CITTADINANZA |
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CITTADINANZALuciano Corradini Una parola di prestigio Cittadinanza è parola che gode di crescente prestigio, sul piano nazionale e internazionale, come altre parole del lessico corrente, per esempio diritti umani, democrazia, autonomia, professionalità, competenza. Si tratta di termini densi di significati che in parte mutano, sia nel tempo, sia in riferimento alle diverse culture: appaiono sufficientemente "freddi", e cioè "laici", scientifici, pluralistici, interculturali, ma confinano anche con problematiche "calde", e cioè affettive, ideologiche, etiche, religiose. I loro significati assomigliano alle zone sismiche e vulcaniche: tutti possono camminarci sopra, ma sotto c'è magma incandescente. La praticabilità di quei territori è presidiata da filosofi, sociologi, politici, giuristi, volontari e da "tecnici" del diritto, che transennano i luoghi dove ci si può avventurare senza eccessivi rischi, cercando magari di dilatare gli spazi di agibilità. Ma i dati di cui dispongono per esercitare la loro funzione, oltre alle norme internazionali e alle leggi vigenti in un determinato stato, dipendono dalle instabili condizioni del magma sociale sottostante. Buona parte dell'attenzione dei media si rivolge agli episodi e ai conflitti in cui si rivelano all'opera le "faglie" che fratturano gli atteggiamenti psicologici e culturali e gli schieramenti politici, in rapporto alla concezione che si ha della cittadinanza e alla disponibilità a dilatarne o a restringerne l'applicazione a questi o quei soggetti, in rapporto alle loro condizioni personali, sociali, culturali e religiose. Diritti di cittadinanza Se per il senso comune e nel linguaggio giuridico tradizionale la cittadinanza indica l'appartenenza di un individuo ad uno Stato e riguarda i problemi relativi alla perdita e all'acquisto dello status del cittadino (obblighi e garanzie, doveri e diritti, vincoli e opportunità di chi non è suddito, né straniero), nel linguaggio contemporaneo la cittadinanza indica più ampiamente e problematicamente il rapporto fra un individuo e l'ordine culturale, sociale, economico, politico e giuridico in cui si inserisce. Si parla infatti di cittadinanza civile, sociale e politica. Lo Stato è ancora garante della soddisfazione dei bisogni fondamentali dei cittadini, ma non ne è l'unico "gestore": in base alla sussidiarietà, accanto allo stato e al mercato, anche il privato sociale, per i fini sociali che persegue, fa parte del pubblico non statale. L'ordine plurale cui si riferisce la cittadinanza può essere inteso o come coestensivo con l'umanità intera, o come ancora limitato ai residenti in un territorio e ai portatori di una cultura determinata, estensibile a certe condizioni anche agli immigrati in quel territorio, che accettano o magari rifiutano di riconoscersi nella cultura in esso prevalente. Di qui le problematiche del multiculturalismo, del l'interculturalismo, dell'integrazione, della convivenza di diversi gradi e contenuti di "diversità". In senso estensivo si parla oggi di "diritti di cittadinanza" intendendo riferirsi al rispetto dovuto a ciascuno, in quanto persona umana, relativamente ai suoi diritti umani fondamentali. Non è però facile stabilire: 1) che cosa sia veramente fondamentale per tutti; 2) in quali sedi siano "azionabili" questi diritti di cittadinanza; 3) quanto sia giusto e doveroso impegnarsi ad esercitare i correlativi "doveri di cittadinanza" (di cui per il vero non si parla molto); 4) come si debbano risolvere i conflitti fra gli stati che negano diritti riconosciuti da altri stati e magari dalle norme internazionali, i cui strumenti di tutela (organismi, polizie e tribunali internazionali) dipendono però spesso dal contributo e dal consenso di quei medesimi stati che nel loro ambito non rispettano quei diritti. Criminalità internazionale e volontariato internazionale, dalle mafie ad Amnesty International e alla Caritas, per limitarsi a due citazioni emblematiche, percorrono le medesime vie della globalizzazione con intenti opposti. I ricchi e le mafie sanno utilizzare la machinery del diritto meglio dei poveri. Ci sono stati che permettono cose che altri vietano, contribuendo alla incertezza giuridica e alla instabilità politica internazionale. Che tutto ciò non sia solo materia di