Essenzializzazione


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Ricerca personalizzata

I concetti storici essenziali, per discutere di patrimonio europeo, e di temi connessi, fra i quali l’intercultura

Di Antonio Brusa

 

Nei discorsi sul patrimonio europeo, ricorrono molti concetti, quali eredità, origini, radici, ecc In molti casi, sono autentiche “metafore”.  Per il loro uso corretto, dunque, occorre fare attenzione a questa loro allusiva e non realistica. L’albero ha radici vere; una società le ha solo metaforiche. Nella discussione corrente (ma anche in molte argomentazioni storiche) ci si dimentica di questo aspetto, e si tende a immaginare che effettivamente “sotto quella data città” si stendano le sue radici; o che effettivamente una società lasci la sua “eredità” a quella successiva, come accade all’interno di una famiglia per bene.

Gli antropologi conoscono questo processo cognitivo, e gli hanno dato un nome: “essenzializzazione”. Consiste nella trasformazione di concetti analitici (usati cioè per la ricerca, e dunque in contesti molto rigorosi) in concetti realistici, come se si riferissero a realtà effettive. Gli storici usano effettivamente “eredità, patrimonio, radici” ecc. Ma li usano come termini che si riferiscono a fenomeni particolari (in genere si tratta di scambi o di passaggi di singoli elementi culturali). Quando, invece, vengono essenzializzati, miracolosamente acquistano una loro consistenza: diventano essi stessi dei soggetti storici.

Il caso più significativo è senz’altro quello che ha caratterizzato il concetto di “cultura”. Se lo si essenzializza, lo immagineremo come una qualcosa che ha suoi “confini”, una sua “fisionomia”, una sua “realtà”: come se fosse una montagna, una persona, una città. Invece, il termine indica uno degli aspetti più astratti e inafferrabili della vita sociale umana. Chi ha mai “visto” una cultura? Chi ne ha mai osservato e percorso “i confini”? Una cultura è un insieme, mutevole e cangiante, di “tratti culturali”: azioni, credenze, teorie, comportamenti, che, come se fossero le molecole di un gas (ahimé altra metafora!) si spostano in continuazione, si aggregano e si ricompongono.

L’essenzializzazione della cultura è un fenomeno per nulla spontaneo, derivante dall’abuso della scienza antropologica. Al contrario, è avvenuto all’interno stesso della disciplina (si ricordano a questo proposito il culturalismo americano e Franz Boas) e di qui si è diffuso nel resto della società. Ma una “cultura essenzializzata” si accompagna sempre a un punto di vista ben preciso. Lo richiede con forza: se esiste come realtà, infatti, occorrerà difenderla, preservarla, conservarla pura e intatta. Ma per converso, anche chi sostiene una cultura “aperta” compie lo stesso errore di essenzializzazione, se immagina che occorra “meticciarla” con le altre, senza paura. Come se esistessero culture pure e culture meticce, e non fossero, per definizione e storicamente, tutte meticce.

Ma se il processo di essenzializzazione della cultura appartiene al dibattito antropologico, in ambito storico-didattico è stato individuato da molto tempo un processo cognitivo analogo, che ci aiuta a capire che cosa accade, quando si discute correntemente di fenomeni astratti: la personalizzazione. A partire dagli gli anni ’60 e ’70 esistono, infatti, una certa quantità di studi che mostrano come i bambini, i giovani e in generale gli adulti non acculturati, tendano a personalizzare queste astrazioni. La “Francia”, la “classe operaia” tendono ad essere immaginate come persone reali, e le loro azioni “ribellarsi”, “unificarsi” ecc, diventano paragonabili a “comprarsi un gelato”, “litigare con un amico”.

Si tratta, riassumendo, di tre processi cognitivi analoghi (reificazione della metafora, essenzializzazione e personalizzazione), che presiedono alla costruzione del senso di un complesso di concetti che vengono utilizzati nei contesti più diversi (da quelli scientifici a quelli della vita quotidiana e dei media), quando si discute intorno ai temi dell’identità e del patrimonio.

Ciò che preoccupa, di questi concetti, è che, una volta che vengano appresi e usati nella loro versione essenzializzata, intervengono pesantemente (per quanto in modo del tutto inavvertito) sia nella strategia dell’argomentazione, sia negli esiti del discorso. Predeterminano, in qualche modo, le conclusioni: se, in pratica, le “radici” sono immaginate come un qualcosa di concreto e reale, allora si tireranno appresso tante altre metafore (dall’innaffiarle, al preservarle, all’evitare di tagliarle), anch’esse percepite in forma realistica e condurranno quasi inevitabilmente alla conclusione che bisogna intraprendere quella tale iniziativa giusto “per non tagliare le nostre radici”. Argomento da considerarsi definitivo: e chi mai vorrebbe, in effetti, tagliare le proprie radici?

In questo modo un termine, nato per essere adoperato nella ricerca (e quindi come strumento euristico, di apertura ai dubbi e all’inchiesta continua) si trasforma in un guardiano della conservazione. Una trasformazione che, indubbiamente, lo snatura.

Nei processi di formazione occorre riportare (in questo come in tutti i casi) i concetti alla loro natura epistemologica corretta. E, per favorire l’insegnante in questo lavoro, viene qui presentato un piccolo “dizionario”, nel quale gli usi comuni dei diversi concetti, vengono raffrontati a quelli più ristretti e scientifici.

 

 

Concetti

Definizioni spontanee

Elementi di problematizzazione

Considerazioni da tenere presenti per applicare all’UE questi concetti

Identità

Elenco delle caratteristiche che individuano un soggetto e lo rendono diverso dagli altri.

L’identità viene percepita come un’immagine cristallina e cristallizzata, da preservare da contaminazioni.

Nel contesto della vulgata attuale sulla mondializzazione, l’identità viene considerata come strumento irrinunciabile per la propria riconoscibilità.

Le caratteristiche identitarie non appartengono ad un soggetto in quanto tale, ma scaturiscono dagli accordi fra i soggetti di un gruppo.

Dipendono in grande misura dai ruoli che un soggetto svolge, all’interno di un gruppo e dall’immagine che “gli altri si formano di te”.

Più che di una sola identità, oggi si tende a parlare di “identità plurime”, che il soggetto adopera a seconda delle situazioni nelle quali opera.

Attualmente, il tema dell’identità è oggetto di fortissime battaglie politiche e culturali, dal momento che Stati e gruppi di pressione tentano di imporsi come “soggetti che conferiscono identità”.

