Cidi (centro di iniziativa democratica degli insegnanti)

29° Convegno nazionale

Ferrara, 22, 23, 24 marzo 2001

 

Alba Sasso

Il senso delle riforme

1.Il respiro del lungo termine

Perché questo titolo, perché "il senso delle riforme"? Un obiettivo ambizioso, forse, che nasce dalla volontà di cercare  il filo, le motivazioni forti di questa stagione di riforme, e insieme di capire i collegamenti, di riconnettere i percorsi, di ripercorrere il cammino faticoso, col suo carico di ambiguità, di ostacoli, di resistenze; che nasce dalla necessità di capire  quali strade,  risorse, soggetti, strategie possano favorire il buon esito delle riforme stesse; che nasce, infine, dal bisogno di confrontarsi con le domande che questa società pone al sistema dell’istruzione e della formazione.

Ed è da quest'ultima questione che mi pare necessario ripartire.

E dunque: la scuola oggi, il sistema formativo nel suo complesso, può essere la risposta a bisogni di sapere individuali ed effimeri, quel che serve ora e qui? "Poche chiacchiere - hanno detto lo scorso anno gli studenti dell’Università Federico II di Napoli, durante una cerimonia che ricordava gli insegnanti ebrei di quella Università allontanati dal loro posto dalle leggi razziali del 1938 -, a noi queste storie del vostro passato non interessano. Noi siamo qui per imparare quello che ci serve per lavorare."

Ma a questa chiusura, a questa disperazione basta rispondere che la scuola non deve essere solo funzionale ai mestieri e alle professioni o all'economia o allo sviluppo - "no alla scuola dell’addestramento" hanno detto gli studenti dell’Università cattolica di Milano, contestando De Mauro -, se non si dice a che cosa deve servire il sistema formativo oggi, in una società che  rischia di smarrire il “respiro del lungo termine”? "In piena crisi sociale e di idee e di metodologia - dice Rossanda - vince l'idea comune e semplificata che la scuola si può attraversare anche distrattamente, inglese e informatica appunto, solo per approdare al lavoro". Ma questa non è già  una scelta che delinea un’idea di società? Non è una forma di addomesticamento a una non interrogata ma asseverata modernità? E in che modo si interroga sul lavoro, sulla sua identità e qualità? Non appare così già risolta la domanda di quale sia il ruolo dell’istruzione e della formazione ?

Secondo Bill Gates, alfiere di un’economia neoliberista - come ricordava Vittorio Capecchi al nostro convegno dello scorso anno - l’istruzione è sicuramente l’investimento più importante nell’economia di un paese, a patto però che la tecnologia informatica diventi il nucleo dell’esperienza didattica. L’insieme dei saperi sociali è considerato inutile rispetto ai saperi tecnico-scientifici, e di questi importanti solo quelli immediatamente utilizzabili dalle imprese. In altre parole scuola, università, formazione professionale dovrebbero essere direttamente o indirettamente orientate alle imprese.

Nell’ottica neoliberista, l’innovazione tecnologica, piuttosto che essere orientata a migliorare le condizioni e la qualità della vita, diventa strumento di una competitività dell’impresa, che nel libero mercato, appunto, si indirizza laddove i profitti sono ritenuti maggiori.

Un modello di cultura e di economia che suggerisce, propone ogni momento, anche attraverso la complicità dei mezzi di comunicazione di massa, stili di vita e comportamenti improntati all’egoismo, all’individualismo, all’aggressività e al razzismo. Mai come in questo momento appare profetico quanto denunciato nel 1931 da A. Huxley: “Nell’era della tecnologia avanzata il maggior pericolo per le idee, la cultura e lo spirito potrebbe venire da un nemico dal volto sorridente, piuttosto che da un avversario che ispiri odio e terrore”.

La suadente modernità della proposta delle "tre I' - impresa inglese  e informatica - può allora avere forza di attrazione anche tra coloro che non hanno affinità ideologica col modello neoliberista e con la proposta politica che lo rappresenta: genitori e famiglie attratti dalla linearità di un percorso in fondo al quale c’è lavoro, se non per tutti, almeno per i propri figli, spinti, purtroppo anche défaillances della scuola statale, a sognare un gratuito “servizio a domanda individuale”. Attratti infine dall’idea mitica e salvifica di avere libertà di scegliere, di decidere, forse condizionare la formazione dei propri figli. Ma per questa strada si rimpicciolisce il mondo, se ne amputano i collegamenti, si restringe un legittimo bisogno di cambiamento al soddisfacimento di un interesse personale e privato.

E proprio a partire dal rifiuto di una  visione sociale e solidale rischia di attecchire la complessiva proposta neoconservatrice, nella quale  il decentramento regionale  diventa strumento, attraverso la politica di devolution e del buono scuola, di differenziazione e gerarchizzazione dei percorsi e degli obiettivi formativi, persino delle modalità di reclutamento e licenziamento degli insegnanti e dei loro livelli retributivi, di messa in discussione della libertà di insegnamento: insomma, di sostanziale smantellamento dell’identità nazionale e del carattere pubblico del nostro sistema scolastico.

2.La difficile ricerca di un mandato sociale

In una società, in cui sembra autoritario e vetero-statalista non prostrarsi alla domanda prepotente dell’utente - o meglio del "cliente" - credo che sia invece tenacemente, ostinatamente necessario costruire, continuare a costruire un sistema nel quale sia la collettività nelle sue forme di rappresentanza istituzionale – la res pubblica - a decidere, a governare e indirizzare i processi senza arrendersi alle logiche individuali e del mercato. Accettare l’idea del "cliente" non finisce, insomma, con l'accondiscendere a che il progetto dell’istruzione guardi all’immediato, risponda al committente singolo, proponga una logica di competizione -  riuscire meglio degli altri, magari al posto loro -, cancelli ogni idea di interesse generale, rinunci a ogni sollecitazione di futuro?

Lo so. Non è dalla scuola che si può condizionare un modello di sviluppo, ma sono convinta che c’è, ci deve essere, uno spazio di intervento tra questa consapevolezza e la convinzione che  non si possa opporre nulla all’idea, quasi un’imbattibile legge di natura, di una società dove “uno su mille ce la fa”, alla società definita dei 4/5, un quinto di popolazione mondiale vincente, realmente necessario per far funzionare la macchina mondiale, e 4/5 di perdenti, eccedenti, effimeri su cui scaricare i capricci del mercato.

Se questo spazio non ci fosse, se introiettassimo l’idea di questa società come l’unica possibile nella modernità corrente, non resterebbe che l’accettazione di quel modello o solitarie  vie di fuga.

Come se ne esce? Il sistema formativo inglese o americano, con percorsi di fatto separati - uno per i futuri vincenti, basato su solide conoscenze alfabetiche, il secondo prevalentemente socializzante, per tutti gli altri -, non ha funzionato. Non ha funzionato, perché il tasso di cosiddetto analfabetismo di ritorno in quei paesi è assai alto e preclude la possibilità di accesso al sapere, al lavoro e alla democrazia di milioni di individui. E non ha funzionato neanche per i primi, i vincenti, se è vero che le Università americane sono piene, ai massimi livelli della ricerca, di orientali e di europei, se è vero quanto racconta Bret Easton Ellis dell’afasia e della disperazione di una generazione, che ha tutto, può consumare tutto e non riesce a desiderare più niente.