gialli, ma di conoscenza e di dibattito, in vista di un orientamento personale responsabile, è questione che interpella in vario modo l'educazione. Saperi di cittadinanza: una questione non solo cognitiva La pedagogia, in riferimento alle problematiche emergenti e allo sviluppo delle indagini sociologiche, antropologiche, psicologiche e politologiche, dedica attenzione crescente, in riferimento all'educazione formale, informale e non formale, in età infantile, adolescenziale e adulta, alla tematica della cittadinanza, sempre più cruciale in un contesto di globalizzazione e di migrazioni sociali. È però consapevole della complessità e della polivalenza di una problematica che non si presta ad una "curricolazione" disciplinare da definirsi una volta per tutte con un programma determinato. La ricerca comparativa mostra l'esistenza di ter mini, di contenuti e di metodi diversi per indicare l'approccio alla e alla civil education e alla civic education. La scuola avverte di non poter "girare al largo" da questi luoghi, rifugiandosi nei presunti territori asettici delle discipline tradizionali e delle nuove tecnologie, ma neppure s'illude che si possa camminarci sopra con "scarpette di tela", e cioè con intenzioni di semplice buona volontà, con arie di sufficienza, con pregiudizi variamente mascherati, che diano vita a chiacchiere o a risse inconcludenti o a scetticismi rinunciatari. Tanto più che la società civile che raccomanda, in sedi internazionali come il Consiglio d'Europa, l'UNESCO, l'UE, di educare alla cittadinanza 1), manifesta poi vistose difficoltà e contraddizioni nel conflitto fra valori affermati e comportamenti vissuti. Ciò vale in particolare per il nostro Paese che, all'indagine storica e sociale, rivela vistose carenze di spirito civico-politico, solitamente attribuite alle vicende che ne hanno caratterizzato la storia, e in particolare ad una sorta di sottoalimentazione di tipo etico, culturale e sociale. È sintomatico che, a proposito del pagare le tasse, un ministro in carica dica che l'evasione è un furto, mentre il capo dell'opposizione lo neghi, dicendo che le tasse sono solo il corrispettivo di servizi effettivamente fruiti. Ideologismi e affarismi offuscano la chiarezza della visione, richiedendo un supplemento di prudenza e di spirito critico in materie che in altri tempi apparivano di solare evidenza. ("Dio e popolo", "Dio, patria e famiglia' ; "credere, obbedire, combattere", "arricchitevi..."). L'espressione saperi di cittadinanza con cui si tende a legittimare un insegnamento/apprendimento adeguato non solo alle istanze del mercato del lavoro e della competizione internazionale (Consiglio europeo di Lisbona 2.000) ma più ampiamente e profondamente a quelle espresse nel "patto costituzionale" italiano (1947) e nel "patto di convivenza planetaria" (ONU, Dichiarazione 1948) sembra voler ridurre al solo piano delle conoscenze tutto ciò che serve a "collocare nel mondo" i giovani, con probabilità di sopravvivenza e di sviluppo individuale e planetario. La conoscenza è certo importante, ma non basta a dar conto della dinamica dell'educare alla cittadinanza. Secondo questa prospettiva non è sufficiente occuparsi del sapere e del saper fare: bisogna anche farsi carico degli atteggiamenti e, per quanto possibile, dei relativi comportamenti, ossia dell'uso che si fa e che si impara a fare di questi saperi. Farsene carico non significa "pretendere" o "costringere", ma orientare, motivare, incentivare, disincentivare, convincere, appassionare, sorreggere, correggere. Si tratta di termini vicini al comprensivo e un po' impreciso educare, piuttosto che al più preciso ma più asettico istruire. Etica pubblica: i diritti della cittadinanza Lo sviluppo della Repubblica si giustifica e si mantiene in vita solo se riconosce diritti inviolabili, richiede l'esercizio di doveri inderogabili, ma rimuove altresì "gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (Cost. art. 3). L'orizzonte di senso e il motore di una Repubblica capace di promuovere libertà e uguaglianza nei suoi cittadini sta infatti nel riferimento alla partecipazione alla vita della società organizzata e alla promozione del "pieno sviluppo della persona umana". Partecipazione "di tutti i lavoratori", dice l'art. 3 della Costituzione, ma l'art. 4 dice che "ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo