Origini del linguaggio |
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Origini del linguaggio Franco Prattico In quale lingua Adamo ed Eva si scambiavano tenerezze e promesse di amore eterno? La stessa usata dal padreterno nello stilare il regolamento dell’Eden divieti inclusi? O quella sibilante del serpente? Insomma, se il linguaggio e' ciò che fonda l'uomo come essere pensante (e parlante), quale lingua hanno parlato i primi esseri umani prima della Babele linguistica attuale (per rimanere nella metafora biblica)? Per molti, a partire da Sant'Agostino, non v'è dubbio possibile; la lingua "santa" delle origini non può essere stata se non l'ebraico, cioè la lingua nella quale è stato scritto il Libro, la Bibbia, dettato, almeno in parte, direttamente da Dio. E se non l'ebraico "moderno", quanto meno una lingua progenitrice di tutte le lingue semitiche, ebraico, arabo, caldaico, ipotesi di cui fu fervente sostenitore Ernest Renan, uno dei fondatori della filologia comparata, una delle discipline che nel secolo scorso ha introdotto con rigore scientifico criteri evoluzionistici anche nello studio dei linguaggi. Per tutto l'800 è divampata la polemica tra linguisti, storici, filologi su questa "Lingua delle origini", frantumatasi poi negli attuali oltre cinquemila linguaggi parlati nel mondo (che i filologi oggi suddividono in trecento famiglie, a loro volta a loro volta riducibili forse a poche unità capostipite, diramazioni dell'originaria ursprache. Renan era tra i sostenitori della originarietà dell'ebraico, come prima lingua dell'uomo, contro l'opinione di altri illustri filologi, come il grande glottologo e mitologo Max Muller, che aveva raccolto l'eredita' di William Jones, il giovane studioso inglese che il 1786 aveva scoperto l'affinità' tra sanscrito, latino e greco, tutte discendenti da una primordiale lingua indoeuropea, oggi perduta e che secondo Muller sarebbe stata la capostipite non solo delle attuali lingue occidentali, ma di tutti i linguaggi umani. La polemica, alla quale non rimase estraneo neppure Hegel, divise in diversi partiti il mondo dei filologi, (al punto che qualcuno arrivò a proporre, sulla base delle proprie ricerche, che la lingua delle origini fosse stata un'antenata dello svedese o del fiammingo....) anche perché coinvolgeva la storia delle religioni (secondo Muller "la storia delle religioni è in un certo senso la storia del linguaggio"). Tanto che alla fine dell'ottocento la Società francese di linguistica, che a quell'epoca dominava questo specialistico campo di ricerche, mise al bando la questione statuendo nel secondo articolo del suo regolamento, che "non sarà ammessa alcuna comunicazione che abbia oggetto l'origine del linguaggio", nella convinzione che si trattasse di un campo così astrattamente speculativo da non consentire nessun serio approccio scientifico verificabile. Una vicenda splendidamente narrata da Maurice Olender (Maitre de Conference della parigina Ecole des haute etudes en sciences sociales) in un libretto (Les langues du Paradis. Aryens et Semites: un couple providentiel) chissà perché mai tradotto in italiano. Ma oggi il problema dell’origine delle lingue si propone sotto altre vesti, grazie alla poderosa spinta delle scoperte genetiche di Luca Cavalli Sforza e dei suoi collaboratori italiani dell’Università di Stantford, che non solo hanno consentito la ricostruzione – sulla base dei mitocondri e anche dei geni nucleari – dell’albero genealogico dei geni delle attuali popolazioni umane e dee loro migrazioni, a partire dal ceppo comune che si affacciò fuori dall’Africa circa 100.000 anni or sono, ma anche hanno reso possibile dimostrare che la diaspora nel pianeta del nostro patrimonio genetico è sovrapponibile, quasi ovunque con impressionante precisione, alla diffusine dei linguaggi. Che insomma tutte le lingue attualmente parlate sul pianeta possono venir fatte risalire