LA VALUTAZIONE: UN POTERE CHE SI FINGE CONOSCENZA |
Cerca nel web, nel sito, nei siti amici |
LA VALUTAZIONE: UN POTERE CHE SI FINGE CONOSCENZAcreato da Yves Charles Zarka Yves Charles Zarka è professore ordinario di filosofia politica all'Università di Parigi 5 – La Sorbona. Fondatore e direttore della rivista Cités, dirige per la Presse Universitaire de France la collana Fondaments de la politique. Ha diretto il Centro di Studi su Thomas Hobbes del CNRS. E' autore di 204 pubblicazioni scientifiche, tra cui tredici monografie. Sembra che, nonostante i numerosi allarmi (avvertimenti) provenienti da più parti in questi ultimi anni, l'introduzione di strumenti di valutazione si compie attualmente in tutti i settori della società e nelle istituzioni: l'ospedale e il sistema sanitario, le istituzioni educative e formative, in generale, le università e la ricerca in particolare, il mondo della cultura e anche dell'arte, l'organizzazione della giustizia sul tema centrale del rapporto tra i delitti e le pene, infine l'insieme delle politiche pubbliche. Ma perché turbarsene? La valutazione non è il mezzo di scoprire gli eventuali difetti di un sistema, di un'istituzione o di una pratica? Non permette, con ciò stesso, di rimediarvi? La preoccupazione dell'efficacia e quella dell'uso appropriato delle entrate dello stato non sono encomiabili? La valutazione non rientra nel dovere di ogni governo responsabile qualunque sia la sua tendenza politica? Andiamo oltre: contestare la valutazione, non è garantire (appoggiare) lo stato attuale delle cose (status quo) e togliersi ogni possibilità di critica e, quindi, di cambiamento? In questo senso, la valutazione non è il mezzo di adattarsi ai rapidi cambiamenti del mondo contemporaneo? Infine, rifiutare la valutazione non è il segno (cifra, marchio) di un comportamento (condotta, pratica) conservatore? Queste domande ci pongono nel cuore dei sistemi di valutazione (lett. dispositivi); si potrebbe anche parlare di sistema (mezzo) di valutazione al singolare, poiché si tratta di sottomettere in qualche modo la società tutta intera a procedure che hanno lo stesso scopo, anche se svolte da istanze diverse. Il nocciolo del sistema è una realtà duplice: un'ideologia e un sistema. L'ideologia è, beninteso, l'apparato di giustificazione del sistema. Le domande poste esprimono abbastanza bene i diversi aspetti di questa ideologia. Ricordiamo i termini principali: efficacia, economia, adattamento, innovazione. Questi termini (parole) sono evidentemente coordinate (correlate): l'efficacia è il raggiungimento (?) di un obiettivo in modo più diretto e rapido, o la produzione del massimo di effetti col minimo di mezzi. Si comprende dunque che la preoccupazione di efficacia debba farci sentire in dovere di eliminare gli sprechi in tempo di lavoro, in finanziamento e così via. Essa permette, quindi, un'adattabilità maggiore nel mercato mondiale che raggiunge tutti i campi, non soltanto quello delle merci, ma anche il mondo della scienza, dell'Università, delle arti. Infine, le economie realizzate sulle anatre zoppe inefficienti e sorpassate potranno essere reinvestite in azioni o operazioni sempre più innovative ed efficaci. L'anello dell'ideologia della valutazione si è così chiuso. Se ne potrebbero fornire altre formulazioni, ma tutte si ridurrebbero a una medesima: giustificare l'introduzione (installazione) di un sistema di controllo sociale generalizzato e omogeneo. Ma che cosa nasconde questa spirale (anello) ideologica? Conformemente al suo principio, l'ideologia è un'immagine invertita del reale che trasforma il negativo in positivo e viceversa. Insomma, la realtà del sistema della valutazione è la paralisi, lo spreco, il disadattamento (mancanza di adattamento), l'arbitrarietà. Ciò che mi propongo di dimostrare qui mostrando l'aspetto nascosto della valutazione, il suo movente (molla, impulso) interno più profondo: un potere che si finge conoscenza. Un potere che si dà (spaccia) da solo, senza dirlo, certamente, non semplicemente come enunciatore di verità, ma più di ciò come instauratore di di valore, come norma della verità. Un potere che utilizza dei saperi o dei discorsi con pretese scientifiche, attraverso la strumentalizzazione di taluni attori di questi saperi o di questi discorsi, per assicurare la propria egemonia e coprire le proprie scelte semplicemente arbitrarie. E' precisamente questo il punto che m'interesserà particolarmente: il rapporto del potere con il sapere attraverso la messa a punto di un sistema unificato di valutazione dei saperi nella loro produzione e trasmissione. Si comprenderà dunque che insisterò sulla valutazione dell'insegnamento superiore e della ricerca.