Il tema dell’identità è tipico delle società novecentesche (e post). Nelle società premoderne, infatti, si può supporre l’esistenza di soggetti “monoidentitari”: il contadino, il prete, il mercante. Oggi, invece, la complessità sociale impone identità diverse e multiple. Crea, perciò, un problema di “governo di queste identità”, che va affrontato e risolto dagli individui. Questi, dunque, vanno attrezzati e “fortificati”, nelle loro capacità di raziocinio, per essere in grado di affrontare con successo questo compito: e tale potrebbe essere l’obiettivo di una (nuova) didattica europea. La strategia scolastica nazionale (tradizionale), invece puntava ad attribuire agli allievi un’identità prevalente nazionale. Attribuire una identità appare più una fuga dal problema, che una sua risoluzione ( = formare, appunto, soggetti capaci di costruire una propria identità o di governare le loro molteplici identità).

Eredità, patrimonio

Elementi culturali, economici, ambientali, artistici ecc, che le generazioni passate consegnano a quelle presenti, e queste alle future.

Il patrimonio, in particolare, costituisce una ricchezza tangibile ed economicamente efficace, appartenente ad una nazione.

I tratti culturali del passato vengono scelti – di volta in volta - dalle generazioni presenti. Le società intervengono continuamente sul loro ambiente (culturale e naturale) e lo modificano, decidendo ogni volta, cambiamenti e permanenze.

Ciò è tanto vero, che siamo stati noi moderni a concepire  le idee stesse di patrimonio e eredità (come caratteristiche di una società, e non, come nel passato, prevalentemente individuali e, in particolare, signorili).

L’idea che i cittadini europei hanno di loro stessi, del loro ruolo nel mondo e del loro futuro è fondamentale nella individuazione del patrimonio.

Inoltre, si deve tenere conto del fatto che è praticamente impossibile immaginare un patrimonio che appartenga esclusivamente a un solo gruppo umano, e non sia rivendicato (nel suo godimento come nella sua tutela) anche da tutti gli altri.

Da una parte, perciò, questi concetti si collegano alla società-mondo complessiva (noi e gli altri); dall’altra introducono un concetto di responsabilità inedito e molto più cogente che nel passato, dal momento che il compito di salvaguardare il patrimonio è richiesto anche dai nostri doveri verso gli altri. Allo stesso modo, ciascuno di noi è interessato alla gestione e alla salvaguardia dell’intero patrimonio mondiale.

Cultura

Insieme dei tratti cognitivi e comportamentali che caratterizzano un gruppo umano, un popolo ecc.

Occorre preservare le migliaia di culture esistenti al mondo, impedendo la loro contaminazione.

La mondializzazione culturale è un fortissimo nemico della sopravvivenza delle singole culture.

Una cultura non è mai un insieme chiuso e impenetrabile. Inoltre, essendo composta da elementi astratti, non può essere “essenzializzata”.

Le culture sono sempre fluide e mutabili, si nutrono degli interscambi.

Tutte le culture mutano nel tempo.

Ciò accade anche alle culture odierne, e la loro continua modificazione – in relazione a tutto ciò che accade, compresi i processi di mondializzazione – è la condizione della loro sopravvivenza.

Le uniche culture che non mutano più, sono quelle appartenenti alle società del passato.

 

 

Di fatto, la questione della cultura europea si pone in primo luogo come squisitamente“interculturale”: essa si formerà a partire proprio dalle interazioni fra gli individui, le istituzioni culturali e il lavoro comune di società che fino a poco tempo fa hanno vissuto in modo separato.

Processi interculturali, dunque, che investono le scuole europee nei loro rapporti interni, prima ancora che nei rapporti fra europei ed extraeuropei.

Un’eventuale “cultura europea”, per il fatto stesso di essere proposta e ricercata, sarà costretta ad escludere, per molto tempo, qualsiasi ipotesi di cristallizzazione e di essenzializzazione.

Etnia, popolo, nazione, razza

Gruppi umani caratterizzati dalla comunanza di elementi biologici, culturali, spaziali ecc.

E’ impossibile definire i tratti specifici di un’etnia (o di una nazione o di un popolo) in modo tale che le differenze interne fra gli individui di quel dato gruppo siano più marcate di quelle che li separano da altri gruppi. In definitiva: due individui appartenenti a due gruppi diversi possono assomigliarsi, tra di loro, molto più che due individui appartenenti allo stesso gruppo.

La ricerca ha messo in luce i caratteri volontari e di scelta individuale, relativi alla formazione delle nazioni e degli stati.

La definizione dell’insieme dei cittadini dell’EU si pone storicamente come una ricerca esplicita di tratti comuni, e dunque non può sottrarsi al giudizio politico, sul ruolo che l’UE intende assumere nel mondo. Un giudizio che, in democrazia, non può che appartenere all’individuo. In questo processo delicatissimo di scelte, la scuola deve in primo luogo contrastare – come immotivato e fuorviante – il tentativo di definire le popolazioni europee in base ad un criterio etnico o nazionale. Deve favorire, al contrario, l’assunzione di responsabilità di ciascun soggetto.

Tradizione

Complesso di norme, comportamenti, conoscenze, trasmesse dalle generazioni passate e caratterizzate dalla loro permanenza nel tempo.

Le tradizioni garantiscono genuinità e spontaneità.

La loro verità consiste nel fatto che riflettono i caratteri profondi di un popolo.

E’ solo uno stereotipo quello che vuole le tradizioni immutabili. Queste si creano e si modificano anche in modi molto rapidi. Un comportamento, nel momento in cui viene percepito come tradizionale, viene immaginato sempre come nato in tempi lontanissimi, anche se si è formato in tempi recenti.

La maggior parte delle tradizioni, oggi percepite come “popolari”; sono in realtà frutto dei processi di nation building, verificatisi in Europa a partire dalla fine del XVIII secolo.

 

Nel corso del “lungo Ottocento” si poteva parlare (nel bene e nel male) di trasmissione di tradizione: quella appunto formatesi durante i processi di costituzione delle nazioni. Ma le novità introdotte nella storia mondiale dai rivolgimenti di fine Novecento, e, per quanto ci riguarda più strettamente, dalla formazione dell’UE, sono tali, che impongono – più che la trasmissione della tradizione, della cui efficacia in un contesto così nuovo si può sospettare -,  la ricerca di una nuova tradizione da trasmettere alle generazioni future.

In pratica, mentre nel passato gli anziani erano legittimati nella trasmissione di ciò che possedevano (la tradizione, appunto), oggi tutti – giovani e anziani – siamo praticamente sprovvisti di tradizioni efficaci.

Se ne sentiamo il bisogno, perciò, occorre mettersi tutti nei panni dei ricercatori-costruttori di tradizioni.

Origini, miti fondativi

Momenti reali o immaginari, dai quali inizia la vita e la storia di un gruppo umano.