Ma non se ne esce nemmeno rinchiudendosi nella cittadella assediata: affidandosi solo al lavoro sommesso, prezioso e continuo di chi costruisce nella scuola complesse relazioni di affidamento e di cura, indubbiamente finalizzate alla crescita e alla formazione di donne e uomini. Anche gli intellettuali di Farheneit 451, superstiti al rogo dei libri, custodivano memoria preziosa, ma erano prigionieri della stessa società della quale si mettevano o venivano messi ai margini.

Certo, se fosse questo e solo questo il modello di sviluppo, perché farsi carico degli ultimi e dei penultimi? E d’altra parte, si dice,  anche quando il sistema se n’è fatto carico, come nella nostra tradizione di scuola della Costituzione, non ha risolto proprio questo problema. Continuando a produrre dolorosamente selezione, dispersione, abbandoni.

E qui torniamo al punto in discussione. In fondo l’unico aspetto che veramente è stato messo in discussione della riforma Gentile è il fatto che per molti anni la scuola italiana non ha più avuto un preciso mandato sociale. Cosa che ai tempi di Casati e Gentile aveva. Un compito di alfabetizzazione ai primi livelli dell’istruzione, “istruire quanto basta, educare più che si può”, un compito di formare la classe dirigente del paese, attraverso una gerarchia di saperi e  di percorsi scolastici, con l’idea di ricostruire e consolidare attraverso la scuola la nomenclatura sociale e le sue gerarchie. 

Allora in che modo si contrasta e ci si  oppone a questo modello, a quest’idea della società, della cultura  e del lavoro?

3.La scuola: risorsa per l'economia o risorsa per la democrazia?

Permettetemi di scorrere velocemente alcune questioni, già più volte trattate nei nostri convegni, e che hanno costituito lo sfondo di riferimento politico e culturale del panorama riformatore di questi ultimi anni.

Già nel '93, il Libro Bianco dell'Unione Europea sottolineava come le competenze fondamentali, indispensabili all'inserimento sociale e  professionale debbano comprendere “un'acquisizione completa sia delle conoscenze di base (linguistiche, scientifiche, ecc.), sia delle competenze a carattere tecnologico o sociale: capacità di muoversi e di agire in un ambiente complesso e ad alta densità tecnologica, caratterizzato, più in particolare, dall'entità delle tecnologie  informative; capacità di comunicazione, di contatto e di organizzazione; insomma e anzitutto la capacità fondamentale di acquisire nuove conoscenze e nuove competenze, di imparare  ad imparare per tutto il corso della vita”. Certo il documento, secondo l’ottica che è risultata dominante in questa fase di realizzazione dell’Unione europea, sembra, in qualche modo, privilegiare la logica dell’impresa, e perdere di vista la centralità delle persone. Soprattutto quando vi si afferma che lo sviluppo delle capacità di adeguamento degli individui si rivelerà sempre più necessario sia alle imprese, per avvalersi al meglio delle innovazioni tecnologiche da esse acquisite o messe a punto, sia agli individui stessi: una parte importante dei quali rischia di dover cambiare attività professionale quattro o cinque volte nel corso delle vita attiva.

E c’è da chiedersi quanto questa ispirazione di fondo abbia influenzato le politiche dei governi europei sul terreno dell’istruzione e della formazione.

Eppure resta importante che in questo documento sia ribadito il ruolo autonomo della formazione. E che la scuola sia considerata non solo un passaggio verso l'esperienza del lavoro, ma luogo di osservazione e riflessione sul cambiamento, dove si costruisce - attraverso la capacità di leggere e interpretare la realtà - la coscienza civile e democratica del paese. Insomma risorsa, certo, per l’economia, ma soprattutto risorsa per la democrazia.

Non è allora soltanto necessario sapere di più, ad ogni livello della vita scolastica e della vita in generale; è necessario ripensare profondamente a quale sapere serve, e ragionare di come la necessità di una formazione permanente ridisegni i profili e l’identità dei sistemi di istruzione, che dovranno accompagnare ogni cittadina e ogni cittadino per l’intero arco della sua vita.

Ma per ritornare più volte a scuola nel corso della vita, per acquisire le competenze richieste dalla celerità del progresso scientifico e dall’innovazione nel settore tecnologico, per gestire ad esempio nuove macchine, per farle lavorare, è necessario avere acquisito e metabolizzato solide competenze di base. "La capacità intellettuale crea nuove tecnologie - sostiene Lester Thurow -, ma sarà il lavoro qualificato la base che consentirà di impiegare le nuove tecnologie di processo e di prodotto generate." Più conoscenze e competenze in ogni posizione lavorativa, dunque. "Ad esempio - sostiene ancora Thurow-, per poter svolgere le proprie mansioni, ogni lavoratore deve avere un livello di conoscenza della matematica di base molto superiore a quello posseduto dalla maggior parte dei diplomati delle scuole superiori. Senza controllo statistico della qualità, oggi i semiconduttori ad alta densità non possono essere fabbricati. Possono essere ideati, ma non fabbricati”.

Certo, qui c’è un intreccio vero tra le scelte dell’economia e quelle della formazione, che insieme possono prefigurare un modello di società piuttosto che un altro. Sicuramente trasformare il livello qualitativo del sapere, garantire il diritto a una formazione qualificata per tutti è questione che pesa – ed in modo rilevante - sulla qualità del sistema produttivo. Una struttura economica, che si fondi in modo diffuso sul lavoro dequalificato, come sembra essere  l’economia del nostro paese, soprattutto in alcune aree geografiche, rischia di diventare - nello stesso tempo- una realtà debole e marginale, collocata in posizione subalterna nella divisione internazionale del lavoro. Ma si tratta, ancora, di ragionare su quale risorsa per l’economia e la democrazia possano rappresentare donne e uomini, che sappiano attraversare e riattraversare continuamente i percorsi dell’apprendimento, perché ne hanno i requisiti di accesso, che sappiano vivere da cittadini fruitori e produttori (per citare un vecchio slogan del Cidi), perché hanno consolidato gli strumenti per capire, interpretare, scegliere, progettare. E soprattutto perché hanno imparato a metterli in discussione.

E’ su questo terreno che ritorna prepotentemente in primo piano il nodo decisivo dell’istruzione come risorsa per la cittadinanza democratica, come strumento possibile per contrastare un modello di sviluppo insostenibile e incontrollato dai più.

Se dunque la società della conoscenza si propone come luogo di sviluppo, salvaguardia, condivisione dei beni comuni rappresentati dalle conoscenze e dai saperi, non solo appare appunto obsoleto continuare a proporre separatezza tra cultura disinteressata e cultura del lavoro, ma diventa necessario un sistema dell’istruzione e della formazione continua,  che sappia rispondere a bisogni nuovi di apprendimento, come ai bisogni antichi di sicurezza e di stabilità, riuscendo a coniugarli con le mutazioni profonde che nel nostro presente e nel nostro futuro sono indotte e determinate dalla nascita della società dell’informazione e dallo sviluppo della civiltà scientifica e tecnica.

Perché se ognuno di questi  fattori apre nuove possibilità nei processi di organizzazione del lavoro, e dei sistemi di istruzione, allo stesso tempo porta con sé il rischio di nuovi e più drammatici processi di esclusione  tra coloro che sanno e coloro che non sanno, processi che rischiano di sommarsi alle già acute differenze sociali,  moltiplicandole in modo doloroso e irreparabile. Diventa allora scelta di democrazia quella di un paese che riesce a garantire livelli diffusi di istruzione al più alto numero di cittadini, combattendo l’idea che la formazione serva a selezionare i migliori, piuttosto che a intercettare e valorizzare le capacità specifiche di ognuna e ognuno. Ed è scelta di democrazia quella di un paese che riesce a combattere le disuguaglianze che, attraverso quest’idea dell’istruzione, si riproducono nella scuola e attraverso la scuola, tra coloro che hanno accesso alla competenza che conta e coloro che ne sono esclusi.