La valutazione non è un modo qualsiasi di esame della qualità, dell'efficacia o dell'innovazione di un'azione, di una pratica, d'una ricerca, d'un insegnamento, etc. Per esempio, nel campo della ricerca da molto tempo si sono esaminati i lavori dei ricercatori o dei gruppi (delle équipes) per valutarne (stimarne) la qualità, sapere se erano effettivamente innovatori o, in ogni caso, se i risultati potevano essere considerati soddisfacenti e conformi ai progetti annunciati. Ma l'analisi e il giudizio (diretti) su un risultato o una attività erano sempre concepiti come un giudizio di un singolo individuo, membro – scelto o nominato – di una istanza, di un consiglio o di una commissione. Il giudizio aveva quindi una parte irriducibile di soggettività. Per impedire che la soggettività desse luogo all'arbitrarietà, si sottoponeva lo stesso dossier a parecchi relatori, suscettibili di essere tra loro in disaccordo. Si correggeva la soggettività con il confronto delle soggettività, non con una pretesa illusoria di oggettività assoluta - quantitativa. Inoltre, si ammetteva che non occorreva definire criteri troppo stretti perché avrebbero potuto nascondere il carattere inatteso, paradossale, particolarmente inventivo di un risultato, per esempio. Dunque ci fu un tempo in cui si esaminava, discuteva, giudicava una ricerca, un'attività, un risultato etc., senza tuttavia parlare di valutazione, né praticarla. Non voglio affatto dire che quel tempo era un passato radioso. C'erano disfunzioni, ingiustizie, talvolta dell'arbitrarietà (casualità). Si poteva nondimeno sperare che un nuovo esame avrebbe permesso di correggere un errore o una decisione ingiusta. Orbene, lungi dal sopprimere tali imperfezioni a volte gravi, il sistema della valutazione le generalizza, le oggettiva, in modo tale che la correzione attraverso un riesame diviene per così dire impossibile, perché inutile nel suo principio. Precisiamo: non pretendo che il meccanismo (dispositivo) di valutazione sia di recente invenzione se lo considera nella sua origine. La messa a punto di questo meccanismo e la sua importazione da altri campi sono avvenute nel tempo per mutazioni successive. Orbene l'ultima in ordine di tempo di queste mutazioni è l'estensione (universalizzazione) del dispositivo a tutti i campi della vita sociale, politica e culturale. Per l'informazione, cioè la ricerca e l'insegnamento superiore, l'estensione del sistema di valutazione è abbastanza recente. L'AERES è stata fondata due anni fa, il vocabolario e le procedure di valutazione risalgono a una decina d'anni circa. Non si parlava di valutazione o, in ogni caso, non tanto quanto oggi, negli anni '90. Se sottolineo questo punto, è per sventare la trappola (trabocchetto) che tendono i sostenitori della valutazione ai loro interlocutori. Se rifiutate la valutazione, dicono, allora non c'è più modo di valutare un'azione, un risultato, una ricerca. A ciò bisogna rispondere: falso! Non ci sono altri mezzi di esame, di discussione e di giudizio se non quelli che fanno parte del meccanismo di valutazione. Per capirlo bisogna tornare alla domanda iniziale: che cos'è valutare? Valutare è determinare il valore. La valutazione presuppone quindi l'istituzione (accertamento) di una scala di valori: valori positivi e valori negativi. Senza tale scala non ci può essere determinazione di valore. La valutazione presuppone poi di confrontare l'oggetto da valutare con questa scala di valori preliminarmente posta. Questo processo nasconde (ricopre) tre operazioni che sono in sé in conflitto. La prima consiste nel fissare dei valori. Questi valori sono posti prima del giudizio, poiché essi vi presiedono. Tuttavia, essi stessi poggiano su una valutazione (apprezzamento) precedente su ciò che vale e su ciò che non vale. La domanda che si pone allora è quella del valore dei valori: dei valori che sono posti (assunti) come criteri, che cosa ne garantisce l'obiettività e l'universalità? Chi ci dice che non corrispondono a un momento particolare del sapere? Come superare questo momento, se ciò che deve precisamente superarlo è giudicato a partire da valori stabiliti prima e dunque caduchi. Peggio, questi valori hanno costituito l'oggetto di una scelta, ma coloro che li hanno scelti non sono puri spiriti totalmente disinteressati, avevano perciò degli interessi particolari. Dunque chi garantisce che questi valori non sono l'espressione di interessi particolari che cercano di prevalere e d'imporsi? E' nota l'analisi di Max Weber dei valori e delle scale di valori: i "diversi ordini di valori si affrontano nel mondo in una lotta in espiabile …. .Ignoro come ci si potrebbe regolare per risolvere