori,
a mano a mano che emergono nel corso della
vita e dell’apprendimento scolastico”.
E
la scuola diventa luogo, allora, di costruzione
di valori comuni proprio nell’incontro con
quegli oggetti della conoscenza e con quelle
modalità dell’apprendere, che di più abituino
al ragionamento e alla consapevolezza, a praticare
il dubbio e la curiosità, a collegare l’esperienza
alla riflessione, a sviluppare criticità ma
anche a costruire un senso di sé e del mondo.
"Sembravano
difficoltà ed erano opportunità", avrebbe
detto Giambattista Vico.
L’opportunità
allora di valorizzare le contiguità tra discipline:
“il termine 'disciplina', pur implicando l’appartenenza
di concetti, linguaggi e procedure a specifici
settori non significa tuttavia rigida delimitazione.
E non significa rigida delimitazione nella
scuola come non lo significa nei livelli più
alti e complessi della ricerca dove, come
si sa, le innovazioni significative nascono
dal contaminarsi di settori scientifici diversi,
dove l’intelligenza umana conosce problemi
e non facoltà e cattedre separate”.
L’opportunità
di concorrere alla maturazione di competenze
comuni, cosiddette trasversali, valorizzando
l’interazione tra punti di vista, modi di
leggere la realtà, e modi diversi di fare
e operare, specifici di ogni settore disciplinare.
Ad esempio intuire e immaginare, risolvere
e porsi problemi, operare scelte in condizioni
di incertezza se sono modi del ragionare abituali
in ambiente matematico possono essere applicati
ad altri contesti e diventare abitudini di
pensiero più complessive.
L’opportunità
di costruire percorsi di apprendimento ricchi
di occasioni operative, di attività laboratoriali,
anche di concrete esperienze di lavoro.
L’opportunità,
infine, di governare di una conoscenza le
interdipendenze con le altre discipline, le
implicazioni storiche sociali e politiche,
i valori di riferimento.
Parleremo
domani di come le indicazioni per la scuola
di base ragionino del passaggio, nel percorso
del sapere, tra ambiti e discipline, tra esperienza
e sistema organizzato delle conoscenze. Parleremo
anche di come sia sempre più necessario oggi,
anche nella scuola secondaria, anche nelle
materie di indirizzo, costruire percorsi culturalmente
forti, che permettano la conoscenza, la comprensione,
la concettualizzazione di fatti e fenomeni
attraverso ogni campo disciplinare, e in ognuno
di essi. E di come questo tipo di formazione
possa assicurare una preparazione culturalmente
forte, in grado di affrontare meglio ogni
specializzazione successiva.
Problemi
che si intrecciano strettamente con la definizione
della fisionomia della secondaria, del suo
profilo di uscita, del suo raccordo con i
percorsi successivi, del suo rapporto con
i percorsi previsti dall’obbligo formativo.
In
conclusione, le indicazioni curricolari per
il primo ciclo disegnano una scuola che, in
continuità con la scuola dell’infanzia, intende
consolidare i saperi di base, a partire da
quelli fondamentali, necessari per affrontare
ogni successivo apprendimento e indicano,
al tempo stesso, linee di sviluppo per l’intero
percorso.
Una
scuola che potenzia il sapere matematico,
scientifico, tecnologico, tradizionalmente
carenti nella nostra scuola; arricchisce la
conoscenza e la capacità d’uso della propria
lingua e delle lingue europee moderne, con
una forte attenzione alla lingua madre di
bambine e bambini di altri paesi; entra con
forza nella molteplicità dei linguaggi - da
quelli verbali a quelli del corpo, a quelli
della musica, a quelli dell’immagine - e delle
espressioni artistiche, rafforza lo spessore
storico di ogni disciplina, promuove l’acquisizione
del senso della storia, affronta “lo studio
della convivenza umana in tutte le sue dimensioni:
lungo l’asse cronologico, nello spazio geografico,
nel contesto sociale”. Una scuola dove la
dimensione della manualità e dell’operatività
-il fare e il saper fare, il saper controllare
gli strumenti -, la dimensione della problematicità
- saper usare sistemi di ragionamento, imparare
a porre e a porsi interrogativi -, la dimensione
del confronto - interazione con culture, soggetti,
punti di vista - la dimensione della responsabilità
di tutti i protagonisti della vita della scuola
diventano strumenti per motivare all’apprendimento
e anche per accettarne le regole più faticose,
strumenti per interiorizzare e fissare le
conoscenze. Per renderle vive e vitali e
durature nel tempo.
Una questione sul curricolo di storia.