4.Una leva per ridurre le diseguaglianze

Ecco, di fronte alla molteplicità del cambiamento, o la scuola diventa  strumento per disegnare un progetto più evoluto e solidale di organizzazione sociale o la formazione finisce con l’assecondare un processo di destrutturazione sociale. Credo che sia questa oggi la posta in gioco, nel nostro come negli altri paesi.

È questo lo sfondo che ridefinisce la missione fondamentale del sistema dell’istruzione e della formazione nella società contemporanea. Non è facile oggi ragionare di finalità  univoche e semplificate, come nel secolo passato, quando il mandato era quello di formare i cittadini dello stato nascente attraverso l’unificazione linguistica del paese, la lettura risorgimentale del concetto di patria, l’immaginario letterario, che ne  consolidava emotivamente identità e appartenenze; e l’obiettivo era quello di rafforzare, attraverso la struttura organizzativa della scuola,  le rigide gerarchie di quell’Italia.

Ma oggi, a cinquanta anni dal dettato costituzionale che considera l’istruzione fattore di decondizionamento sociale, dopo gli interventi degli anni '60 e '70 volti a rendere quel sistema più equo, meno classista e diseguale, di fronte al sistema attuale, dichiarato ingenerosamente dai media dequalificato e lassista,  occorre ragionare di un principio educativo di formazione alla cittadinanza, nel quale la cultura non sia intesa solo come “capacità di capire i cambiamenti in corso e di adattarvisi”. Ma sia intesa come occasione per  formare donne e uomini in grado di pensare criticamente, di avere conoscenze e  strumenti di interpretazione, di rifiutare le certezze affrettate e il pensiero semplificato, di conquistare una disciplina mentale sicura. Un principio educativo secondo il quale diventare cittadini di un mondo più vasto significhi un dialogo costante con le altre e con gli altri, dove la valorizzazione delle differenze serva a rendere ognuno e ognuna  forte del dialogo e del rapporto  con altre storie e altre culture.

Insomma per ripartire dai soggetti, dalle persone per tener conto delle diversità, senza che tutto questo diventi deregolamentazione del sistema, “appropriazione privata delle conoscenze”, c’è bisogno di un sistema scuola che riesca a garantire  obiettivi  e livelli di qualità per tutti, imparando a governare la ricchezza dei percorsi e delle scelte.

5.L'itinerario delle riforme

Il piano di riforme, presentate e già in gran parte  avviate in questa legislatura va nella direzione di una scuola che attua il dettato costituzionale - "rimuovere gli ostacoli per un’effettiva uguaglianza" -? Cerca di farsi carico della qualità della scuola di tutti, intende  coniugare qualità e democrazia: nel senso di affrontare i temi dell’inclusione e dell’esclusione, dei diritti di cittadinanza, del ruolo dei sistemi pubblici di garanti dell’efficacia e dell’equità dei sistemi di istruzione?

Propone di contrastare la malattia del nostro sistema scolastico? I ragazzi che perde. Ragiona di combattere le disuguaglianze e di valorizzare le differenze?  Riesce a parlare di una scuola efficace, efficiente, equa, rigorosa, di democrazia e di diritti? Ci troviamo o no di fronte a una riforma che conviene non solo ai singoli, ma allo sviluppo democratico del paese e perciò ai singoli?

Io credo di sì, anche se pesano nella disaffezione, nel disorientamento di una parte del mondo della scuola una cattiva informazione, una malevola ricostruzione della realtà che rischia di far smarrire la direzione, ma soprattutto il senso delle trasformazioni già avviate. Con un singolare errore logico, o meglio di prospettiva, stampa e opinion makers accusano la riforma proprio per quegli aspetti che essa vuole modificare: la si critica per un eccesso di rigidità e nello stesso tempo le si chiede di tornare a strumenti di puro controllo, come il voto di condotta, riproponendo un modello che è quello che si intende mettere in discussione: la scuola che giudica, che sancisce, che espelle. Si finisce così col rivelare la vera convinzione di fondo: che l’obiettivo di garantire a tutti, non uno di meno, un buon livello culturale e un proficuo apprendimento non è un obiettivo costituzionale ma una solenne imbecillità. Perché - si dice - non tutti ce la possono fare, tacendo ipocritamente sul fatto che nella storia della nostra scuola  la provenienza o il destino sociale sono stati determinanti nel decidere  attitudini e capacità. Vogliamo ragionare su quale sia, ancora oggi, la provenienza sociale dei cosiddetti "dispersi"?

Pesano sicuramente nell’atteggiamento di attesa, a volte di diffidenza nei confronti della riforma, il riflettersi su di essa di dissensi su scelte operate dal governo, la legge di parità per esempio,  apparsa in contrasto con l’idea della scuola di tutti; il fatto che su una serie di questioni e di applicazioni legislative si siano fronteggiate e ancora si fronteggino ipotesi e interpretazioni diverse, penso all’autonomia (responsabilizzazione in progetto condiviso o strumento di competitività); un paradossale ed eccessivo aumento di procedure burocratiche; l’incertezza sul proprio destino professionale; la difficoltà di  capire il quadro generale e di prefigurare scenari possibili rispetto ad alcune scelte. Ad esempio su come l’obbligo formativo  si rapporta con la scuola, attraverso quali strade contrasta o asseconda la sollecitazione di aree forti del mercato del lavoro (prima di tutte il Nord-Est) ad un abbandono precoce del percorso di istruzione?

Si tratta allora di sollecitare un impegno politico su questi terreni e non solo del mondo della scuola, un impegno politico che implichi discussione approfondita e scelte conseguenti, con la consapevolezza che sulla scuola ancora una volta si gioca e si giocherà una partita di democrazia e di civiltà.

6.Una legge di sistema

Vorrei allora partire dalla legge di riordino dei cicli, dal suo piano di attuazione, per andare poi a ritroso nella storia di questi ultimi anni.

Le ragioni della riforma sono ribadite, nel Piano quinquennale di attuazione, previsto dalla legge di riordino, a partire dall’ultimo rapporto Ocse ’98, laddove si dice che il quadro complessivo del nostro sistema “resta ancora segnato da un accumulo di problemi e questioni rimaste senza risposta”. Il Piano individua  “nella discontinuità tra le diverse parti del sistema di istruzione e nella parzialità degli interventi di riforma  le difficoltà di affrontare i nodi dell’insuccesso scolastico e della dispersione (…) E, ancora,  sottolinea come la debolezza del nostro sistema si misuri non solo nei tassi inaccettabili di ripetenze e di abbandoni, ma si riveli anche nel tipo di istruzione che la scuola è riuscita a dare negli ultimi decenni. Al di là dei titoli di studio conseguiti, questa istruzione si sta rivelando sempre meno adeguata: quote significative della popolazione adulta, pur scolarizzata, tendono a essere sospinte ai margini della fruizione culturale indispensabile per vivere e lavorare in una società complessa. Rispondere a questi problemi implica avviare un’impegnativa azione di riordinamento del sistema (…) E questo è un compito difficile (…) e tuttavia è compito irrinunciabile che costituisce la motivazione profonda del processo di riforma”.