scientificamente" la questione del valore della cultura francese paragonata alla cultura tedesca; poiché anche là si combattono differenti divinità e senza dubbio per sempre". Si comprende quindi che nessun sistema particolare di valori ha obiettività intrinseca, un sistema particolare di valori nega implicitamente un altro sistema, a rischio (salvo a) di provare la propria universalità. Da ciò risulta che la gerarchia dei valori posti può esserlo solo attraverso un atto. L'atto di chi precisamente li pone e li impone. Un atto di volontà e dunque di potere. Ci ritornerò. La valutazione apre dunque la strada verso la contestazione indefinita dei valori, alla guerra dei valori. La seconda operazione consiste nel mascherare il carattere soggettivo e relativo dei valori posti in un momento dato. Il procedimento è semplice: consiste nel trasformare ogni determinazione qualitativa in determinazione quantitativa, attraverso la generalizzazione del computo (conteggio) e una sorta di scolastica numerica. La valutazione che è sempre soggettiva e relativa cerca di nascondersi dietro una matematica dozzinale (lett. di paccottiglia). Si comprende così la ragione della generalizzazione del computo (dati numerici): è convocata per dare un lustro di obiettività a ciò che spesso dipende da un atto di potere. Tale è la ragione dell'uso degli indicatori di calcolo (lett. contabilizzazione) che sono – nella nuova scolastica della valutazione – il "numero totale delle citazioni", il "numero di citazioni per articolo", il "fattore h ", il "fattore h relativo", il "fattore d'impatto massimo della disciplina", etc. Ecco come si sottomette tutto il campo del sapere e dell'insegnamento al regno di nuovi esperti-contabili. Lo scopo, sotto l'inganno della quantificazione, è giustificare una classificazione, una gerarchia in materia di ricerca, d'insegnamento o in qualsiasi altra materia. Dietro le cifre vi è dunque una politica, un rozzo esercizio di potere. L'ordine che il sistema di valutazione cerca di stabilire o di riprodurre, sotto l'ideologia dell'efficienza, della prestazione o dell'innovazione, è una regolazione politica delle attività. Quando dico politica, non voglio dire pubblica, ma paradossalmente: privata. Giacché il modello politico che si tratta di imporre è quello dell'impresa: fare degli universitari dei semplici impiegati dell'impresa (azienda) chiamata "Università", fare dei ricercatori semplici strumenti degli istituti di ricerca. Il che è contrario alla storia e allo spirito dell'Università, e costituisce ugualmente la negazione del senso della ricerca. Bisogna veramente non conoscere nulla né dell'Università né della ricerca per intraprendere (lett. impegnarsi) in una strada siffatta. Si potrà obiettare che sono spesso universitari e ricercatori alla base della messa a punto (introduzione, uso) di tali meccanismi e di tali funzionamenti. Diciamo piuttosto che sono vecchi universitari e ricercatori riciclati (riconvertiti) nell'amministrazione. I nuovi convertiti sono, lo sappiamo bene, i più radicali nella loro nuova fede: nell'occasione (lett. all'occorrenza), la fede secolare nella concezione manageriale dell'Università e della ricerca. E' così che si distribuiscono le risorse umane e finanziarie! I primi beneficiari ne sono coloro che sono giudicati benpensanti, conformi o suscettibili di conformarsi, di adattarsi ad obiettivi fissati preliminarmente. L'applicazione del lessico della governabilità (governo) al mondo dell'Università e della ricerca non ha altro obiettivo.E' il linguaggio stesso della visione manageriale, applicata a un mondo che non niente a che vedere con quello dell'impresa perché la libertà d'iniziativa, la libertà della ricerca e la libertà di spirito gli sono connaturati (lett. consustanziali). La valutazione è lo strumento di questa visione manageriale. Essa intende amministrare, burocratizzare, normalizzare il dettaglio delle attività e delle pratiche di cultura sottomettile a criteri di efficienza produttivista o industriale. Così c'è una buono e un cattivo governo, comune nella svolta tra il XVI e il XVII secolo si distingueva una buona e una cattiva ragion di Stato. La governabilità è una sorta di ragion di Stato, con tutto quello che tale nozione comporta di doppiezza (ambiguità) tra ciò che appare e ciò che è nascosto, la regola comune e la deroga partigiana, il confessabile e l'inconfessabile. Ma si tratta di una ragion di Stato in cui lo Stato si è privatizzato, si è subordinato a interessi privati. Come la ragion di Stato, la governabilità ha una zona d'ombra irriducibile. L'ombra è necessaria al potere che pone (fissa) e impone il sistema dei valori, instaura