C’è una forte critica di una parte degli storici
al curricolo di storia presente nel documento,
critica che mette in discussione proprio le
risposte che esso dà a esigenze da tempo
maturate sul terreno della ricerca e su quello
della didattica. La scelta di una storia come
storia del mondo non è una dimensione che
consente di superare i vari punti di vista
nazionalistici e di fondare un’educazione
multiculturale per una cittadinanza responsabile?
E ancora, non convince - e perché? - l’idea
di uno studio della storia che parta da approcci
diversi a seconda delle età; non convince
- e perché? - il fatto che lo studio della
storia generale si concluda con lo studio
della contemporaneità nell’ultimo anno dell’obbligo
scolastico?
Ecco, sarebbe importante che si avviasse,
dalla lettura delle indicazioni curricolari
sia nella parte di premessa sia in quella
relativa ai percorsi specifici, una discussione
complessiva, assai importante anche per la
prosecuzione dei lavori per la scuola secondaria,
che ragioni su come ripensare, ricomporre,
ricostruire il terreno su cui si esercita
la conoscenza nella scuola. Si tratta di trovare
insieme, docenti e studenti, anche a partire
da ciò che irrompe disordinatamente e quotidianamente
nella vita di tutti, in dimensioni diverse
e per strade diverse -la fiction, le
informazioni, i conflitti- il filo di un ragionamento,
le chiavi attive di interpretazione del presente
e del passato, nella storia come nella scienza,
e in ogni altro campo disciplinare.
11.Un
alfabeto con 5 vocali: non basta la "i"
Troppa
roba , come ha detto qualcuno. Troppa roba
certo se si continua a partire dal quadro
dei saperi e non dalle loro connessioni e
interrelazioni, dalla necessità di collegare
le conoscenze e di dar loro senso, attraverso
percorsi che permettano di "introdurre
gradualmente le alunne e gli alunni alle discipline
e abituarli a usare modi per loro nuovi di
elaborare curiosità, esperienze e conoscenze".
Impareranno
le bambine e i bambini, le ragazze i ragazzi
l’inglese e l’informatica? Certo sì, ma basterebbe?
L’obiettivo più importante non è quello di
arricchire la mente e di imparare a ragionare,
di avere un’idea del mondo, facendo, come
suggerisce Giorgio Bini, “esperienze vaste
e disinteressate e se fosse possibile cominciando
ad apprezzare la bellezza di quegli apprendimenti
che non servono a nulla”? Una cultura che
diventa possibilità di interpretazione del
mondo, di conoscere e riconoscere gli altri,
di scambiarsi sapere.
“Oggi
dobbiamo dare bussole - diceva Tullio De Mauro
al nostro Convegno di Bologna di qualche anno
fa -, dobbiamo dare punti cardinali. Serve
acquisire e far acquisire la capacità di muoversi
entro lo spazio culturale in cui ci collochiamo.
Serve dare la capacità, la voglia e il gusto
di sapersi muovere tra le forme più immediate
di cultura, quelle più vicine a noi e le
forme più remote e aliene, tra le forme più
rudimentalmente immediate e le forme più complessamente
costruite, tra le forme affidate a questa
o a quella tipologia di produzione e ricezione,
dalla manualità alla lettura, dalla visualità
e plasticità al silente e astratto ragionare.”
L’inglese
certo, ma anche il possesso pieno della lingua
a partire dalla propria - è la lingua che
fa eguali -, per liberare il pensiero. L’informatica
certo, ma sollecitando studio e ricerca sul
potenziale cognitivo delle tecnologie, sulla
loro capacità di aiutare, forse modificare
le nostre capacità di conoscenza e comunicazione.
12
.Nuovi profili dell’insegnare
Le
indicazioni curricolari, la novità che può
spaventare ma anche contribuire a ridare un
senso al lavoro nella scuola, non sono il
curricolo: avviano il percorso, si affidano
perciò alla capacità progettuale, alla sensibilità,
alla sensatezza, alla maestria dei docenti
come singoli e come collettività.
Nel
Piano di attuazione del riordino dei cicli
si parla di un docente colto, riflessivo,
competente non solo in relazione ai saperi,
ma alle metodologie, alle relazioni, agli
strumenti e agli ambienti di apprendimento.
Ma su questi terreni, e da tempo, i docenti
hanno già lavorato, misurando il loro sapere
con nuovi e antichi bisogni di conoscenza
e di affettività, in alcuni casi con vere
e proprie emergenze educative e sociali, mettendo
in discussione, nei fatti, vecchie e consolidate
certezze, obsoleti modelli trasmissivi.
La capacità progettuale di tante e tanti
si è concretizzata in pratiche ormai consolidate,
nell’attuazione di innovazioni significative,
a cominciare dagli anni ’70.