Abbiamo da sempre condiviso l’impianto del riordino dei cicli, e apprezzato i cambiamenti apportati tra la prima e l’ultima stesura del disegno di legge, per esempio rispetto al problema della canalizzazione precoce, e da sempre ci hanno convinto alcune scelte:

-l’idea dei cicli lunghi, percorsi unitari, dove la continuità non significa giustapposizione, ma individuazione di articolazioni, di snodi, anche di discontinuità necessarie alle fasi dell’apprendimento: un’idea al centro della cultura democratica sulla scuola - pensiamo a Bruno Ciari -;

-la  riduzione di un anno di scolarità come scelta di un percorso più agile, più adeguato ai tempi della crescita, al passaggio all’età adulta;

-il rilievo dato alla scuola dell’infanzia, riconosciuta finalmente come scuola;

-la proposta di una scuola secondaria senza gerarchie di percorsi (terreno su cui ci si lascia definitivamente alle spalle il  modello gentiliano), all’interno di un sistema che si ponga con la scuola il problema di un’alta alfabetizzazione e offra al termine dei  cicli, obbligo e diploma, una pluralità di occasioni formative, dalla formazione professionale di primo e secondo livello, alla  formazione superiore integrata. Quanto più la scuola promuove una formazione culturale e una cultura professionale comune a una generazione, tanto più sono necessari strumenti agili ed efficaci di formazione ai lavori, superando l’angustia dell’unico e rigido percorso dalla scuola all'università, che da sempre ha prodotto selezione e dispersione.

        E  tutto questo nell’ottica  di un sistema di educazione permanente e di educazione degli adulti che rappresenta una sfida democratica e culturale oggi essenziale e pone il problema di ridefinire confini e cultura dell’intero sistema di istruzione e di formazione.

       Un sistema, insomma, che riesca a intercettare intelligenze, storie diverse e che sappia metterle a valore, nel quale ogni ragazza e ragazzo scelga e prosegua il suo percorso, secondo le sue attitudini e propensioni: e non secondo la storia e la cultura familiare. O dobbiamo tornare a ipotizzare una scuola (è la proposta del gruppo Nova Spes, Centro studi Gilda e altri) dove a conclusione della scuola di base si scelga tra due percorsi: uno nella cosiddetta scuola formale, l’altro nella scuola professionale secondo il principio della “selezione orientante”; proposta  non molto diversa da quella che fa la destra di differenziare i percorsi nella fase conclusiva dell’attuale scuola media.

Oggi e domani scenderemo nel merito delle singole questioni, affronteremo problemi di contesto, l’analisi delle strutture, i rapporti tra i vari percorsi, la delicata questione docente  all’interno del cammino della riforma. A me interessa ora cercare di leggere l’intero piano di riforme a partire da alcune chiavi di lettura o nodi problematici.

       7. La necessità di pensare alla riforma come sistema.

Con il piano di attuazione del riordino dei cicli, con le prime indicazioni curricolari per la scuola di base, con le linee di prospettiva per la scuola secondaria, di cui si sta ragionando nella Commissione di studio come necessaria premessa alla stesura delle indicazioni curricolari anche per il secondo ciclo, emerge con la maggiore evidenza possibile che oggi la riforma o è una riforma complessiva o rischia di non avere respiro e che esige la riforma di tutti gli altri tasselli del sistema.

Ad esempio, ragionare di profili di uscita e fisionomia della scuola secondaria significa anche ragionare di formazione professionale, dell’intero sistema di formazione post-secondario, di formazione permanente e ricorrente, del percorso universitario. L’obbligo formativo, ad esempio, è scelta che presuppone una riforma dell’intero settore della formazione professionale, oggi latitante in molte regioni, che pone domande di investimento al mondo del lavoro nel sistema dell’apprendistato. Sarà poi necessario ragionare di quali possano essere oggi i tratti  significativi, le caratteristiche, le modalità di una qualificata formazione professionale. E, allo stesso tempo,  affrontare il nodo culturale della formazione al lavoro: quali i saperi di base cui far riferimento, rispetto alla ridefinizione continua di profili e saperi professionali, al diffondersi del lavoro immateriale.

O, per fare un altro esempio, parlare di nuovi compiti e funzione dei docenti significa anche parlare di una nuova e qualificata prima formazione dei docenti. E parlare di formazione in servizio  significa anche parlare di un legame più stretto e continuo appunto con la prima formazione, anch’essa vista nella logica di una formazione permanente e ricorrente.

Insomma, mi sembra decisivo avere la pazienza, la tenacia e la volontà di ricostruire sempre lo sfondo complessivo, sia pure nella consapevolezza delle difficoltà derivanti dal fatto che le innovazioni hanno avuto   tempi diversi, che c’è stata una natura diversa dei processi di trasformazione, che sono diversi i soggetti che hanno il compito di governarli.

Un sistema che da decenni, nonostante significative riforme, nonostante la generosità, l’impegno e la capacità di operare concretamente di tante e tanti insegnanti, ha mantenuto intatto il suo dna pedagogico e organizzativo, la sua struttura profonda, bombardato da un insieme di riforme rischia di implodere, se non riesce a collegare le motivazioni delle singole questioni - perché il curricolo invece del programma? perché la valutazione di sistema? perché le autonomie? - a un orizzonte di fini  e a riannodare, per questa strada, i singoli fili dell’intero processo.

8. La riforma come processo, con le radici nel passato e la fantasia nel futuro

L’insieme delle riforme, proprio perché ragiona di un rapporto diverso tra centro e periferia e di un diverso governo del sistema, perché è all’interno di un processo complesso di riorganizzazione amministrativa dello stato, perché chiama a responsabilità, ruoli e funzioni diverse tutti i soggetti della vita della scuola, può sgomentare  proprio quanti commisurano la vastità e la difficoltà dell’impresa alla scomoda quotidianità di chi ogni giorno, lontano dalla sicurezza degli slogan, si sforza di dare un senso al proprio lavoro.

"Ogni opera che lascia il segno - scriveva Claude Lévi-Strauss - è fatta delle regole, che sono state di ostacolo alla sua nascita, e che essa ha dovuto infrangere, e delle regole nuove che essa, una volta riconosciuta, a sua volta imporrà."

Voglio dire che la giusta ambizione di segnalare la discontinuità col passato non può mettere in ombra la sostanziale continuità del cammino avviato sulla base di principi educativi maturati e sperimentati in anni di dibattito e in importanti realizzazioni.

D’altra parte, non c’è cambiamento che possa rinunciare a quanto di meglio la saggezza e la passione dei padri abbia prodotto (la centralità e la storicità del soggetto che apprende - Gianni, proprio lui, Pierino, proprio lui -, la volontà di innalzare per tutti la qualità dell’istruzione e della formazione, la necessità di un unitario percorso di base e quella di superare la struttura separata e gerarchizzata "a canne d’organo" - si diceva - della scuola superiore gentiliana). Come non ricordare l’impegno generoso su questo terreno di Don Milani, Lucio Lombardo Radice, Sergio Neri, Loris Malaguzzi, della nostra Luciana Pecchioli.

E certo è tutto da costruire il percorso che  possa far  vivere e pesare in questa riforma  principi, modalità, scelte che hanno qualificato la migliore tradizione della nostra scuola: il patrimonio di esperienze realizzato nell’attuazione delle leggi istitutive della scuola media, elementare e dei loro programmi, le innovazioni determinate dalla legge sull’inserimento dei soggetti portatori di handicap che istituiva modalità di lavoro come la programmazione, la nuova valutazione, la grande tradizione della scuola dell’infanzia, che ha trovato sistemazione negli Orientamenti del ’91, le tante sperimentazioni della scuola secondaria, i programmi sperimentali Brocca, e le più recenti trasformazioni e sperimentazioni: l’attuazione degli esami di stato, l’avvio degli istituti comprensivi, le sperimentazioni dell’autonomia.