il controllo generalizzato. Ritornerò su questo tra un momento. Per ora mi basti dire che dietro la falsa obiettività delle cifre non c'è conformismo, sottomissione all'ordine qualunque esso sia, alle scelte momentanee del potere. La terza operazione consiste precisamente nel gioco della trasparenza e dell'ombra che abbiamo appena evocato. La valutazione non parla che di trasparenza, mentre suppone l'oscurità. Succede sempre così: i dogmatici della trasparenza sono coloro che più hanno bisogno dell'ombra. Il linguaggio della trasparenza copre l'oscurità. Essa in effetti deve coprire la ragione dei valori posti e imposti come se fossero sottintesi (ovvi come se non ci fosse bisogno di dichiararli), mentre sono stabiliti contro altri valori. Se la volontà che li pone diventasse visibile, l'arbitrarietà apparirebbe allo scoperto. L'oscurità deve allo stesso modo coprire coloro che valutano. Anche là, è un pretesto fallace di una preoccupazione di proteggere l'obiettività che esigerebbe l'anonimato di chi valuta. Si potrà obiettare che coloro che valutano sono spesso conosciuti, ma sono allora le ragioni della valutazione a non esserlo. Il linguaggio della valutazione non è mai univoco, funziona nel modo della doppia verità: quella che è pubblicata e quella che deve restare nascosta. La valutazione è così un sistema di controllo che in sé non dovrebbe rendere conto: chi controlla i controllori? Chi sono i controllori? Sono degli esperti, si dice. Ma chi nomina questi esperti? Chi ha valutato la loro capacità di valutare e la loro probità? Tutto ciò resta nell'oscurità e deve rimanerci. Il sistema della valutazione non può funzionare che nell'ambiguità e nella doppiezza. Per sottolineare tale ambiguità e tale doppiezza delle tre operazioni della valutazione, si ricorderà 1/ che la valutazione si dà come neutra e obiettiva mentre è il prodotto di una volontà particolare che cerca di imporle a una realtà e anche contro di essa; 2/ la pretesa di obiettività si manifesta attraverso giudizi di fatto compiuti attraverso una generalizzazione del computo (del conteggio, delle cifre). Ma tali giudizi di fatto non sono che la maschera della soggettività e della relatività, a dirla tutta dell'arbitrarietà dei valori posti e imposti; 3/ la soggettività e la relatività all'opera in ogni processo di valutazione devono restare invisibili, è per questo che la valutazione usa il linguaggio della trasparenza. La valutazione funziona come un potere, un potere falso sapere (?), un potere che pretende di normare e regolamentare il sapere. Il potere, la norma del vero e del grottesco Un dubbio nondimeno potrebbe sorgere a questo punto. Da dove viene questo interesse del potere per il sapere? Il sapere non è una posta molto debole per il potere? Interessa alla fine gli studiosi e i ricercatori, avendo un impatto molto piccolo sulle popolazioni che non ne misurano la portata? In compenso, l'opinione e l'immaginazione sono dei grandi poteri. Sono le padrone del mondo. Si comprende quindi che il potere voglia impadronirsene e controllarle, diventare il padrone di queste padrone. Conviene dunque considerare le cose più da vicino. Ci si accorge allora che il legame del potere al sapere non è così allentato come si potrebbe immaginare, ma è anche (addirittura) interno e profondo. All'inizio, la nostra società è una società si conoscenza, si saperi sempre più complessi. Gli atti più semplici richiedono spesso che si disponga di un sapere tecnico divenuto inconsapevole: prendere un biglietto aereo elettronico, telefonare con un cellulare, etc. Il potere non può quindi restare indifferente a questi saperi tecnici, né alle ricerche fondamentali che ne sono alla base. Il potere non può restare al margine dei saperi senza diventare esso stesso marginale nella società e non potere più stare al passo (lett. perdervi la bussola). L'interesse del potere per il sapere non dipende evidentemente da un puro desiderio di conoscenza, non è dunque la ricerca della verità in quanto tale che gli interessa, ma quello che chiamerei il processo di accreditamento di un pensiero, di un'opinione o di un discorso come vero. Ciò che interessa davvero il potere, è la verità come norma, cioè il modo in cui una certa regola in un momento dato è presa come norma del vero. Questo processo di accreditamento interessa il potere nella misura in cui pone la norma che permette di decidere tra il vero e il falso, l'accettabile e l'inaccettabile, il normale e l'anormale, l'efficace e l'inefficace, etc. In altre parole, l'accreditamento permette al potere di instaurare un certo regime di verità dei discorsi. Questo intervento del potere nel campo del sapere