La
centralità della persona che apprende, l’attenzione
al processo dell’apprendere e non solo ai
suoi risultati, l’idea dell’insegnante come
regista del processo di costruzione della
conoscenza, tutti temi presenti già nella
legge 30 e ribaditi dal piano di attuazione
e da tutti i documenti successivi, raccolgono
e consolidano pratiche, un patrimonio di
pensiero e di operatività della migliore tradizione
della nostra scuola, mettono alla prova certezze
e acquisizioni di un modo di intendere la
professione docente, già ampiamente sperimentato.
Raccogliere
e ricollocare, anche in questo caso. Ma qual
è l’elemento che qualifica il nuovo contesto?
Io credo che sia proprio nella capacità della
scuola di essere istituzione centrata sull’”autonomia
di ricerca, sperimentazione e sviluppo”, come
afferma l’art. 6 del Regolamento dell’autonomia
organizzativa e didattica, insomma di
essere soggetto primo di ricerca sul sapere
e sulla didattica. In questo diventare protagonista
di scelte culturali, curricolari e didattiche,
verificandone e valutandone la qualità e
l’efficacia, nel saper proporre in modo radicalmente
nuovo i modi e le forme della sua formazione
in servizio, la scuola diventa interlocutrice
autorevole delle strutture di supporto dell’autonomia:
centri territoriali, attività di Istituti
regionali, della Biblioteca pedagogica, dell’Istituto
nazionale per la valutazione. In caso contrario
sarà costretta a inseguire ancora una volta
quello che si decide altrove o a rinchiudersi
nella vecchia, e a volte rassicurante, consuetudine
all’autoreferenzialità.
Non è una partita facile. Ma è la maggior
parte degli stessi insegnanti - come rileva
il secondo Rapporto Iard sulla condizione
docente - a pensare che passa da qui la
“possibilità di recupero di una professionalità
che si ritiene perduta o di conquista di una
professionalità che forse non è mai esistita”
La
professione docente, nel contesto della scuola
dell’autonomia, richiede non meno o più lavoro,
ma lavoro diverso. Richiederebbe ad esempio
che fossero semplificate alcune procedure.
Meno carte e più confronto tra pari che hanno
in comune progetto, interessi, obiettivi.
Richiederebbe
l’ individuazione di luoghi , tempi, modalità
(per gruppi di ricerca, per aggregazioni disciplinari,
in quali orari, in quali spazi) per realizzare
nelle scuole la progettazione didattica, la
riflessione sul lavoro. Si tratta di trovare
strade per sciogliere nodi che appaiono assai
aggrovigliati, ma ne parleremo domani. Ad
esempio, come far convivere, come valorizzare
e armonizzare, in un lavoro comune nella scuola
di base, soprattutto dal terzo al quinto anno,
professionalità, competenze, sensibilità diverse.
Strade percorribili a patto che ci siano strutture
adeguate e funzionali, ambienti di apprendimento
efficaci, un organico dei docenti che sia
ricchezza e risorsa. Tutto questo richiede
scelte politiche e atti legislativi e regolamentari,
per esempio, in fatto di reclutamento, di
prima formazione, di formazione in servizio,
di modifica dell’inquadramento professionale,
a partire dalla necessità di un ruolo unico
per tutti gli insegnanti.
Dobbiamo
allora ripartire da qui: dall’intrecciare
il ragionamento sulla professione con quanto
ad essa chiede la scuola, che - se intende
valorizzare le differenze e combattere le
disuguaglianze - deve trovare le strade per
farlo.
Si
tratta di capire come realizzare una scuola
che riorganizza i tempi, che ragiona di lezioni
frontali e di attività laboriatoriali, che
presuppone gruppi di ricerca e progettazione,
che propone e realizza attività nel piano
dell’offerta formativa, che lavora all’integrazione
della quota nazionale del curricolo e della
quota riservata alle scuole, valorizzando
tutte le competenze presenti e le specifiche
capacità di ognuna e ognuno. Troppe geometrie,
troppe procedure, troppi rischi di accelerare
e irreggimentare? Ma il rischio non è anche
quello contrario: che le innovazioni, senza
il rispetto dei tempi del lavoro retrostante,
senza l’intelligenza del governo dei processi,
restino formule vuote, sperimentalismi senza
progetto, termini che rapidamente deperiscono?