 8.Dilemmi e prospettive dell'autonomia

 Raccogliere e ricollocare: questo il senso del processo che si avvia. Le riforme non sono un prodotto confezionato e chiuso, che viene consegnato alle periferie: una scuola che passa dall’idea della trasmissione delle conoscenze a quella dell’attenzione ai soggetti che apprendono ha necessità di una verifica continua dell’efficacia e della qualità del suo lavoro: di modifiche, arricchimenti, correzioni in itinere.

Infatti il Piano di attuazione per il riordino dei cicli prevede l’avvio della nuova scuola dal settembre 2001 e chiama, inoltre, ad una verifica triennale, sulla base di quanto le scuole diranno sull’andamento delle riforme, in particolare sulla compatibilità, sostenibilità, efficacia di quanto proposto.

E sarà, perciò, importante che la verifica e il dibattito non restino nel recinto scolastico: e che anzi nel paese si riesca a parlare della scuola, del suo progetto culturale, del suo ruolo e della sua funzione, dimenticando per un momento le proprie storie, i propri interessi e le proprie nostalgie. E dovrà contare in questa verifica il confronto con quel  patrimonio di esperienze di cui prima parlavo, con una ricerca didattica e disciplinare condotta e promossa, in questi anni, da riviste scolastiche, associazioni professionali e disciplinari, istituti di ricerca, da università. Perciò bisognerà trovare i modi, sin da ora, per rendere stabile un collegamento tra ricerca nella scuola e ricerca sulla scuola. Affinché ricerca e riflessione possano tornare ad essere sapere della scuola, pratica quotidiana.  

Il carattere processuale deriva anche dal fatto che, accanto all’attuazione del riordino dei cicli, vanno avanti tutte le altre riforme, da quella del governo del sistema, che prevede la riorganizzazione amministrativa e il decentramento del ministero in strutture regionali, a quella dell’autonomia che attribuisce alle scuole responsabilità progettuale  in merito alle scelte culturali e curricolari.

L’attuazione delle riforme, in sostanza, viene sottoposta, nel suo farsi, a una continua e costante verifica. Ma non sarà un percorso facile e lineare, quello che si avvia, perché chiede a tutti di cambiare mentalità, di assumere responsabilità, di sentirsi soggetti alla pari, di mettere da parte rassicuranti gerarchie, di sentirsi insomma più “governanti” e meno “governati”.

      

9. Il problema dell'autonomia, o, meglio, delle autonomie.

        L’art. 21 della legge sull’autonomia, legge di modifica amministrativa dello Stato, disegna i singoli istituti scolastici  come enti autonomi, dotati di personalità giuridica, in sostanza disloca presso gli stessi poteri e responsabilità un tempo attribuiti al governo centrale. Ma questi nuovi poteri e responsabilità, che andrebbero comunque rafforzati dalla costituzione e dal potenziamento delle reti di scuole, con quali altri soggetti e poteri si confrontano, con quale idea di governo del sistema e soprattutto su cosa si esercitano all’interno delle singole scuole?

Parleremo oggi e domani di come  l’autonomia dei singoli istituti scolastici richieda un governo nuovo del sistema, che sappia dare risposte :

·                        all’esigenza di definire e sottolineare un ruolo autorevole e significativo  del centro: un centro che dia indirizzi, con il rigore e la coerenza indispensabili a collegare le scelte alle finalità complessive, che sappia accompagnare, supportare, verificare i processi, attraverso l’interlocuzione continua e il  coinvolgimento dei vari soggetti: un centro, ridefinito e riorganizzato, che continui ad essere centro, ma che sappia superare le categorie della lontananza e dell’altrove in un equilibrato rapporto tra autonomie;

·                        alla necessità di  promuovere un  governo diffuso del sistema che,  proprio perché vede moltiplicarsi  i luoghi delle decisioni – a partire dal nuovo ruolo di regioni ed  enti locali, che hanno, in taluni casi, anche titolarità a legiferare -, sappia ribadire ruoli specifici, costruire  e  consolidare capacità di rapporto, reciprocità, per superare la tentazione di riproporre, a livello del singolo territorio, nuovi dirigismi e nuovi centralismi.

Sarebbe stato insomma necessario, preliminarmente, definire “un profilo globale del sistema e del suo governo, in modo da non lasciare alle scuole - in questa delicata fase di sviluppo dell’autonomia - tutte le incertezze derivanti da questioni attinenti la ridefinizione del ruolo dello Stato”.

In questo contesto, la nuova legge sul federalismo, che affida allo Stato le “norme generali dell’istruzione” e investe le Regioni di un ruolo legislativo “concorrente”, non rischia di aprire la strada ad una differenziazione di scelte, anche su questioni decisive per il carattere nazionale e unitario del sistema? Un tema di riflessione e di discussione, che sarà trattato nella tavola rotonda di oggi.

Ma voglio qui affrontare il tema di cosa possa significare oggi  l’autonomia del sistema e l’autonomia all’interno delle singole unità scolastiche.

E non vedo chiusa la partita con quanti ritengono l’autonomia veicolo  per costruire scuole di fatto separate che rispondono al singolo e, di volta in volta, diverso committente, che ha la libertà di scegliere, come si legge nei documenti della destra, “anche all’interno della scuola statale, i percorsi, i gruppi docenti, le soluzioni organizzative”.

Perciò occorre continuare a lavorare per l’autonomia come scommessa di autogoverno, occasione per costruire regole condivise che diano spessore alle relazioni formative e valorizzino la libertà di insegnamento, all’interno di un progetto più complessivo, unitario e nazionale, in grado di superare la contingenza dell’interesse particolare e locale.

L’autonomia, allora, è un ridisegno di poteri, su cui certo peserà l’assenza di una riforma degli organi collegiali, ma è, soprattutto, un riconoscimento di responsabilità. Presuppone, perciò, la capacità delle varie componenti, (insegnanti, capi di istituto, studenti, famiglie, personale amministrativo), che hanno certo ruolo e peso diversi su questioni specifiche, di saper andare oltre  la sicurezza delle gerarchie, di riuscire a comunicare e a modificarsi, a trasmettersi sapere: rappresenta insomma la scommessa  di far maturare e crescere, anche attraverso un ineliminabile ma salutare conflitto, la capacità, appunto, di assumere e condividere responsabilità. Responsabilità progettuali culturali e didattiche oggi anche più cogenti, perché legate a scadenze prossime come l’avvio del riordino dei cicli e alla necessità di articolare e arricchire, nei contesti specifici, le indicazioni curricolari nazionali.

L’avvio generoso della sperimentazione dell’autonomia si è misurato in questi anni, tranne che in circuiti più avvertiti, con le difficoltà di utilizzare uno strumento nuovo, come leva per scardinare dall’interno una struttura profonda e resistente: la scuola detta simbolicamente "del programma", "della lezione frontale". Si è misurato, spesso, anche con la difficoltà a intendersi sui termini e sulle interpretazioni: il curricolo come nuovo modo di nominare il programma o come scelta di una progettualità culturale e didattica, che fa riferimento a  un sapere ridefinito nelle motivazioni e nelle finalità e a una nuova riorganizzazione nella scuola dei percorsi della conoscenza.