la propria possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società". La cittadinanza dunque non è "gratis", e non la si paga con i denari, ma con l'esercizio di un'etica pubblica che presuppone la coscienza del dovere e non il semplice obbligo sanzionato dalla legge. Si trova qui il nesso fra 1-educazione ai principi fondamentali della convivenza civile", come si esprime la legge 53/2003, e l'educazione alla cittadinanza, che di questa è parte: si regge sulla continuità fra etica, sociabilità, socievolezza, solidarietà, civismo, cultura: e in particolare sulla fiducia in sé, negli altri e nelle istituzioni, come nota Paul Ricoeur: fiducia da alimentare nonostante le delusioni patite, anche per motivare la partecipazione sociale e politica. Si è detto etica, perché la sua formale e inamidata sorella minore, l'etichetta, non basta a rendere civili coloro che si accontentano di adattarsi alle convenzioni del "bon ton". Civiltà significa non solo cultura, ma interiorizzazione di atteggiamenti e sintesi di valori. Le virtù pubbliche necessarie a rendere un popolo civile non possono reggersi a lungo sui vizi privati. Senza civile convivenza, la cittadinanza diventa materia di polizia e di tribunali, di muri divisori e di carceri, di bandiere bruciate, di sequestri e di suicidi-omicidi, più che garanzia di pacifico esercizio di diritti e doveri. La buona educazione che non è semplice galateo, ma che non trascura le "buone maniere", era, anche per gli autori della Costituzione francese del 1795, la base per l'educazione alla cittadinanza: vi si legge, infatti, che nessuno può essere "buon cittadino se non è buon padre, buon figlio, buon fratello, buono sposo, buon amico". Non è possibile, in sostanza, nella formazione della coscienza, una separazione netta fra privato e pubblico, fra sentimento e ragione, fra abitudine e convinzione, fra pensieri, parole, comportamenti. Se il diritto deve fermarsi ad un certo punto e non occupare tutto lo spazio dell'etica, in educazione non è possibile volere i frutti dell'urbanità, del civismo, della legalità, dell'impegno politico illuminato, in una parola della cittadinanza, senza promuoverne le condizioni interiori. Il che non significa sempre riuscirci. L'etimologia: un lungo percorso L'etimologia della parola, prima che la complessa storia del concetto, ci aiuta a capire anzitutto di che cosa si tratta: viene da civis, che vuol dire residente, accasato, che ha stabile dimora in un paese: è sinonimo di incola o inquilinus, e cioè abitante, in contrapposizione a peregrinus, nomas, vagus, sine tetto ac sede: dunque il rapporto stabile col territorio è ciò che costituisce la condizione originaria del cittadino: è perciò un bene posizionale, da cui dipendono altri beni, più o meno pregevoli, in rapporto a quanto abbia saputo fare quella determinata civitas a beneficio dei suoi abitanti. La cittadinanza è anzitutto il complesso dei cittadini residenti in un determinato luogo, che in quanto tali si differenziano da tutti gli altri, quelli che abitano in un altro luogo e quelli che vagano nelle selve o sui mari, parlano altre lingue e sono perciò detti selvaggi o barbari: genti da guardarsi con timore o con sospetto, che nella migliore delle ipotesi possono considerarsi hospites, nella peggiore hostes. Ma l'ospite nel mondo greco era sacro, come ricorda lo stupendo episodio omerico di Ulisse, che giunge come naufrago irsuto ed esausto sulla spiaggia dove gioca la bella e saggia Nausicàa ("vengono tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro") e dove solo dopo l'ospitalità ricevuta dai Feaci potrà dimostrare la sua dignità regale (Odissea, 6) Cittadinanza però, oltre che la totalità dei cittadini, significa anche il titolo di appartenenza a questo gruppo e a questo posto: il quale è ad un certo punto chiamato città, aggregato di edifici spesso circondato da mura, contrapposto a campagna, selva, montagna, vasto e vago territorio circostante, abitato talora da villani o contadini e pastori, ma anche da selvaggi, barbari, nemici, predoni. Se però si risale ad etimi più antichi, troviamo in civis una radice kei, che significa insediarsi, verbo che, nel sanscrito cova, significa caro. Dunque il luogo non è considerato da sempre un possesso, ma originariamente una conquista: e non è solo un dato di fatto, ma un