 

Dato il carattere processuale della storia è impossibile individuare con precisione una qualsiasi origine, di un qualsiasi fenomeno storico-sociale.

Uno degli scopi fondamentali del processo di apprendimento della storia, oggi, è appunto la capacità di distinguere l’uso scientifico della storia dai suoi usi politici, fra i quali appunto quelli mitopoietici.

Radici

Luogo o momento dal quale effettivamente inizia la vita o la storia di un gruppo umano.

Si tratta di metafore molto potenti, che a volte si impongono al loro referente (la tradizione culturale), essenzializzandolo.

Dopo la lezione di Foucault è impossibile pensare alle radici se non nella loro forma “rizomatica”, estesa nel territorio.

 

Per quanto sia lecito utilizzare la metafora di radici, ci si chiede perché queste debbano assomigliare alla “carota” (perpendicolari al punto dove di ci trova), e non alla “liquirizia”, ramificate ed estese. In pratica, ogni ricerca di radici ci sposta sempre dal territorio nel quale viviamo. Attualmente c’è una viva competizione fra preistorici, classicisti, medievisti, tutti interessati ad attribuirsi le “vere radici dell’Europa”.

Probabilmente hanno ragione tutti.

 

Canone

Le conoscenze che bisogna apprendere. I saperi essenziali. Ciò che è assolutamente necessario per essere considerati “educati” dagli altri.

I canoni del sapere scolastico furono elaborati con la formazione delle scuole nazionali, nel XIX secolo. Riflettevano, quindi, l’immagine che quelle società avevano di se stesse e del mondo. In particolare, erano modulati sulla idea che la cultura fosse un fatto nazionale.

In passato (in età ateniese, o in età ellenistica o nel cinquecento) i canoni furono stabiliti attraverso un confronto serrato, cui partecipò la parte migliore degli intellettuali del tempo.

Oggi può essere lasciato ad una commissione ministeriale? Alle case editrici? Ai media?

Il canone oggi si pone come un problema, e non come un libro sacro.

Qual è il canone europeo? Dal momento che non può essere credibilmente la somma dei diversi Canoni nazionali, che cosa da questi si deve escludere, per farne uno per le scuole europee?

Se il canone deve assicurare agli allievi il possesso della crestomazia autentica, prodotta nel passato: è lecito predeterminare, limitandolo ad una sola nazione, ad una sola cultura, il campo entro il quale scegliere le opere più belle, più profonde, più in grado di parlare ai giovani di oggi?

 

 

 4.2 Eroi made in UE. Note per una discussione storico-didattica.

 

Viriato, Giulio Civile, Burdicca, Arminio, Vercingetorige, Decebalo, Spartaco furono protagonisti necessari e al tempo stesso marginali della storiografia latina. Poiché, infatti, capeggiarono guerre e rivolte contro l’impero romano, furono necessari per mostrarne la forza irresistibile; ma, al tempo stesso, recitarono un ruolo inevitabilmente marginale, perché gli storici latini erano più che altro interessati a magnificare la potenza del loro esercito, il coraggio e la bravura dei loro generali. Per tale motivo, questi personaggi non sono uniformemente studiati nelle scuole europee (naturalmente, dove si insegna un po’ di storia romana), e non sono egualmente conosciuti dalla massa dei cittadini dell’UE. Ognuno è eroe nella sua terra: Giulio Civile, che guidò la resistenza dei batavi, è celebrato in Olanda; Arminio, il vincitore di Teutoburgo, è lungamente raccontato nei manuali tedeschi, così come Vercingetorige in quelli francesi. La regina Burdicca, indomabile amazzone dal volto colorato di blu, è venerata dagli inglesi; mentre Viriato e Decebalo  illustrano il coraggio delle popolazioni – rispettivamente – della penisola iberica e della Romania. Spartaco, infine, non manca quasi mai nella manualistica delle regioni, conquistate un tempo dai romani, e fu primo attore indiscusso, lui, lo schiavo ribelle, della storia studiata nelle repubbliche comuniste dell’Europa orientale[1].

 

A questa pattuglia di eroi, tratti compattamente dalla storiografia romana, si aggiungono altre schiere, provenienti dalle fila del Medioevo, dell’età Moderna e di quella Contemporanea: Carlomagno, Federico Barbarossa, Guglielmo Tell, Stefano I; e poi, ancora, Ladislao Jagellone, Guglielmo d’Orange, Martin Lutero; e, a chiudere questa sfilata, i protagonisti dei molti Risorgimenti (italiano, tedesco, polacco, greco) e della prima guerra mondiale: questi ultimi quasi tutti sfortunatamente morti in combattimento, con l’eccezione, sorprendentemente comune, di Mussolini e Hitler, dei quali i manuali italiani e tedeschi del tempo raccontano, che si temprarono come l’acciaio, in quella straordinaria forgia della modernità, costituita dalle trincee del Carso e del fronte franco-tedesco[2].

Sfogliando i manuali di storia dei paesi europei, scopriamo una sorta di Olimpo, popolato da alcuni semidei, che tendono ad essere ammirati in molti paesi (come Cristoforo Colombo o Goffredo di Buglione), mentre altri sono onorati solo localmente, come Pietro Micca, in Italia, o Jan van Speyk, in Olanda: eroi di nazioni diverse, ma associati dal fatto di essere uomini del tutto comuni - montanaro il primo, figlio di pescatori il secondo -  che presero la tragica decisione di farsi saltare in aria insieme con i nemici. Entrambi martiri suicidi, a lungo spensieratamente offerti all’imitazione dei bambini dei rispettivi paesi[3].

 

Per quasi due secoli, infatti, questi eroi sono stati proposti a milioni di allievi come modelli, ora di coraggio e di abnegazione, ora di astuzia, intelligenza, sapienza. Sono stati strumenti didattici, considerati efficaci per creare individui disposti a mettere al servizio della collettività il cuore, le braccia e il cervello. Furono i “mattoni” di quel processo, conosciuto dagli storici come nation building. Oggi, per analogia col passato, potrebbe essere forte la tentazione di creare un “super-olimpo” dell’Unione Europea, un concilio composto dagli eroi condivisi, o da quelli giudicati più significativi e meritevoli di entrare in una hit parade continentale. A sostegno di questo progetto, potrebbe giungere anche una certa stanchezza della didattica, intesa come disciplina per la crescita delle intelligenze, ed una ripresa di antiche visioni dell’apprendimento: centrate sull’empatia, sul fascino del racconto, sul coinvolgimento morale, sull’immedesimazione con i modelli letterari o storici. In una parola, sembra che la parabola della formazione si stia chiudendo su se stessa, e torni alle sue origini ottocentesche, quando l’urgenza di dar corpo e sostanza alle “comunità immaginate” spinse i politici e gli intellettuali del tempo a progettare e realizzare quella pedagogia identitaria della storia, della quale gli eroi furono una struttura portante[4].