Io credo che dobbiamo avere una consapevolezza: che termini come curricolo, come progettazione curricolare, su cui si è tanto dibattuto in questi anni, su cui si discute e  su cui torneremo ostinatamente a discutere, fanno riferimento a una tradizione educativa e didattica con solide radici, da Dewey in poi, accantonata e messa in ombra nel nostro paese dalla tradizione, anch’essa assai nobile, del programma che però oggi non sempre appare  in grado di rispondere alla sfida democratica, cui non può sottrarsi il nostro sistema scolastico: non perdere nessuno, non dimenticarsi di nessuno.

Mi sembra sia stato saggio che le scelte fatte da leggi e regolamenti abbiano però tenuto conto della nostra storia  e della  tradizione culturale e didattica della nostra scuola. Penso alla scelta di  indicare alle scuole il raggiungimento degli obiettivi specifici di apprendimento relativi a competenze, senz’enfasi su quest’ultime, proprio perché esse sono il risultato, che si acquisisce nel tempo, di una molteplicità non sempre prevedibile di occasioni di apprendimento.

Quel che mi sembra importante è riflettere sulla portata dei cambiamenti che leggi e regolamenti potranno indurre  nella pratica di lavoro delle scuole, nel rapporto tra loro e nel loro rapporto col centro.

L’autonomia si gioca allora qui, nell’incontro  tra le indicazioni curricolari nazionali anche di contenuto, definite per ora  per il ciclo di base, e le scelte professionali e didattiche delle scuole, nella loro capacità di scegliere strade diverse per raggiungere obiettivi comuni e di commisurarne gli esiti, nella loro capacità di  progettare percorsi, organizzare i tempi, integrare le discipline del curricolo obbligatorio nazionale e quelle del curricolo di scuola, nel costruire, curare, governare l’intero curricolo della scuola, tenendo conto delle diversità e specificità di ogni studentessa e ogni studente, della loro storia, della loro cultura, dei loro tempi di apprendimento, dei contesti in cui imparano.

        “Il curricolo - è scritto nel documento di indirizzo - è elaborato dai docenti e non centralmente dal ministero; non è unico dappertutto e per sempre, ma è commisurato dai docenti alla realtà degli allievi e delle singole realtà scolastiche e ambientali”: una modalità che non rinuncia né ad un sistema nazionale di istruzione, né ai contenuti. "Il curricolo - si legge ancora nel documento - parte dai contenuti e delinea l’articolato e complesso processo delle tappe e delle scansioni dell’apprendimento; contenuti che sono non tanto guida dell’insegnante ma via per far conseguire ad allieve e allievi conoscenze solidamente assimilate e durature nel tempo”.

       Una responsabilità progettuale forte delle scuole, una richiesta alta alla professionalità docente, un’idea matura e concreta di libertà di insegnamento, ma insieme una responsabilità del centro non solo nel controllare, ma anche nell’indirizzare percorsi e processi, nel ribadire finalità complessive e nazionali, nel promuovere quel governo diffuso del sistema, di cui prima parlavo.

E si gioca in questo rapporto un’idea della cultura e del sapere della scuola.

10.Idee per riprogettare la scuola

Un sapere che deve misurarsi da un lato col patrimonio di conoscenze, che danno valore, identità, fisionomia alla storia del paese, e che ogni società ha il compito di consegnare alle generazioni successive, dall’altro con l’impossibilità  di proporsi come nuovo  monumento del sapere, che possa valere per altri cento anni.

Sappiamo bene che il sapere non può essere definito una volta per tutte, come illusoriamente  in passato si è pensato potesse avvenire, che oggi nella scuola si ricostruisce a partire dalle esperienze e dalle storie di ognuna e ognuno, che deve avere come obiettivo quello di moltiplicare le prospettive conoscitive e di fornire chiavi di interpretazione della realtà, secondo il metodo della ricerca, riservando una forte attenzione alla prospettiva storica e alla dimensione problematica dei percorsi che hanno portato alla sistemazione attuale delle conoscenze.

Perciò è stato importante che i criteri di costruzione delle indicazioni curricolari abbiano fatto riferimento a quelle finalità del sistema che - si legge nel Piano di attuazione-, a partire dall’attenzione “alla crescita e alla valorizzazione della persona " (art.1, L.30), si propongono di formare menti aperte e critiche, in grado di leggere e interpretare la realtà, di comprenderne i cambiamenti, di orientarsi in essa “secondo ragione”, attraverso l’esercizio continuo del collegare i fatti ai loro nessi causali e di saperli collocare nel tempo e nella storia; di saper restituire senso e significato  a esperienze e apprendimenti che si acquisiscono anche fuori della scuola; di imparare a rapportarsi e a confrontarsi con la pluralità e la ricchezza delle differenze e delle diversità. Passa da qui la possibilità di costruire un sapere laico, premessa e condizione di un’etica pubblica condivisa.

Se vogliamo, allora, cominciare a dar senso e concretezza a uno slogan felice, “la formazione alla cittadinanza”, dobbiamo ripartire da qui, dalla possibilità, come sostiene Andrea Bagni, di ricostruire “tensione” tra l’istituzione e le culture che l’attraversano.

“Il modo stesso di proporsi e organizzarsi della scuola - si legge nel documento - porta gli alunni a saper vivere insieme nella diversità della classe e dei gruppi di apprendimento; a maturare progressivamente abitudini di rispetto reciproco e di partecipazione alla vita della scuola, a operare insieme per l’attuazione di obiettivi e di finalità condivisi e progettati insieme, a saper discutere di comportamenti, di idee, di bisogni, di diritti e di valori, a mano a mano che emergono nel corso della vita e dell’apprendimento scolastico”.

E la scuola diventa luogo, allora, di costruzione di valori comuni proprio nell’incontro con quegli oggetti della conoscenza e con quelle modalità dell’apprendere, che di più abituino al ragionamento e alla consapevolezza, a praticare il dubbio e la curiosità, a collegare l’esperienza alla riflessione, a sviluppare criticità ma anche a costruire un senso di sé e del mondo.

"Sembravano difficoltà ed erano opportunità", avrebbe detto Giambattista Vico.

L’opportunità allora di valorizzare le contiguità tra discipline: “il termine 'disciplina', pur implicando l’appartenenza di concetti, linguaggi e procedure a specifici settori non significa tuttavia rigida delimitazione. E non significa rigida delimitazione nella scuola come non lo significa nei livelli più alti e complessi della ricerca dove, come si sa, le innovazioni significative nascono dal contaminarsi di settori scientifici diversi, dove l’intelligenza umana conosce problemi e non facoltà e cattedre separate”.

L’opportunità di concorrere alla maturazione di competenze comuni, cosiddette trasversali, valorizzando l’interazione tra punti di vista, modi di leggere la realtà, e modi diversi di fare e operare, specifici di ogni settore disciplinare. Ad esempio intuire e immaginare, risolvere e porsi problemi, operare scelte in condizioni di incertezza se sono modi del ragionare abituali in ambiente matematico possono essere applicati ad altri contesti e diventare abitudini di pensiero più complessive.

L’opportunità di costruire percorsi di apprendimento ricchi di occasioni operative, di attività laboratoriali, anche di concrete esperienze di lavoro.

L’opportunità, infine, di governare di una conoscenza le interdipendenze con le altre discipline, le implicazioni storiche sociali e politiche, i valori di riferimento.

Parleremo domani di come le indicazioni per la scuola di base ragionino del passaggio, nel percorso del sapere, tra ambiti e discipline, tra esperienza  e sistema organizzato delle conoscenze. Parleremo anche di come sia sempre più necessario oggi, anche nella scuola secondaria, anche nelle materie di indirizzo, costruire percorsi culturalmente forti, che permettano la conoscenza, la comprensione, la concettualizzazione di fatti e fenomeni attraverso ogni campo disciplinare, e in ognuno di essi. E di come questo tipo di formazione possa assicurare una preparazione culturalmente forte, in grado di affrontare meglio ogni specializzazione successiva.