oggetto di affetto, di attrazione: sono le premesse affettive della patria. Cittadini del mondo Anche presso gli antichi stoici era emersa l'idea che questa patria non fosse solo il villaggio in cui si è nati e neppure la città o lo Stato di cui si è cittadini, ma il mondo intero, per quanto sommariamente conosciuto. Sicché anche prima del moderno illuminismo cosmopolita qualche saggio si riteneva cittadino del mondo, mentre i più si ritenevano legittimi abitatori dei centro del mondo, e cioè veri uomini, a differenza di tutti gli altri popoli, ritenuti meno uomini o addirittura semplici animali. In queste condizioni, almeno da un punto di vista ideale, il termine cittadino coincide col termine uomo. Non avrebbe dunque senso, secondo questa accezione "ingenua", ma anche filosoficamente e giuridicamente sostenibile, parlare di diritti dell'uomo e del cittadino: basterebbe parlare dei diritti dell'uomo, ossia dei diritti umani, di uomini e donne. La realtà socio-politica si incarica però di informarci che la strada per giungere a questa identificazione è ancora lunga. Comportamenti ostili e violenti di questo o quel popolo o gruppo hanno provocato e provocano reazioni di tipo difensivo ed escludente, che inducono a cancellare perfino la memoria di usanze, di principi e di norme di tipo universalistico. Ma nel passato non si trova solo barbarie. Politèuesthai, vivere da cittadino Se lo Stato è la forma politica tipica della modernità, nel mondo antico troviamo la città (donde "cittadino", e non "statuivo"). Per Aristotele la città è una comunità articolata, fatta di cittadini la cui caratteristica è la politèia: il verbo che la esplicita in senso dinamico, politèuesthai, significa essere, vivere da cittadino (alla lettera: cittadinare), aver parte nell'esercizio dei pubblici affari, in vista degli scopi della città, che riguardano la virtù dei cittadini, ossia l'esercizio di una "vita buona" fra uguali. Anche Cicerone parlerà, nella civitas romana, del dovere di partecipazione alla res publica e vedrà le leggi come condizione di libertà (` legum servi sumus, ut liberi esse possimus). Uguali però per gli antichi non erano tutti gli abitanti della città: gli schiavi, necessari alla vita comune, non erano cittadini. Così i figli che, fino alla minore età, erano sottoposti al pater, familias. È presente nella memoria di tutti l'apologo del console Menenio Agrippa (V sec. A.C.) che, per convincere i Plebei a scendere dall'Aventino, paragonò la vita della società a quella di un corpo che vive della collaborazione fra lo stomaco e le membra. Il populus romanus non è multitudo disordinata, ma un'unità gerarchicamente articolata, che condivide valori comuni, anche se i suoi soggetti hanno dignità, diritti e doveri diversi. La metafora del corpo fu utilizzata anche da San Paolo, pur orgoglioso d'essere civis romanus, per giustificare la differenziazione dei carismi e dei ruoli nella Chiesa, concepita come organismo universale. Si pone qui, anche in riferimento alla fondamentale distinzione di Cristo ("A Cesare quello che è di Cesare, a Dio quello che è di Dio") [Mt, 22, 15-22], la premessa per la "paràdoxos politèia" della "società spirituale" dei cristiani, di cui parla la famosa Lettera a Diogneto (I1 secolo), documento di cui si ignora l'autore. I cristiani, secondo questo testo "si conformano alle usanze locali nel vestire, nel cibo, nel modo di comportarsi. (...) Abitano ciascuno nella propria patria, ma come immigrati che hanno il permesso di soggiorno (...) Ogni terra straniera per loro è patria, ma ogni patria è terra straniera (...) Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con la loro condotta vanno ben al di là delle leggi". Senonché differenziazione di ruoli per il bene comune non significa istituzionalizzazione della differenza di classi, come avvenne con Diocleziano (III sec), che pretese di obbligare i figli ai mestieri dei padri. Non ebbero così il modo di godere dei diritti concessi dal suo predecessore Caracalla, che nel 212 aveva esteso la cittadinanza romana a tutti i sudditi liberi dell'Impero, con "La città fa liberi" Il medioevo ereditò le grandi idee della Politica aristotelica e del Corpus iuris giustinianeo, ripensandole prima nel contesto del feudalesimo (che vedeva un imperatore quasi solo formale al vertice della piramide dei feudatari, la cui