al linguaggio di quella (presumibilmente piccola) tribù di Homo Sapiens che 100.000 anni or sono cominciò a diffondersi per la Terra, soppiantando dovunque (grazie forse ad una superiorità intellettuale cui probabilmente non era estraneo il linguaggio) gli altri discendenti dell’antenato comune Homo Erectus, che 1.000.000 di anni prima avevano intrapreso la loro colonizzazione delle terre emerse, ivi compresi i primi europei (i Neandertal). Una tesi ripresa da un famoso linguista americano in un libro pubblicato in questi giorni da Adelphi (Merritt Ruhlen – “L’origine delle lingue” – pag. 302, lire 60.000), questa volta principalmente sulla base del metodo di comparazione linguistica, fonetica e semantica, che ha consentito non solo di semplificare enormemente la intricata geografia delle lingue attuali e passate – in primis quelle documentabili storicamente (la prima scrittura risale ai Sumeri circa 5.000 anni or sono) – ma anche di avanzare ipotesi sensate sulle loro evoluzioni, parentele discendenze fino a tracciare ipoteticamente la loro nascita da gruppi di radici attribuibili alle prime sorgenti dei linguaggi. Un’impresa affascinante e avventurosa, che si giova delle attuali conoscenze sia delle leggi fonetiche che presiedono alla trasformazione di quegli “atomi” della lingua che sono i fonemi di cui la nostra specie è capace, a tal proposito è illuminante per il profano il Manuale di fonetica di Albano Leoni e Pietro Maturi, edito tempo fa dalla Nuova Italia), determinando così il “viaggio” fonetico e semantico dei termini di ogni lingua e in un certo senso la sua storia. Che è sempre una storia intrecciata alla vicenda umana, al rapporto dei gruppi umani della diaspora planetaria tra loro (vicende di emigrazioni, fusioni, conquiste e conflitti), con l’ambiente, con le catastrofi che hanno segnato il corso dei millenni, con la crescita delle tecniche e dell’adattamento alle più diverse nicchie ecologiche e principalmente con lo sviluppo e il potenziamento del più prezioso strumento di cui la nostra specie è venuta in possesso, la mente, che a sua volta ci ha reso capaci di raffinare e complicare anche la capacità linguistica. Un rapporto, quello tra la mente e il linguaggio, che uno psicologo inglese analizza in un volume pubblicato recentemente da Feltrinelli (Gerry T.M. Altmann: “La scalata di Babele”, 282 pagine, di lire 50.000) e che aiuta a comprendere la lingua come una creatura vivente, in continua – anche se spesso impercettibile – trasformazione ed evoluzione e che, come ogni vivente richiede un padre ed una madre: immaginando come padre un linguaggio ancestrale da cui deriva, e come madre i modelli fonetici locali, influenzati da sottili condizioni al contorno, ossia dall’intreccio con specifici caratteri intellettuali, esigenze ambietali, tradizioni comportamentali, etc. Un percorso accidentato che ha come risultato l’incredibile varietà delle lingue umane: un continente che Ruhlen nel suo libro invita provocatoriamente a percorrere in una sorta di gioco che mette alla prova le capacità di intuizione e di analisi del lettore, proponendo delle tavole di vocaboli di diversi gruppi linguistici e invitando il lettore “profano” a individuare egli stesso le affinità e le parentele tra di essi e le radici. Mentre il libro di Altmann è un invito a riconoscere la lingua come una sorta di carta d’identità di una cultura, ma anche a livello individuale: dimmi come parli e ti dirò chi sei… Andare quindi alla caccia del linguaggio delle origini - quello parlato dai nostri padri prima dello sviluppo dei processi di civilizzazione, a cui proprio i linguaggi hanno dato un così fondamentale contributo – può quindi fornirci una informazione radicale su noi stessi, sul nostro modo di agire e di comprendere e sui suoi limiti, che sono appunto i nostri limiti e in un certo senso anche il nostro destino. "La Repubblica" martedì 7 agosto 2001 |