Problemi che si intrecciano strettamente con la definizione della fisionomia della secondaria, del suo profilo di uscita, del suo raccordo con i percorsi successivi, del suo rapporto con i percorsi previsti dall’obbligo formativo.

In conclusione, le indicazioni curricolari per il primo ciclo disegnano una scuola che, in continuità con la scuola dell’infanzia, intende consolidare i saperi di base, a partire da quelli fondamentali, necessari per affrontare ogni successivo apprendimento e indicano, al tempo stesso, linee di sviluppo per l’intero percorso.

 Una scuola che potenzia il sapere matematico, scientifico, tecnologico, tradizionalmente carenti nella nostra scuola; arricchisce la conoscenza e la capacità d’uso della propria lingua e delle lingue europee moderne, con una forte attenzione alla lingua madre di bambine e bambini di altri paesi; entra con forza nella molteplicità dei linguaggi - da quelli verbali a quelli del corpo, a quelli della musica, a quelli dell’immagine - e delle espressioni artistiche, rafforza lo spessore storico di ogni disciplina, promuove l’acquisizione del senso della storia, affronta “lo studio della convivenza umana in tutte le sue dimensioni: lungo l’asse cronologico, nello spazio geografico, nel contesto sociale”. Una scuola dove la dimensione della manualità e dell’operatività -il fare e il saper fare, il  saper  controllare gli strumenti -, la dimensione della problematicità - saper usare sistemi di ragionamento, imparare a porre e a porsi interrogativi -, la dimensione del confronto - interazione con culture, soggetti, punti di vista - la dimensione della responsabilità di tutti i protagonisti della vita della scuola diventano strumenti per motivare all’apprendimento e anche per accettarne le regole più faticose, strumenti per  interiorizzare e fissare le conoscenze.  Per renderle vive e vitali e durature nel tempo.

       Una questione sul curricolo di storia. C’è una forte critica di una parte degli storici  al curricolo di storia presente nel documento, critica che mette in discussione proprio le risposte che esso dà a  esigenze da tempo maturate sul terreno della ricerca e su quello della didattica. La scelta di una storia come storia del mondo non è una dimensione che consente di superare i vari punti di vista nazionalistici e di fondare un’educazione multiculturale per una cittadinanza responsabile? E ancora, non convince - e perché? - l’idea di uno studio  della storia che parta da approcci diversi a seconda delle età; non convince - e perché? - il fatto che lo studio della storia generale si concluda con lo studio della  contemporaneità nell’ultimo anno dell’obbligo scolastico?

      Ecco, sarebbe importante che si avviasse, dalla lettura delle indicazioni curricolari sia nella parte di premessa sia in quella relativa ai percorsi specifici, una discussione complessiva, assai importante anche per la prosecuzione dei lavori per la scuola secondaria, che ragioni su come ripensare, ricomporre, ricostruire il terreno su cui si esercita la conoscenza nella scuola. Si tratta di trovare insieme, docenti e studenti, anche a partire da ciò che irrompe disordinatamente e quotidianamente nella vita di tutti, in dimensioni diverse e per strade diverse -la fiction, le informazioni, i conflitti- il filo di un ragionamento, le chiavi attive di interpretazione del presente e del passato, nella storia come nella scienza, e in ogni altro campo disciplinare.

11.Un alfabeto con 5 vocali: non basta la "i"

Troppa roba , come ha detto qualcuno. Troppa roba certo se  si continua a partire dal quadro dei saperi e non dalle loro connessioni e interrelazioni, dalla necessità di collegare le conoscenze e di dar loro senso, attraverso  percorsi che permettano  di "introdurre gradualmente le alunne e gli alunni alle discipline e abituarli a usare modi per loro nuovi di elaborare curiosità, esperienze e conoscenze".

Impareranno le bambine e i bambini, le ragazze i ragazzi l’inglese e l’informatica? Certo sì, ma basterebbe? L’obiettivo più importante non è quello di arricchire la mente e di imparare a ragionare, di avere un’idea del mondo, facendo, come suggerisce Giorgio Bini, “esperienze vaste e disinteressate e se fosse possibile cominciando ad apprezzare la bellezza di quegli apprendimenti che non servono a nulla”? Una cultura che diventa possibilità di interpretazione del mondo, di conoscere e riconoscere gli altri, di scambiarsi sapere.

“Oggi dobbiamo dare bussole - diceva Tullio De Mauro al nostro Convegno di Bologna di qualche anno fa -, dobbiamo dare punti cardinali. Serve acquisire e far acquisire la capacità di muoversi entro lo spazio culturale in cui ci collochiamo. Serve dare la capacità, la voglia e il gusto di sapersi muovere  tra le forme più immediate di cultura, quelle più vicine a noi  e le forme più remote e aliene, tra le forme più rudimentalmente immediate e le forme più complessamente costruite, tra le forme affidate a questa o a quella tipologia di produzione e ricezione, dalla manualità alla lettura, dalla visualità e plasticità al silente e astratto ragionare.”

L’inglese certo, ma anche il possesso pieno della lingua a partire dalla propria - è la lingua che fa eguali -, per liberare il pensiero. L’informatica certo, ma sollecitando studio e ricerca sul potenziale cognitivo delle tecnologie, sulla loro capacità di aiutare, forse modificare le nostre capacità di conoscenza e comunicazione.

12 .Nuovi profili dell’insegnare

Le indicazioni curricolari, la novità che può spaventare ma anche contribuire a ridare un senso al lavoro nella scuola, non sono il curricolo: avviano il percorso, si affidano perciò alla capacità progettuale, alla sensibilità, alla sensatezza, alla maestria dei docenti come singoli e come collettività.

Nel Piano di attuazione del riordino dei cicli si parla di un docente colto, riflessivo, competente non solo in relazione ai saperi, ma alle metodologie, alle relazioni, agli strumenti e agli ambienti di apprendimento. Ma su  questi terreni, e da tempo, i docenti hanno già lavorato, misurando il loro sapere con nuovi e antichi bisogni di conoscenza e di affettività, in alcuni casi con vere e proprie emergenze educative e sociali, mettendo  in discussione, nei fatti,  vecchie e consolidate certezze, obsoleti modelli trasmissivi.

La capacità progettuale di tante e tanti si è concretizzata in pratiche ormai consolidate, nell’attuazione di innovazioni significative, a cominciare dagli anni ’70.

La centralità della persona che apprende, l’attenzione al processo dell’apprendere e non solo ai suoi risultati, l’idea dell’insegnante come regista del processo di costruzione della conoscenza, tutti temi presenti già nella legge 30 e ribaditi dal piano di attuazione e da tutti i documenti successivi, raccolgono e consolidano  pratiche, un patrimonio di pensiero e di operatività della migliore tradizione della nostra scuola, mettono alla prova certezze e acquisizioni di un modo di intendere la professione docente, già ampiamente sperimentato.

Raccogliere e ricollocare, anche in questo caso. Ma qual è l’elemento che qualifica il nuovo contesto? Io credo che sia proprio nella  capacità della scuola di essere istituzione centrata sull’”autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo”, come afferma l’art. 6 del Regolamento dell’autonomia organizzativa e didattica, insomma di essere soggetto primo  di ricerca sul sapere e sulla didattica. In questo diventare protagonista di scelte culturali, curricolari e didattiche, verificandone e valutandone  la qualità e  l’efficacia, nel saper proporre in modo radicalmente nuovo  i modi e le forme della sua formazione in servizio, la scuola diventa interlocutrice autorevole delle strutture di supporto dell’autonomia: centri territoriali,  attività di  Istituti regionali, della Biblioteca pedagogica, dell’Istituto nazionale per la valutazione. In caso contrario sarà costretta a inseguire ancora una volta quello che si decide altrove  o a rinchiudersi nella vecchia, e a volte rassicurante, consuetudine all’autoreferenzialità.