base era fatta di contadini, pastori e artigiani), poi della rinascita delle città nella vita comunale, che riprendeva l'idea antica della libertà ("la città fa liberi"), anche se la contrapposizione tra le fazioni legittimava l'esilio per i vinti. Il conflitto fra Papato e Impero è frutto dell'oblio della Lettera a Diogneto e produce una nuova lacerazione fra le due "cittadinanze", questa volta entrambe terrene. Dante, vittima di questa lacerazione, e costretto all'esilio, mette in bocca a Giustiniano l'elogio dell'Aquila imperiale come simbolo di giustizia universale, non sequestrabile da un partito, come quello dei ghibellini. È infatti contrario a "chi 1 s'appropria " (ghibellini) e chi a lui s'oppone (guelfi, che pretendono di monopolizzare Cristo e il Papato)" (Par, VI, 32-34). Dall'obbedienza al sovrano ai diritti del citoyen L'età moderna tende a superare le frammentazioni politiche medievali, prima attraverso la riconduzione all'obbedienza al sovrano di tutte le categorie presenti nei regni che ricuperano potere dall'alto e dal basso, secondo la teorizzazione di Jean Bodin, poi attraverso la dottrina del diritto naturale, a cominciare dal precursore Francisco da Vitoria, domenicano docente a Salamanca, ritenuto uno dei fondatori del diritto internazionale. In seguito il contrattualismo domina a lungo la filosofia politica: se per Hobbes è lo Stato assoluto il garante del patto sociale, nel modello di Locke la radice della legittimità dello Stato è collocata nella libertà e nella proprietà. Con l'illuminismo e con l'esperienza delle rivoluzioni, inglese, americana, francese, si vuol prendere congedo da un passato (frettolosamente accusato di oscurantismo), per affermare i diritti del citoyen, in realtà della emergente borghesia. La cultura dell'illuminismo e del giusnaturalismo, passata attraverso la contraddizione del Terrore e della Dea Ragione, non va perduta con Napoleone e con Tolleranza e laicità, sia pure con diverse declinazioni, costituiscono una conquista dell'età moderna e contemporanea. È questa l'esperienza che manca al mondo islamico, ancora in gran parte legato ad una concezione teocratica dello Stato e del diritto. Oltre (ed entro) i confini Universalismo e nazionalismo convivono nelle dinamiche della storia, portando in primo piano la problematica dei confini. Sono questi che rompono gli spazi della Terra e forniscono una qualche legittimità agli stati con cui le diverse realtà sociali si costituiscono in comunità politiche, dotate di poteri normativi capaci di assicurare appartenenza e identificazione ad alcuni e di escludere tutti gli estranei. Ma i confini non sono tanto barriere naturali, quanto frutto di decisioni di chi è in grado di imporsi e di pattuire con gli altri la propria sovranità. Dentro i singoli stati si esercitano i poteri di tipo politico, giuridico, e in qualche modo anche culturale, economico e religioso. Di fatto però l'attività economica e la fede religiosa hanno sempre tentato di fuggire oltre i confini e di stabilire relazioni con tutti i popoli, in sinergia con le istanze della scienza e della cultura, che rivendicano libertà e aperture universali. Si pensi alle università, che proclamano orgogliosamente di "ignorare le frontiere" 2). Le dinamiche della globalizzazione, oggi esplose, sono in moto fin dall'età moderna, rendendo sempre più difficile alla politica e al diritto l'identificazione e la difesa delle "cittadinanze" dei residenti e quelle degli immigrati, alcuni dei quali rivendicano appartenenze proprie, sulla base di diverse tradizioni, culture, norme. La stessa nostra Costituzione, riconosciuti i diritti inviolabili dell'uomo, e cioè di tutti gli uomini, riconosce poi ai soli "cittadini" il diritto al lavoro (art. 4) e la libertà di "circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salve le limitazioni di legge" (art. 16), mentre prevede normative particolari per definire la condizione giuridica dello "straniero" (art. 10). Immigrazione, conflitti e norme per una cittadinanza "civile" È questa una delle più complesse e combattute "zone sismiche" della politica italiana ed europea. Sono in gioco da un lato la validità dei diritti "panumani", il cui solenne riconoscimento costituisce forse la più grande conquista civile e giuridica del secolo scorso; dall'altro le norme più o meno illuminate dei