 

Come la ricerca storico-sociale ha ampiamente dimostrato, le questioni identitarie coinvolgono strettamente l’attività politica di una nazione o di un gruppo umano. Sono causa primaria, perciò, dell’uso pubblico della storia: quella tendenza, sempre più diffusa nel mondo attuale, ad utilizzare le conoscenze storiche per ottenere vantaggi economici o politici. Uno stato si qualifica e si distingue, fra tutti, per l’antichità della sua storia, così come un partito politico o un gruppo di pressione; un dato territorio, un’azienda, una città magnificano il loro passato, ne diffondono l’immagine attraverso i media, e incrementano, in questo modo, la vendita del proprio prodotto (turistico o manifatturiero). Molti sono quelli che “mettono le mani sulla storia”, scrisse qualche tempo fa Marc Ferro, vice direttore delle “Annales”, vivamente preoccupato dal fatto che questo nuovo contesto modifica profondamente il nesso fra la produzione del sapere storico, e la sua diffusione nella società[5]. Lo storico che condivida tale inquietudine, dovrebbe ripensare il proprio lavoro, formatosi quando la storia era disciplina erudita ed esclusiva di poche élites; mentre l’insegnante di storia, dal canto suo, dovrebbe porre attenzione critica agli obiettivi della sua professione, proprio perché questi si sono strutturati in sintonia con i processi di nation building.

 

Queste riflessioni ci portano a considerare criticamente la recente ripresa della narratività, alla quale abbiamo accennato sopra, e a concentrarci, invece, sull’obiettivo di distinguere la conoscenza storica dai suoi usi sociali e politici. E, poiché questi usi sono indubbiamente parte non trascurabile del funzionamento della società contemporanea, diventa un obiettivo didattico importante quello di conoscerli e imparare a valutarli. In questa prospettiva, gli eroi, da soggetti della storia, dovrebbero diventare oggetti di studio storico. Da soggetti e modelli della formazione storica, diventerebbero mezzi e strumenti importanti per scoprire aspetti importanti della società: non meno attraenti, forse, di quei racconti e aneddoti, che i bambini europei hanno studiato collettivamente fino agli anni ’70 del XX secolo.

 

Prendiamo, ad esempio, Vercingetorige, eroe indiscusso della formazione storica francese. Oltre cento anni di studio, di libri e raffigurazioni, ne hanno decretato una fortuna che ha valicato largamente i confini scolastici ed eruditi. Basti pensare al successo della saga di Asterix e Obelix, eroi che, al di là dell’ironia del fumetto, mandano segnali inequivocabili della indomabilità senza riserve di quella nazione. Dei veri emblemi nazionali, lo riconosciamo. Per questa ragione, se noi moderni potessimo visitare la galleria degli eroi di Versailles, spostandoci indietro nel tempo fin verso la metà dell’Ottocento, ci stupirebbe molto l’assenza del condottiero gallico. Ma troveremmo anche dei custodi pazienti, a spiegarcene il motivo: “E’ un perdente, e dunque non esiste per la memoria francese, come Waterloo”[6]. E, in effetti, i francesi, e prima di loro i franchi, i gallo-romani, e l’innumerevole famiglia dei celti, non avevano molti argomenti, per andare fieri di Vercingetorige. E’ vero che fu coraggioso, irriducibile e non accettò il dominio straniero. Ma è altrettanto vero che condusse le armate galliche verso un disastro collettivo, con una strategia sbagliata, e che (e questo era un motivo supplementare di vergogna) fu consegnato dai suoi compatrioti a Giulio Cesare, in cambio della cessazione dell’assedio di Alesia. Fu, dunque, un condottiero sconfitto e tradito, e, conseguentemente, un pessimo candidato all’Olimpo.

Ma nel 1865 uno storico e un imperatore (Augustin Thierry e Napoleone III) decisero che era il momento di farne un simbolo nazionale. Lo proclamarono “martire del diritto” e, come tale, lo elessero (lui, il nemico acerrimo dei romani) a “combattente in difesa della civiltà latina”. Tutto questo, poco prima che la Francia cominciasse una guerra suicida contro la Germania, e lo stesso imperatore venisse definitivamente travolto e deposto. Dunque: alle origini del mito del re gallo non ci fu la sua tragica vicenda, né lo strenuo ricordo che di lui conservarono i suoi amati sudditi e i loro discendenti. Vercingetorige non “visse per sempre nel cuore dei francesi”. Al contrario, questi aspettarono ben duemila anni, per cambiare opinione su di lui, e lo fecero in seguito ad un’operazione di “uso pubblico della storia”, dalla fortuna brillante e stranamente vendicativa: perché se è vero che l’eroe, da allora, entrò nella memoria storica della Francia, è altrettanto indubbio che nessuno tenne viva la memoria del vero creatore del mito.

 

Vercingetorige non è un caso paradossale o isolato. Se continuiamo ad aggirarci nel Pantheon francese, noteremo, infatti, che la schiera degli eroi tardivi è piuttosto folta[7]. Clodoveo, considerato nella storia insegnata come il vero fondatore della Francia, fu una creazione degli eruditi del XVI secolo. Questi, col proposito di conferire una genealogia illustre al nascente stato francese - una costruzione politica composita, basata sulla magistratura e sulla nobiltà - fantasticarono intorno all’idea che i magistrati discendessero dai galli, e i nobili direttamente dai lombi, per l’appunto, di Clodoveo, proclamato per l’occasione “primo sovrano franco”[8]. Dal canto suo, nemmeno Carlo Magno (della cui natura eroica nessuno oggi più dubita) ai suoi tempi godé di fama cristallina. Al dire di alcuni suoi cronisti, anzi, si macchiò di nefandezze indicibili e neppure la sua incoronazione fu esente da qualche diceria. Una tradizione, poco elegante ma di grande successo, lo volle sovrano rimbambito, vittima dei giochi di palazzo, sempre bisognoso del soccorso dei valenti nobili del suo esercito. Giovanna d’Arco, peraltro una delle poche eroine che l’antichità ci abbia consegnato, ha dato vita ad una tradizione colma di imbarazzi e reticenze. Commemorarla era difficile e pericoloso: ora non si potevano irritare gli inglesi, che la catturarono; ora la Chiesa che, non andrebbe taciuto, la mandò al rogo; ora si doveva tener conto dell’orgoglio della monarchia, che si sarebbe sentita sminuita dall’aiuto femminile. Insomma, si dovette attendere la fine della prima guerra mondiale – era trascorso mezzo millennio di silenzio -  perché i ricordi si decantassero, e si potesse proclamare il mito francesissimo della “pulzella d’Orléans”.