è dunque un intervento immanente. E inoltre è indispensabile per il potere stesso. I suoi effetti non sono soltanto cognitivi o intellettuali, ma anche sociali, giuridici e politici. Il potere introduce nel saper un ordine che bisogna bene chiamare disciplinare. Ci ritornerò tra poco. Michel Foucault aveva analizzato un processo simile in tutt'altro ambito: il ruolo della perizia psichiatrica nei tribunali, in particolare in particolare a proposito dell'economia del delitto e delle pene. Ecco la tesi generale che enunciava come oggetto stesso della sua ricerca nel corso al Collège de France nel 1973-1974, Le pouvoir psychiatrique : "Il problema che è in gioco per me è questo: in fondo, non sono proprio i meccanismi di potere, con ciò che questa parola "potere" ha ancora di enigmatico e che bisognerà esplorare, il punto a partire dal quale si deve poter fissare la formazione delle pratiche del discorso (discorsive)? Come questa regolazione del potere, queste tattiche e strategie del potere possono dar luogo a affermazioni, negazioni, esperienze, teorie, insomma a tutto un gioco della verità? Meccanismi di potere e gioco di verità, meccanismi di potere e discorso di verità, è un po' questo che vorrei esaminare quest'anno." Questa problematica che Foucault esplicita riguardo alla perizia psichiatrica mi sembrava del tutto adeguata a rendere conto del meccanismo molto più ampio della valutazione, che ha allo stesso modo i propri esperti e non è d'altronde senza invadere il campo psichiatrico. Decifrare il sistema di valutazione permettere di mettere il dito sul punto senza dubbio il più sensibile, ipersensibile dunque del rapporto tra il potere e il sapere, nella sua produzione e nel suo insegnamento. Ciò che designo accreditamento è precisamente il modo proprio con cui il potere instaura un regime di verità concepito come regime disciplinare, cioè accompagnato da ricompense e da punizioni. Ma occorre andare più lontano. Anche su questo punto le analisi di Foucault si dimostrano molto illuminanti. In effetti, nel suo corso Les anormaux (Gli anormali), Foucault analizza il ruolo del discorso psichiatrico, più specificamente delle perizie psichiatriche nell'istituzione giudiziaria. Ora queste perizie, che sono accreditate come discorso vero presso i tribunali e intervengono direttamente nel determinare il grado di responsabilità e dunque la pena inflitta, sono la maggior parte delle volte incredibili, non soltanto false ma grottesche. Sono "dei discorsi di verità che fanno ridere e che hanno il potere istituzionale di uccidere". Ben inteso, non siamo a quel punto con la valutazione. La morte istituzionale non è ancora una morte fisica. Ciò non toglie che i discorsi degli esperti di valutazione hanno uno statuto completamente paragonabile a quelli degli esperti psichiatri dei tribunali: sono discorsi che fanno ridere e che nondimeno possono condannare interi settori della ricerca e dell'insegnamento. Insomma, si tratta di discorsi grotteschi dalla pretesa di verità che fanno legge in materia di produzione e di trasmissione del sapere. La valutazione è esattamente questo. Ecco la definizione del grottesco data da Foucault: "Il fatto per un discorso o un individuo di detenere per statuto degli effetti di potere di cui la loro qualità intrinseca dovrebbe privarli." Il grottesco appare per esempio quando tali perizie pretendono non solo di giudicare la validità delle ricerche attuali, ma anche delle ricerche future, riconoscendone i "temi promettenti". Gli esperti di valutazione (che valutano) non soltanto sono istituiti (posti), per decreto ministeriale, o per semplice cooptazione, come i più dotti tra i dotti (scienziati, studiosi), ma anche come indovini che leggono, probabilmente nei fondi di caffè, quello che avrà valore nel futuro, a meno che non sia nelle linee della mano dei ricercatori che hanno appena ispezionato, o per mezzo di voci conosciute soltanto da loro. Si vede dunque come, attraverso la valutazione, il potere si pone esso stesso come un potere che si presume sapiente (esperto). L'esperto è un individuo che in virtù del potere dispone di un sapere presunto, più grande, più pertinente, più valido di quello di coloro ch'egli giudica. E' un grottesco che può fare male, molto male. Si dirà certo che tutti gli individui che dispongono di potere, per quanto piccolo, possono usarlo bene o male, e che si tratta qui di una questione di giudizio personale. A questo risponderei che ciò che caratterizza l'istituzionalizzazione della valutazione è che, lungi dall'impedire agli individui di abusare del potere che può essere loro attribuito in un dato momento, essa ve li porta inevitabilmente.