singoli stati, che si fanno carico di regolare gli equilibri demografici, culturali, religiosi, economici e politici, in rapporto alle popolazioni residenti e a quelle immigrate, in cerca di opportunità di vita non ottenute nei rispettivi paesi di provenienza. Il terrorismo internazionale, di prevalente matrice islamistica, ma non identificabile con la religione islamica, complica le cose e rende tanto difficile quanto necessario sviluppare percorsi di dialogo interculturale e interreligioso e far prevalere per tutti la ragione del diritto, caratteristica della civiltà europea, mentre in altre parti del mondo gruppi fondamentalistici utilizzano talora, accanto a norme di antica saggezza, anche codici barbarici di comportamento, pur avvalendosi degli strumenti della tecnologia e del diritto dell'Occidente. In ambiente scolastico questa materia entra in vario modo: il ricorso alla cronaca e al dibattito demografico, sociologico, geografico, filosofico, teologico, giuridico e politico consente di attivare il dialogo e di motivare la ricerca, in termini interdisciplinari. Lavori come quelli di Oriana Fallaci, di Franco Cardini, di Magdi Allam, per citarne alcuni, possono consentire approfondimenti della problematica storica, a livello geopolitico, non meno che la problematica bioetica, dalla cui comprensione e dalla cui responsabile gestione dipende gran parte del futuro dell'umanità e della stessa vita del Pianeta. Il rapporto fra religione, scienza, diritto e politica, esplorato nel dialogo fra docenti di diverse discipline, in chiave diacronica e sincronica, può consentire di offrire ai giovani l'occasione per costruirsi le coordinate di pensiero e di atteggiamento utili ad affrontare in modo provveduto la vita adulta in quanto persone, cittadini e lavoratori. La cronaca quotidiana di sbarchi sul nostro territorio di "extracomunitari", accompagnati da sofferenze e tragedie, la storia di delitti attribuiti con troppa disinvoltura agli immigrati, i complessi problemi di sfruttamento cui molti di questi sono sottoposti, la difficile, talora rifiutata integrazione di immigrati nel nostro paese, pongono il problema di un continuo ritocco della normativa che regola questa materia. Dopo la legge Martelli, La cosa dovrebbe essere ovvia anche per coloro che nascono in Italia e frequentano le nostre scuole. Di fatto la problematica della cittadinanza si arricchisce sul piano europeo, attraverso un lento ma costante processo di definizione giuridica dello status del cittadino europeo. La cittadinanza europea: dal trattato di Maastricht alla Costituzione europea Il Trattato di Maastricht del 1992, con disposizione ora recepita nel Trattato di Costituzione per l'Europa (art. I-10), ha istituito la cittadinanza europea , che comporta:
Si aggiunge ora il diritto di rivolgersi alle istituzioni e agli organi dell'Unione in una delle lingue della Costituzione e di ricevere una risposta nella stessa lingua. Il 7 dicembre 2000 gli organi dell'Unione proclamarono solennemente la `Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea', nota come “Carta di Nizza”. Il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa, sottoscritto a Roma il 29 ottobre 2004 dai venticinque Stati che attualmente compongono l'Unione europea, ha comportato qualche passo in avanti verso la configurazione di un'Europa di tipo federale e ha recepito nella Costituzione Dal 3 maggio 1999 la nostra moneta è l'euro. E uno strumento importante, costruito con sapienza e tenacia da una minoranza di tecnici e di politici illuminati, che hanno indotto gli stati europei, a lungo configgenti fra loro e gelosi delle rispettive politiche monetarie, a consentire, come recita l'art.11 della nostra Costituzione, "alle limitazioni della sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni". Oltre che pratico strumento di comunicazione e di scambio, l'euro è un simbolo che rappresenta lavoro, equità, sviluppo, e che anticipa una difficile e originale unione politica. C'è modo e modo di pensarsi cittadini europei. Nell'Ottocento si parlava, con Giuseppe Mazzini, di missione, e con Vincenzo Gioberti, di primato morale c civile degli italiani. Le condizioni attuali non ci consentono di avere questa lucidità e questo orgoglio, ma non sarebbe giusto né utile procedere nella via dell'autodenigrazione, forse per non impegnarsi ad