 

Questi esempi francesi ci insegnano che il concetto di eroe ha molte sfaccettature. E’ un concetto complesso. La prima sfaccettatura riguarda la vicenda storica di partenza. Non attendiamoci, però,  un’impresa sempre fuori dal comune, un’avventura dai connotati eccezionali. Spesso è decisivo un secondo aspetto: il modo con il quale quella vicenda viene rielaborata, a volte a distanza di secoli, e dal quale dipende sia il carico di valori, che le viene attribuito, sia la trasfigurazione eroica del suo protagonista. E’ a questo punto, che l’eroe acquista l’immortalità, perché il suo ricordo si fisserà nella memoria collettiva, e verrà tramandato di generazione in generazione. E, ancora in quello stesso momento, l’eroe si arricchirà di una potentissima carica formativa, basata sulla promessa, all’allievo che lo imiterà, di diventare un cittadino leale e rispettato, e, prospettiva ancora più esaltante, di trasformarsi, anche lui, in un eroe, immortale come il suo modello. Il passo dall’Olimpo all’aula è assai breve. L’eroe, potremmo concludere, è uno strumento “naturalmente pedagogico”.

 

L’Italia, uno stato-nazione molto più giovane della Francia, fornisce una accurata conferma di questa complessità del concetto, ma anche la possibilità di scoprirne degli aspetti inediti. Prima dell’unificazione (1861), infatti, ogni stato italiano possedeva un proprio pantheon, costituito in gran parte dai personaggi eccellenti della dinastia regnante, studiati nelle scuole e raffigurati nelle piazze cittadine in pose magniloquenti, spesso con le loro ignare cavalcature (una forma di decoro urbano molto diffusa in tutta Europa). Con l’unificazione italiana, il Piemonte estese a tutta la nazione il suo pantheon, e, al tempo stesso, promosse una forte politica culturale, per annettere eroi regionali-nazionali o sollecitarne la nascita.

 

Per quanto riguardava la dinastia sabauda, il processo fu rapido, e non attese i secoli che caratterizzarono gli esempi francesi visti sopra. Carlo Alberto, ad esempio, il re che, dopo essere stato sconfitto dall’Austria, aveva abdicato ed era andato in esilio in Portogallo (1849), venne canonizzato ancor prima della sua morte[9]. Con lui, fece il suo ingresso nella manualistica italiana, l’intera progenie savoiarda. E, come con il re esule, non si perse tempo nella canonizzazione di nessuno dei suoi successori. Vittorio Emanuele II divenne rapidamente “il re galantuomo”; Umberto I fu celebrato come “il re buono”. Per ultimo, toccò a Vittorio Emanuele III, il cui processo di eroizzazione consisté nel trasformarlo da individuo schivo e poco appariscente, quale egli era, in simbolo di una nazione di onesti lavoratori, poco inclini alla retorica. La sua immagine venne disegnata con cura, in un contrasto ricercato con i sovrani austriaci e tedeschi, pomposi e distanti dalle masse: il “re soldato” sconfiggeva gli imperatori-generali, e vendicava il poco fortunato bisnonno, Carlo Alberto[10].

 

Soldati coraggiosi e contadini lavoratori, questo era il prototipo intorno al quale lavoravano i costruttori della memoria storica e dell’identità italiane, rielaborando momenti e personaggi delle diverse storie regionali, a volte talmente marginali, da essere stati trascurati – fino ad allora - dagli stessi eruditi. In questa fatica collettiva, ogni regione apportò all’erigendo panteon nazionale il suo contributo. La Liguria offriva Cristoforo Colombo, del quale veniva messa in rilievo la sua ostinazione nel vincere l’ottusità spagnola, ma, soprattutto, il Balilla: un ragazzetto che ebbe la ventura di scagliare un sasso, contro un drappello di austriaci, che avevano occupato Genova, durante una delle innumerevoli guerre dinastiche del ‘700. Il Piemonte, oltre ai sabaudi, presentava il risoluto Pietro Micca, un serio soldato, immolatosi nella difesa di Torino, sempre negli stessi frangenti bellici. Dalla Toscana provenivano Pier Capponi e Francesco Ferrucci, eroi tardo-medievali e rinascimentali, di guerre contro francesi e spagnoli. Masaniello raccontava il furore e la sventura della ribellione napoletana contro la Spagna. I Vespri Siciliani, un episodio delle contese fra Aragonesi e Angioini, nell’Italia meridionale della fine del XIII secolo, illustravano il carattere orgoglioso dei siciliani, nella loro lotta contro gli stranieri (per l’occasione, i francesi). Ma forse era la Disfida di Barletta l’episodio clou di questa epopea. Si trattava di un evento minimo, della guerra che in Italia combatterono fra di loro spagnoli e francesi, nel XVI secolo. Massimo D’Azeglio (storico e uomo politico di grande rilevanza) lo trasformò in un’autentica metafora dell’unità nazionale. In quella occasione, infatti, diversi cavalieri, provenienti da molte regioni italiane, che combattevano al servizio della Spagna, formarono una squadra che sfidò, in un torneo, una squadra analoga francese, in nome – come tutti i bambini del tempo imparavano attentamente – del riscatto orgoglioso degli italiani[11].

 

A questa storia, insegnata nelle scuole, corrispondeva poi (in un parallelismo perfetto con le politiche culturali di tutte le nazioni europee del tempo) una vasta operazione di pedagogia nazionale, che coinvolgeva gli arredi urbani, i nomi delle strade e delle piazze, la creazione di feste, spettacoli teatrali e opere liriche, e, dopo la prima guerra mondiale, l’istituzione del culto del milite ignoto. Un fenomeno peraltro notissimo e esteso alla maggior parte delle società che hanno popolato il pianeta terra. “Sin dalle sue origini, ha generalizzato icasticamente .. Debray, il potere ha un intellettuale alla sua sinistra e un architetto alla sua destra”[12]

 

E, naturalmente, la pubblicistica martellava senza sosta: conferenze, anche nei paesi più sperduti, riviste, quotidiani, libri di storia divulgata e di evasione. Tra questi, il sicuro capolavoro è costituito dal Libro Cuore, di Edmondo de Amicis, un giornalista-scrittore, votatosi alla causa della formazione nazionale. Si tratta del racconto della vita scolastica e familiare di un bambino torinese, Enrico, delle sue paure, gioie, amicizie, dei suoi problemi pre-adolescenziali. Ma anche di ciò che studiava in classe, con impegno. E, fra questi studi, spiccavano i cosiddetti “racconti del mese”, che suo padre gli destinava periodicamente, e i cui protagonisti erano bambini, resi notevoli dal fatto che si erano sacrificati (spesso con la vita) in nome dell’Italia, del senso del dovere, dell’amore filiale: i valori intorno ai quali lavorava, appunto, la pedagogia nazionale. Ebbene, questi giovani eroi provenivano da ogni regione d’Italia: vi era il piccolo tamburino sardo, la piccola vedetta lombarda, il piccolo scrivano fiorentino, il bambino romagnolo e quello più vagamente “meridionale” (ahimé, terra incognita, l’Italia del Sud, anche per i volenterosi intellettuali nazionali). Era come se si dicesse ai giovani studenti: “ogni regione ha formato nel tempo una sua particolare identità; ma tutte contribuiscono con l’ardimento delle sue genti, i valori familiari e l’amore per la terra, alla grandezza dell’Italia”. In scala più ridotta, potremmo concludere, è l’anticipazione inconsapevole di una possibile creazione del pantheon europeo[13].