Non
so se c’è altra strada, se non quella della
responsabilizzazione di ogni soggetto, della
valorizzazione di ogni funzione per fare in
modo che tutto concorra alla sapientia
del lavoro d’aula, alla capacità di costruire
relazioni, apprendimento, scambio, desiderio
di sapere e capire; cuore e intelligenza di
un luogo dove la scommessa è di insegnare
e imparare ad ascoltare il senso del proprio
tempo e della propria responsabilità, dove
si deve chiedere a ognuno di rendere conto
del suo operato. Con tutta la difficoltà,
che ogni insegnante conosce, di andare spesso
controcorrente rispetto a una società che
sembra sottovalutare l’importanza di abituare
per tempo alla disciplina e alla fatica dell’imparare.
E
allora valutare e verificare sono solo procedure
burocratiche, amministrative o possono diventare
operazioni per capire tutti insieme “se va
bene fare quello che stiamo facendo”, diventare
strumenti di lettura, ma anche di trasparenza
dei percorsi, per governarne le difficoltà;
chiavi di interpretazione dei successi e degli
insuccessi di studentesse e studenti, per
chiamare anche loro e le loro famiglie a responsabilità;
accertamento dei livelli raggiunti per garantire
il diritto all’apprendimento, trovando modi
differenziati di recupero per quanti restano
indietro?
Articolare
il lavoro e finalizzarlo a un progetto complessivo
di scuola, dunque. E anche sull’articolazione
del lavoro, sul suo governo si misura la
forza professionale dei docenti e delle sue
rappresentanze, la capacità di interagire
con il diverso livello di responsabilità dei
dirigenti scolastici. Certo proprio la ricchezza
e la complessità del mestiere dell’insegnare,
un artigianato alto, lo rende irriducibile
all’idea che capacità di ricerca, capacità
didattica, capacità di organizzazione più
complessiva - ognuno è o sarà più portato
per ciascuno di questi aspetti - possano essere
considerati gradini di una carriera.
Ma
è vero anche che occorre trovare criteri plausibili,
trasparenti, condivisi (il tempo, l’esperienza,
alcuni profili giuridici particolari, alcuni
compiti specifici) per ragionare di uniformità
o meno di retribuzioni, senza accanirsi sull’idea
che, in un lavoro così particolare, si possa
far diventare scala retributiva una certificazione
di qualità, che, come si sa, nei processi
complessi può migliorare o peggiorare in maniera
assolutamente imprevedibile.
E
allora quanto e cosa di questo lavoro possa
essere segmentato, contrattualizzato, e in
che maniera, è questione aperta e di questo
occorrerà ragionare nell’avvio del prossimo
contratto, individuando luoghi, sedi comuni
di una riflessione sulla professione così
come oggi si configura, e sulle forme della
sua rappresentanza.
E
di tutto questo parleremo domani.
12.
Un’idea di futuro
Sono
convinta, in conclusione, che in questo difficile
passaggio la scuola democratica saprà giocare
le sue risorse: l’ardire del nuovo, la tenacia
del cammino, l’immediatezza del fare, l’ostinazione
del costruire, la tensione del ricercare. E
saprà collegare il senso profondo del cambiamento
con la scommessa della qualità.
Ma
sappiamo tutti che sulla scuola si gioca un’idea
di società e un’idea di futuro. È questo che
ne fa una frontiera strategica per la democrazia,
in una fase in cui le idee neoliberiste manifestano
esplicitamente la volontà di ridurre al mercato
l’informazione, la formazione, l’istruzione,
gli stessi diritti sociali.
Noi
insegnanti, così come gli altri protagonisti
sociali della vita della scuola, sappiamo
di avere in questo momento un compito assai
delicato: tenere ben radicati i valori della
scuola “secondo Costituzione” e lavorare alla
realizzazione dei processi di riforma.
E
questo impegno avrà senso ed efficacia se riusciremo,
col nostro lavoro e con la nostra partecipazione,
a rompere il silenzio sociale sulla scuola.
Un silenzio a volte perforato da un chiacchiericcio
disinformato e inconcludente, che accentua la
condizione di solitudine della scuola stessa.
Ma
una sfida culturale che ha per tema l’idea
della democrazia non possiamo affrontarla, né
vincerla da soli.
A noi spetta, e non ci stancheremo di
farlo, segnalare il valore della posta in gioco,
fare domande stringenti alla politica e pretendere
che le prospettive dell’istruzione e della formazione
siano messe al centro della partita che si apre.
“In un momento - dice Edgar Morin – in
cui i fattori aleatori e l'incertezza condizionano
gli inizi e gli sviluppi, in cui l'iniziativa
e l'intelligenza ritornano ad essere i fattori
del gioco, allora ognuno di noi deve sentirsi
particolarmente coinvolto, laddove egli si trova,
nel suo luogo specifico.”
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