Si comincia, almeno spero, a vedere perché il sistema di valutazione produce la paralisi, spreco (sperpero), il disadattamento e l'arbitrarietà. Si può spiegarlo con un altro espediente: la mimesi della valutazione. Di che cosa si tratta? Di una dinamica che si stabilisce negli istituti di produzione e di trasmissione del sapere e che consiste in uno sforzo per uniformarsi alle esigenze della valutazione e compiacere ai "valutatori" Piuttosto che aver per obiettivo la produzione di saperi – ciò che implica prendersi dei rischi, iniziare delle ricerche il cui esito è a lungo incerto ma i cui risultati, spesso inaspettati, possono essere decisivi, aprire delle vie non accreditate in campi di ricerca non direttamente produttivi -, gli individui e i gruppi cercheranno di uniformarsi ai principi stabiliti, ai valori accreditati. Sono la ricerca e l'insegnamento nella loro totalità che possono essere contaminati dal grottesco. La resistenza è evidentemente difficile, perché suppone l'isolamento, ossia la qualificazione pubblica. La valutazione è un potere disciplinare, un potere di sanzione che ha la caratteristica di avere buona coscienza. Questa è mantenuta (provveduta) dai saperi reali o sedicenti di cui la valutazione si serve per agire (lett. praticarsi) e giustificarsi. Le cosiddette (è termine neutro) "scienze cognitive" giocano un ruolo importante in questo campo. Dovrebbe essere fatto uno studio preciso sull'uso dei discorsi della cognizione nel sistema e nell'ideologia della valutazione. Per non considerare che un esempio, basta ricordare lo sforzo che attualmente fanno i detentori delle sedicenti "scienze cognitive" per cacciare la psicanalisi fuori dall'Università. Ciò è stato mostrato a più riprese da Jacques-Alain Miller e da Jean-Claude Milner in particolare. Più ampiamente, tutte le discipline che non servono il sistema della valutazione o, peggio, possono resistergli o contestarlo sono minacciate. E' iol caso delle discipline storiche e critiche – la filosofia, la storia, eventualmente la sociologia e l'etnologia – e altre. Parecchie di queste discipline costituiscono l'oggetto di tentativi più o meno espliciti delle "scienze" della cognizione di riprenderle in mano (riconquistarle). Quali sono i risultati del sistema di valutazione? Ne ricorderò due:
La valutazione normalizzatrice si crea così degli avversari, anzi dei nemici da sradicare, da ridurre nell'ordine stesso del sapere. Questo non è soltanto il luogo di un'espressione del desiderio di conoscere, di un desiderio disinteressato di verità, ma anche un luogo di confronto e di gioco di poteri. Il nemico è chi resiste, rifiuta, contesta, anzi si rivolta (ribella) contro il sistema di valutazione. Deve tacere. Gli si toglierà quindi ogni mezzo di espressione, o si cercherà di toglierglieli. Si può immaginare quello che rischia di risultarne alla fine: un declino e una rovina dell'Università le cui conseguenze andranno molto oltre il campo del sapere. A proposito, si è cominciato a valutare il pericolo potenziale che rappresentano certi bambini di tre anni? Forse vi si troveranno futuri attori di ribellioni scientifiche. Conviene dunque normalizzarli fin dai primi segni. (Dal sito http://www.forumscuole.it/senago/contributi/la-valutazione-un-potere-che-si-finge-conoscenza ) |