 

All’appello degli eroi regionali mancò per parecchio tempo la Lombardia. Un fatto curioso, dal momento quella regione era stata fra le più attive, nel processo di unificazione italiana: basti pensare alla presenza preponderante di lombardi, nell’impresa dei Mille (1860). Questa stranezza fu notata da Ernesto Sestan, uno storico contemporaneo, il quale giunse alla conclusione che tale assenza era giustificata dal fatto che il periodo medievale, dal quale veniva prelevata la quantità più rilevante di eroi e fatti storici significativi, era stato, per la Lombardia, un momento terribile di guerre fratricide. Ed era quasi impossibile, per uno storico lombardo del tempo, prendere in considerazione quei fatti, all’interno di una credibile prospettiva unitaria. Forse per questo, fu uno storico napoletano, l’abate di Montecassino Luigi Tosti, a inventare il mito della Lega Lombarda: l’associazione dei liberi Comuni italiani, saldamente coalizzati tra di loro, per scacciare il Barbarossa, odiato imperatore straniero[14]. La storiografia medievale ha abbondantemente mostrato quanto lontana dalla realtà fosse quella ricostruzione, e ci lascia intuire il grado di fantasia che fu necessario per costruire un eroe come Alberico da Giussano, e una situazione quale il Giuramento di Pontida, nella quale i Comuni lombardi avrebbero promesso odio eterno all’imperatore: quando invece, nella realtà, proclamarono Federico I “il nuovo Cesare”, e ne sostennero entusiasticamente l’impresa bellica[15]. Ma, fin qui, potremmo dire: nulla di nuovo rispetto a ciò che abbiamo imparato, indagando su Vercingetorige e su altri miti consimili. La vera scoperta, infatti, avviene se cominciamo a seguire la storia di questa leggenda ottocentesca. Il suo autore, infatti, la concepì come racconto a sostegno della politica unitaria guelfa (secondo la quale l’Italia doveva guadagnare la propria indipendenza sotto il governo del papa). Nella sua visione, il XII secolo racchiudeva un modello, che precorreva le vicende ottocentesche e ne indicava la soluzione vincente: il papa, che raccoglie i Comuni sotto il suo manto, e sconfigge l’invasore tedesco. Racconta Ernesto Sestan che, non appena la storia della Lega Lombarda venne data alle stampe, il suo successo fu enorme. Al punto tale, che fu adottata e rielaborata proprio dalla parte politica nemica, quella filopiemontese, che sosteneva il re, al posto del papa, e che da questi, per giunta, era stata scomunicata. Invano il buon abate cercò di ritirare la sua opera. Ormai la leggenda si era messa in moto e camminava, per così dire, con le sue gambe. Ma, per quanto sorpreso e addolorato, Luigi Tosti non avrebbe mai potuto immaginare “quanti e quali padroni” avrebbe servito la sua storia. Mai sarebbe riuscito a prevedere  che Giosué Carducci, nel 1897, avrebbe proclamato i prodi e leali cavalieri della Lega come i veri progenitori dei socialisti italiani (non dimentichiamolo: anche loro ampiamente scomunicati) [16]; né avrebbe mai potuto sospettare che, poco più di un secolo e mezzo dopo la sua creazione, la Lega Lombarda avrebbe dato il nome ad un movimento scissionista, e Alberico da Giussano, con la spada sguainata, sarebbe diventato il simbolo di quel partito, i cui raduni si sarebbero svolti sul prato di Pontida, proprio dove - secondo Tosti, e dopo di lui, tutti i bambini italiani che studiarono storia – i cavalieri lombardi posero le fondamenta dell’unità italiana.

 

Queste figure eroiche non si succedevano, nei libri di testo, come figurine di una collezione. Erano, invece, vive protagoniste di un racconto complessivo, che metteva gli allievi in grado di comprendere il loro tempo, e di rispondere alle eterne domande sulle origini e sulle mete collettive. Anche queste storie hanno un modello, un nucleo generatore, che possiamo facilmente ricavare, dalla lettura dei manuali europei: un popolo, di per sé buono e pacifico, subisce immensi torti e sofferenze, se ne libera, e il suo valore viene finalmente riconosciuto da tutti.

Al fondo, c’è un modello che noi europei conosciamo benissimo. Un pedagogista di fine ottocento lo rivela candidamente. Il modello sul quale il bambino deve formarsi – afferma - è la storia di Cristo; quando, poi il piccolino diventerà adolescente, il suo modello sarà la storia della patria. In questa prospettiva pedagogica, Cristo e la Patria sono posti in perfetto parallelismo: semmai, la storia è lo sviluppo adulto e più consapevole del Vangelo[17]. Da questa idea centrale, si genera uno schema narrativo, che in decine di varianti, troviamo in tutte le storie nazionali europee. Qui ne presento una sintesi italiana, particolarmente efficace, opera di un altro pedagogista ottocentesco:

 

“Circa 1400 anni fa scesero in Italia dei popoli barbari e vi comandarono da padroni. Cacciati quei là, ne vennero molti altri più tardi; ed alcuni, con nostra vergogna, chiamati dagli italiani stessi, in guerra fra di loro. Prima i Francesi, poi gli Spagnoli, poi i Tedeschi, poi a volte gli uni, a volte gli altri, son venuti a piantarsi in casa nostra: e noi si fece da servi per un bel  pezzo. Cacciati, bene o male, gli stranieri, sul principio di questo secolo (1800) l’Italia restò divisa a brandelli, come la veste di Arlecchino, e l’Austria continuò a farla da padrona quasi dappertutto. Finalmente nel 1848, nel 1859, nel 1866 e nel 1870 gli italiani scossero il giogo della servitù e sotto questa medesima bandiera si raccolsero in una sola famiglia, acclamando Vittorio Emanuele re d’Italia e Roma capitale del nuovo regno”[18] .