Non è una partita facile. Ma è la maggior parte degli stessi insegnanti - come rileva il secondo Rapporto Iard sulla condizione docente - a pensare che passa da qui la “possibilità di recupero di una professionalità che si ritiene perduta o di conquista di una professionalità che forse non è mai esistita”

La professione docente, nel contesto della scuola dell’autonomia, richiede non meno o più lavoro, ma lavoro diverso. Richiederebbe ad esempio che fossero semplificate alcune procedure. Meno carte e più confronto tra pari che hanno in comune progetto, interessi, obiettivi.

Richiederebbe l’ individuazione di luoghi , tempi,  modalità (per gruppi di ricerca, per aggregazioni disciplinari, in quali orari, in quali spazi) per realizzare nelle scuole la progettazione didattica, la riflessione sul lavoro. Si tratta di trovare strade per sciogliere nodi che appaiono assai aggrovigliati, ma ne parleremo domani. Ad esempio, come far convivere,  come valorizzare e armonizzare, in un lavoro comune nella scuola di base, soprattutto dal terzo al quinto anno, professionalità, competenze, sensibilità diverse. Strade percorribili a patto che ci siano strutture adeguate e funzionali,  ambienti di apprendimento efficaci, un organico dei docenti che sia ricchezza e risorsa. Tutto questo richiede scelte politiche e atti legislativi e regolamentari, per esempio, in fatto di reclutamento, di prima formazione, di formazione in servizio, di modifica dell’inquadramento professionale, a partire dalla necessità di un ruolo unico per tutti gli insegnanti.

Dobbiamo allora ripartire da qui: dall’intrecciare il ragionamento sulla professione con quanto ad essa chiede la scuola, che - se intende valorizzare le differenze e combattere le disuguaglianze - deve trovare le strade per farlo.

Si tratta di capire come realizzare  una scuola che riorganizza i tempi, che ragiona di lezioni frontali e di attività laboriatoriali, che presuppone gruppi di ricerca e progettazione, che propone  e realizza attività nel piano dell’offerta formativa, che lavora all’integrazione della quota nazionale del curricolo e della quota riservata alle scuole, valorizzando tutte le competenze presenti e le specifiche capacità di ognuna e ognuno. Troppe geometrie, troppe procedure, troppi rischi di accelerare e irreggimentare? Ma il rischio non è anche quello contrario: che le innovazioni, senza il rispetto dei tempi del lavoro retrostante, senza l’intelligenza del governo dei processi, restino formule vuote, sperimentalismi senza progetto, termini che rapidamente deperiscono?

Non so se c’è altra strada, se non quella della responsabilizzazione di ogni soggetto, della valorizzazione di ogni funzione per fare in modo che  tutto concorra alla sapientia del lavoro d’aula, alla capacità di costruire relazioni, apprendimento, scambio, desiderio di sapere e capire; cuore e intelligenza di un luogo dove la scommessa è di insegnare e imparare ad ascoltare il senso del proprio tempo e della propria responsabilità, dove si deve chiedere a ognuno di rendere conto del suo operato. Con tutta la difficoltà, che ogni insegnante conosce, di andare spesso controcorrente rispetto a una società che sembra sottovalutare l’importanza di abituare per tempo alla disciplina e alla fatica dell’imparare.

 E allora valutare e verificare sono solo procedure burocratiche, amministrative o possono diventare operazioni per  capire tutti insieme “se va bene fare quello che stiamo facendo”, diventare strumenti di lettura, ma anche di trasparenza dei percorsi, per governarne le difficoltà; chiavi di interpretazione dei successi e degli insuccessi di studentesse e studenti, per chiamare anche loro e le loro famiglie a responsabilità; accertamento dei livelli raggiunti per garantire il diritto all’apprendimento, trovando modi differenziati di recupero per quanti restano indietro?

Articolare il lavoro e finalizzarlo a un progetto complessivo di scuola, dunque. E anche sull’articolazione del  lavoro, sul suo governo si misura la forza professionale dei docenti e delle sue rappresentanze, la capacità di interagire con il diverso livello di responsabilità dei dirigenti scolastici. Certo proprio la ricchezza e la complessità del mestiere dell’insegnare, un artigianato alto, lo rende irriducibile all’idea che capacità di ricerca, capacità didattica, capacità di organizzazione più complessiva - ognuno è o sarà più portato per ciascuno di questi aspetti - possano essere considerati gradini di una carriera.

Ma è vero anche che occorre trovare criteri plausibili, trasparenti, condivisi (il tempo, l’esperienza, alcuni profili giuridici particolari, alcuni compiti specifici) per ragionare di uniformità o meno di retribuzioni, senza accanirsi sull’idea che, in un lavoro così particolare, si possa far diventare scala retributiva una certificazione di qualità, che, come si sa, nei processi complessi può migliorare o peggiorare in maniera assolutamente imprevedibile.

E allora quanto e cosa di questo lavoro possa essere segmentato,  contrattualizzato, e in che maniera, è questione aperta e di questo occorrerà ragionare nell’avvio del prossimo contratto, individuando  luoghi,  sedi comuni di una riflessione sulla professione così come oggi si configura, e sulle forme della sua rappresentanza.

E di tutto questo parleremo domani.

12. Un’idea di futuro

Sono convinta, in conclusione, che in questo difficile passaggio la scuola democratica saprà giocare le sue risorse: l’ardire del nuovo, la tenacia del cammino, l’immediatezza del fare, l’ostinazione del  costruire, la tensione del ricercare. E saprà collegare il senso profondo del cambiamento con la scommessa della qualità.

Ma sappiamo tutti che sulla scuola si gioca un’idea di società e un’idea di futuro. È questo che ne fa una frontiera strategica per la democrazia, in una fase in cui le idee neoliberiste manifestano esplicitamente la volontà di ridurre al mercato l’informazione, la formazione, l’istruzione, gli stessi diritti sociali.

Noi insegnanti, così come gli altri protagonisti sociali della vita della scuola, sappiamo di avere in questo momento un compito assai delicato: tenere ben radicati i valori della scuola “secondo Costituzione” e lavorare alla realizzazione dei processi di riforma.

E questo impegno avrà senso ed efficacia se riusciremo, col nostro lavoro e con la nostra partecipazione, a rompere il silenzio sociale sulla scuola. Un silenzio a volte perforato da un chiacchiericcio disinformato e inconcludente, che accentua la condizione di solitudine della scuola stessa.

Ma una sfida culturale che  ha per tema l’idea della democrazia non possiamo affrontarla, né vincerla da soli.

    A noi spetta, e non ci stancheremo di farlo, segnalare il valore della posta in gioco, fare domande stringenti alla politica e pretendere che le prospettive dell’istruzione e della formazione siano messe al centro della partita che si apre.

    “In un momento - dice Edgar Morin – in cui i fattori aleatori e l'incertezza condizionano gli inizi e gli sviluppi, in cui l'iniziativa e l'intelligenza ritornano ad essere i fattori del gioco, allora ognuno di noi deve sentirsi particolarmente coinvolto, laddove egli si trova, nel suo luogo specifico.”

Riforme