essere all'altezza delle nostre tradizioni e delle nostre possibilità. A quali condizioni si può restare in Europa? Con quali idee, con quali forze, per dare quale contributo? C'è bisogno di una sorta di "valigia per l'Europa", in cui mettere un "pacchetto" di conoscenze, di idee, di atteggiamenti, di valori, che non si riducono alla conoscenza dell'inglese e dell'informatica. Siamo in marcia verso un'istituzione inedita, che potrebbe chiamarsi USE, Unites States of Europe, in italiano SUE. Stiamo rifacendo, fra molti contrasti e in un clima infelice, parte della Costituzione Italiana, che andrebbe aggiornata col consenso di tutti. Ciò si dovrebbe fare senza rinunciare alla sua prima parte, scritta all'indomani di una guerra, di cui si voleva evitare la ripetizione (v. voce Costituzione e memoria). I semplici e grandi principi che furono scritti sulla Carta sono come un tesoro nascosto, scoperto dai nostri nonni nelle carceri e nei campi di concentramento, che noi dovremmo aver sempre dinanzi agli occhi, come suggerisce il Preambolo alla Dichiarazione universale, votata il 10 dicembre 1948. Le "radici" e il pluralismo della civiltà europea I principi fondamentali delle carte internazionali guidano fra l'altro la vita e l'attività di un altro grande cantiere in costruzione, l'ONU, la più grande "casa istituzionale" disponibile sul Pianeta. Sui nostri edifici pubblici il Parlamento ha deciso che sventolino la bandiera italiana e quella europea. Insieme a quella italiana ci identifica la bandiera di un'Europa fatta da undici stati con la moneta unica, venticinque aderenti all'UE, una unione aperta all'ingresso di altri Paesi all'Est europeo, impegnata ad aiutare altri popoli ed altri stati ad uscire dal sottosviluppo e dalla guerra. Nel Preambolo del Trattato costituzionale, gli Stati firmatari dichiarano di ispirarsi "alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell'Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della democrazia, della libertà, dell'uguaglianza e dello Stato di diritto". Non si parla esplicitamente di "radici cristiane", ma è innegabile che queste contribuirono in maniera determinante alla crescita dell'albero della civiltà europea, insieme alla cultura ebraica, a quella greca e a quella romana, con notevoli contributi anche di quella islamica, per non parlare della rivoluzione scientifico tecnica, illuministica, liberale, democratica, socialista, laica, pluralistica. L'articolo 1,2 precisa che "l'Unione si fonda sui valori della dignità umana, Biella libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei Diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a una minoranza. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini". L'Europa a scuola Si tratta, rileva il documento, di "includere esplicitamente questa dimensione nei programmi scolastici, in tutte le opportune discipline, ad esempio, letteratura, lingue, storia, geografia, scienze sociali, economia e arti", e anche di assicurare che il materiale didattico tenga conto degli obiettivi comunitardi. Il Libro verde sulla dimensione europea dell'insegnamento, elaborato dalla Commissione dell'Unione europea e diffuso nel settembre 1993, individua come primo obiettivo della dimensione europea la promozione della cittadinanza europea in una prospettiva di comprensione interculturale e di democrazia: "Il rispetto delle identità e delle differenze culturali ed etniche, la lotta contro tutte le forme di sciovinismo e di xenofobia, sono componenti essenziali dell'azione comunitaria in materia di istruzione. 1 sistemi di istruzione nazionali non debbono soltanto mirare a perpetuare le rispettive culture, devono anche formare i giovani su tematiche quali la democrazia, la lotta contro le ineguaglianze, la tolleranza e il rispetto delle diversità". Nel nostro ordinamento scolastico, la dimensione europea è stata introdotta a pieno titolo per effetto dell'art. 126 del Trattato di Maastricht, espressamente richiamato dall'art. 4 del Testo unico delle nonne sull'istruzione (DPR 16 aprile 1994, n. 297). La legge 53/2003 afferma che nel sistema educativo di istruzione e formazione "sono promossi il conseguimento di una formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione, e lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea" (art. 2,1, b). Siamo il paese europeo più europeista, ma