 

Se l’eroe è un martire, vuol dire che ci sono stati dei carnefici. Perciò, il racconto storico li elenca come i grani di un rosario, che nella loro scarna successione, precisano l’essenziale della vulgata storica. Ciò che, al di là delle battaglie, dei personaggi e del vuoto nozionismo (considerato segnale di cattivo apprendimento anche allora), bisogna che tutti i cittadini sappiano è proprio questa sequenza dei nemici: i barbari, in primo luogo, poi i francesi, gli spagnoli, i tedeschi e, infine, gli austriaci. La redenzione finale giunge dopo un lungo travaglio di sofferenze. Potremmo confrontare tutte le storie insegnate negli stati europei, per riconoscere l’identico plot. Varia solo la nazionalità dell’oppressore, ma tutte vantano un periodo più o meno lungo, più o meno antico, più o meno feroce di sofferenza. E, spesso, gli eroi di una storia sono i carnefici di quella vicina. E, ancora più spesso, gli oppressori di un tempo si trasformano nei difensori dell’identità nazionale, in quello successivo. Ecco il Portogallo: il suo eroe primo è Viriato, strenuo difensore dell’identità di quelle popolazioni, che solo  il tradimento poté vincere. I carnefici di Viriato sono i Romani. Ma, nella fase successiva, apprendiamo che romani e autoctoni si sono fusi, e difendono la loro identità da nuovi attentatori: svevi,  vandali, visigoti. E poi, insieme con questi, preservano la purezza dei loro lombi rinnovati dagli arabi; e di seguito,  insospettabilmente, si guardano dagli spagnoli, che – per buona parte del secondo millennio – si danno attivamente da fare per attentare alla loro indipendenza, poco sensibili al fatto di condividere lo stesso eroe fondatore, lo sfortunato Viriato[19].

Spagnoli, francesi, tedeschi, russi, svedesi, inglesi: ognuno di questi popoli è, a seconda degli scenari, redento o carnefice; e, a seconda degli scenari, i diversi protagonisti recitano il ruolo di eroi o di assassini. Non c’è nessun “popolo vergine”, nella scala a ritroso delle sofferenze, ha scritto con efficacia un sociologo, Franco Cassano[20]. Dobbiamo aggiungere che non c’è nessun eroe, presso un popolo, che non sia assassino, per qualche altro. Spiriti purissimi e assolutamente disinteressati, per alcuni, pericolosi e fanatici integralisti, per altri.

 

L’Olimpo degli eroi ci appare, ora, come la punta luminosa di un iceberg, la cui parte sommersa cela aspetti inquietanti: valori che cambiano nel tempo e nello spazio, a secondo degli umori e delle prospettive di chi li gestisce; ma che vengono insegnati comunque come immutabili e sacri. Comportamenti che nel quotidiano la maggior parte di noi considererebbe aberranti, che vengono invece innalzati a modelli eccezionali. Un’idea del mondo circostante potenzialmente ostile, dal quale occorre difendersi. Un’idea del passato inteso come il fondamento della propria nobiltà e grandezza. Una considerazione eccezionale di sé. Il proprio rapporto con la società come di richiesta possibile di sacrificio: madre o padre solo apparentemente benigna e protettrice, in realtà pronta a trasformarsi nell’Isacco che sacrifica il figlio. L’idea di storia e di passato come obbligante: ricorda che sei figlio di tanti eroi, e che non puoi sottrarti al dovere di imitarli. Una prospettiva di se, che, nel quotidiano, giudicheremmo aberrante per noi e terrorizzante se adottata da altri: il sacrificio di sé.

 

Verso la fine degli anni ’70 del secolo passato, iniziò una fecondissima stagione di studi, sui procesi di eroizzazione e sulla elaborazione della tradizione, che coinvolse, nel decennio successivo, storci di tutta Europa. Il punto di partenza fu un convegno, organizzato dalla rivista “Past and Present”,intitolato significativamente L’invenzione della Tradizione[21]. Si era in un periodo che molti osservatori avevano chiamato del “Riflusso”. Il periodo precedente (gli anni 60-70) si erano caratterizzati per la cosiddetta “preminenza del politico”: di ogni aspetto importante della vita sociale, in pratica, doveva essere ricondotto alla dimensione politica. Ora, invece, al principio degli anni ’80, cominciavano a prender piede altre tendenze, secondo le quali la politica era vista come falsa, artificiale, governata da interessi incontrollabili. Nuove sorgenti di verità apparivano più naturali e genuine: quelle che scaturivano dalle radici intime di un popolo, e che, per il fatto di essere sopravvissute alla stagione iconoclastica della modernità, mostravano la forza dei tempi, e la genuinità delle origini. Le tradizioni, in una parola. E difatti, in quello stesso periodo, si assiste al formarsi di movimenti etnici, all’interno dell’Europa, fondati sul presupposto che la costituzione politica degli stati altro non aveva fatto che opprimere l’autenticità delle primordiali radici dei popoli, dei loro canti, dei loro costumi e delle loro tradizioni. Hobsbawm e Ranger, allora, chiamarono a raccolta storici da ogni parte di Europa, sulla base della più semplice parola d’ordine, che li possa riunire a partire da nazionalità e indirizzi politici, i più disparati: “vediamo se è vero”.

 

I risultati del convegno furono sbalorditivi. Gli storici non tralasciarono nessuna di quelle tradizioni, che ogni gruppo nazionale sbandierava come simbolo della propria genuinità e dimostrazione della propria diversità dagli altri popoli. Indumenti, come il Kilt o il tartan e l’infinita passerella degli abiti “regionali”, strumenti musicali, come la cornamusa, feste e palii, creduti risalenti al medioevo (e i cui figuranti sembrano inevitabilmente usciti dai quadri di Paolo Uccello), personaggi della nostra infanzia, come Babbo Natale, icone femminili volute antichissime, come Cleopatra o Lady Godiva: a leggere ancora oggi quelle pagine, si resta sorpresi dal vederli cadere, uno dopo l’altro, sotto la mannaia della critica storica. Le conclusioni degli studiosi non lasciavano spazio all’arcadia: le tradizione più antiche risalgono ai secoli fondamentali del nation building europeo (XVIII e XIX secolo); quelle più recenti, come Babbo Natale o Cleopatra, derivano malinconicamente da campagne pubblicitarie americane degli anni Trenta del secolo passato, della Coca Cola (il buon vecchio barbuto e vestito di rosso) o di case produttrici di prodotti di bellezza. Gli storici, poi, hanno mostrato come, dall’Europa, il fenomeno dell’invenzione della tradizione si estende a tutto il mondo. Gli Usa inventano la tradizione Wasp (White Anglo Saxon Protestant), fondando con una pretesa di antichità un modello cittadino del tutto ottocentesco; i giapponesi inventano il mito del Sol levante e dei Samurai dalla fedeltà feroce. In Africa, si crea, a partire dalla scoperta di Lucy, scheletro di australopiteco, da parte del paleoantropologo Don Johansson (1974), la madre comune di tutte le donne etiopi, prova storica ineludibile della loro nobiltà. E poi, sulla scorta di Cheikh Anta Diop, il mito dell’Africa, madre di tutte le culture[22]. In sud America, per proclamare la loro indipendente diversità dagli odiati Usa, si impone il termine, “America Latina”, senza nemmeno sospettare che questo fu una delle tante creazioni di Napoleone III, ancora lui, nel suo sanguinoso e infelice tentativo di conquistare una fetta di nuovo continente, da opporre a quello dominato dagli anglosassoni[23]; per non parlare dell’India, la cui produzione di eroi è stata di recente oggetto di accurati studi storici[24].