forse quello in cui l'identità nazionale è più debole, il senso dello stato e della legge più confusi. Occorre chiedersi se riusciamo a coltivare il nostro essere italiani e il nostro essere europei, per essere più civili e per stare meglio al mondo, nella nostra pelle, nella nostra scuola, nella nostra Italia, nella nostra Europa, nella nostra Terra. Identità personale e solidarietà mondiale sono le categorie chiamate in causa dal Progetto Giovani e dal Progetto Ragazzi 2000 del Ministero della PI, nello scorso decennio. Gli slogan con cui sono stati presentati sono ancora attuali: "star bene con se stessi, in un mondo che stia meglio; star bene con gli altri, nella propria cultura, in dialogo con le altre culture; star bene nelle istituzioni, in un'Europa che conduca verso il mondo". Non si vede inconciliabilità fra il proprio benessere, quello degli altri e quello delle istituzioni: a condizione che si sappia e si voglia decentrarsi, sul piano psicologico, culturale, politico, per cogliere il bene comune come interconnesso col bene personale e per impegnarsi in questa direzione. Gli psicologi dicono che la fiducia e la solidarietà fanno bene alla salute. È anche vero che costano, talora molto caro. Cittadinanza multipla: il "noi" come bene comune Il concetto di cittadinanza multipla (o `plurima') esprime l'appartenenza di ciascun individuo a più ambiti: mondiale, continentale (per noi, europeo), nazionale e regionale/locale. Si tratta qui di cittadinanza identitaria, frutto di consapevolezza, di cultura, di coscienza. Si tratta di avvertire come propri i problemi appartenenti ai diversi livelli dell'umanità di cui si è parte, non solo sul piano morale e giuridico. Montesquieu riconosceva il primato della appartenenza al genere umano, rispetto alla patria e alla famiglia: "Se sapessi che qualcosa può essere utile a me, ma dannosa alla mia famiglia, la scaccerei dalla mente. Se sapessi che qualcosa può essere utile alla mia famiglia, ma non alla mia patria, cercherei di dimenticarla. Se sapessi che qualcosa può essere utile alla mia patria, ma dannosa all'Europa, o utile all'Europa, ma dannosa al Genere Umano, la considererei come un crimine"3). Questa idea è formulata in altro modo, e con grande vigore ideativo ed espressivo, da Gandhi: "I doveri verso se stessi, la famiglia, la nazione, il mondo non sono interdipendenti l'uno dall'altro. Non si può servire la nazione facendo torto a se stessi e alla famiglia. Similmente non si può servire la nazione facendo torto al mondo. In ultima analisi dobbiamo morire affinché la famiglia possa vivere, la famiglia deve morire affinché la nazione viva, la nazione deve morire affinché il mondo viva"4). Ai nostri giorni l'avanzata della globalizzazione (o mondializzazione) produce, per reazione, un moto di ripiegamento sul locale, esasperando la dialettica tra il globale e il locale, sintetizzata nel neologismo 'glocal' ('global' + `local'). Il "noi" si fa sempre più piccolo, mentre la natura dei problemi esistenziali, sociali, ecologici e politici richiede che si dilati sempre più, fino ad includere tutta l'umanità. Ciò vale non solo sul piano concettuale, ma anche sociologico, etico e sociale, nella prospettiva di solidarietà sempre più "lunghe". Tra questi estremi si tende ad affermare il ruolo dell'Unione europea come soggetto più idoneo, rispetto agli Stati nazionali, a esercitare una mediazione tra i termini estremi. È importante, per il nostro inquieto e rissoso paese, essere "disciplinati" dall'Europa: è però importante concorrere a costruire la vision e la mission dell'Europa e contribuire al suo governo, senza complessi di inferiorità. I cittadini non sono solo "consumatori" ma sono, e più dovrebbero essere, anche "produttori di cittadinanza", con la cultura che si elabora anche nelle scuole e nelle università. Note1) Per il nostro Paese ciò è previsto nell'ambito di una più profonda e più ampia educazione ai fondamenti della convivenza civile) di cui alla legge 28.3.2003, n. 53, crede dell'educazione civica (dpr 13.6.1958, n. 585). 2) 3) Montesquieu, Cahiers (1716-1755), cit da P. A. Taguieff, La forza del pregiudizio. Saggio nul raZrisnu) e sull'antirazzismo, trad. it., Il Mulino, Bologna, 1994. 4) M.K.Gandhi, Antiche come le montagne, Comunità, Milano, 1978, p. 163. (Da "Voci della scuola", Vol. VI, Tecnodid) |