 

Gli eroi non vivono isolati nel passato. Il loro mondo è costituito da un racconto, del quale Eviatar Zerubavel ha messo in luce sia gli aspetti retorici, sia gli scopi sociali. Questo racconto è “la storia tradizionale”. Quella che tutti hanno studiato a scuola: gli occidentali fino dal 1800, e gli abitanti delle altre nazioni a partire esattamente dal momento nel quale il loro stato ha raggiunto l’indipendenza[25]. La dimostrazione di Zerubavel è argomentata, erudita e convincente: quel racconto storico produce l’illusione di un passato, in stretta continuità con il presente, e dà al lettore (alla sterminata famiglia di lettori nazionali, dovremmo dire) l’illusione di appartenere ad una comunità, che affonda le radici nel passato. E’ un racconto con funzioni identitarie, e – solo in secondo luogo – conoscitive. Non serve dunque, per permettere agli allievi di conoscere gli eventi più importanti del passato. Ma ha lo scopo di convincerli che fanno parte di una comunità nazionale, culturale, religiosa, linguistica, di gusti …

Gli eroi, in questo ambiente pedagogico-narrativo sono perfettamente a loro agio. Ma il ragionamento di Zerubavel ci aiuta a focalizzare il vero dilemma odierno. Che fare: rinunciare agli eroi, crearne di nuovi, pacifici e interculturali, o rivedere a fondo lo scopo della narrazione, che dà loro senso?

 

 

Ci guida verso una possibile risposta la ricerca di un medievista americano, Patrick Geary[26]. Questi ha analizzato alcuni elementi costitutivi della storia occidentale (fondamentalmente il passaggio fra antichità e medioevo). Ha studiato come questi si sono formati (ahimé sempre nel corso del secolo XIX); ha messo in evidenza gli stretti legami fra ambienti scientifici e ambienti politici, e le forti idealità nazionali dei medievisti del tempo e il loro indissolubile coinvolgimento nei progetti di nation building francese, italiano e soprattutto tedesco. Ha messo in luce gli anacronismi (forse inevitabili in quel periodo), che portarono quegli studiosi a “retrodatare” realtà che nel V e nel VI secolo erano inesistenti, e prima fra queste, “il popolo”. In realtà, questo soggetto, fondamentale nella vita politica, e in definitiva nella storia moderno-contemporanea, era impensabile nella tarda antichità. Esistevano bande, tribù, federazioni di “gentes”, come le chiamavano i romani, che –  per comodità, e sicuramente con un una buona dose di disprezzo – adoperavano generici nomi collettivi: i germani, gli slavi, i reti e così via. E a loro volta, queste genti, si sceglievano dei nomi: gli alemanni (che vuol dire: tutti gli uomini) o i franchi (i coraggiosi o i liberi) e ne ripescavano dal passato altri, come gli svevi, oppure ne ricevevano dai vicini, come gli ungari. E completavano questo processo “inventandosi” un passato remotissimo, di antenati che cacciavano fieri nelle terre gelide della Scandinavia o della Siberia, e di eroi, saggi ed invincibili, che li condussero presso i confini dell’impero.

Una storia inventata nel passato, dunque, che si trovò in perfetta sintonia con le aspirazioni politiche ottocentesche. Il terreno ideale per la nascita di discipline quali l’etnoarcheologia o l’etnolinguistica, che a loro volta supportarono la formazione della nostra storia, quella che raccontiamo a scuola, e che fonda l’odierna mitologia storico pedagogica: l’antichità classica costruito l’unità culturale dell’Occidente, il medioevo ha dato a questi i popoli, l’età moderna ne ha fatto degli stati nazionali.

Sarebbe ora che gli storici europei, conclude Geary, riconoscessero questo errore profondo e del quale oggi avvertiamo tutta la pericolosità, e collaborassero alla creazione di una nuova storia, nella quale forse, sarà assolutamente secondaria la questione se inventare nuovi personaggi esemplari, o tenersi i vecchi, perché ci permetterà di liberare questi eroi dal pesante compito della formazione, e ce li restituirà al puro piacere della narrazione.

 

 



[1] Una galleria vastissima di eroi si trova in M. Flacke (ed), Mythen der Nationen. Ein Europaeisches Panorama, Kohler and Amelang, Berlin-Munich, 1998, che raccoglie le mitologie nazionali di 12 stati dell’UE, della Russia e degli Usa. …Libro francese. A. Brusa, Manuali e eroi, ha mostrato come la retorica eroica si sia spostata dal testo al paratesto, nella manualistica italiana.

[2] A. Brusa, Héros et déserteurs, gli eroi della prima guerra mondiale. Sulla base di questa ricerca si sono sviluppate tre tesi di laurea, presso il Dipartimento di Scienze Storiche e Sociali dell’Università di Bari, che hanno setacciato analiticamente le biografie eroiche della prima guerra mondiale, e il loro modificarsi nel corso del XX secolo, fino quasi a scomparire.

[3] H. Schlechte, Durch eigene hollaendische Kunst angeregt, fuehle ich, dass ich Hollaender bin, in M. Flacke, cit., pp. 223- 247, 242 ss.

[4] Didattica degli eroi

[5] Marc Ferro

[6] J. Harmant, Historiographie d’un mythe. L’invention de Vercingétorix de 1865 à nos jours, in « Storia della Storiografia », 15, 1988, pp. 2-16. D. Trom, Die gespaltene Erinnerung, in M. Flacke, cit. pp. 129-151, 130-133.

[7] Ch. Amalvi, Les héros de l’Histoire de France. Recherche iconographique sur le panthéon scolaire de la Troisième République, Paris 1979 ; ID., De l’art et de la manière d’accomoder les héros de l’histoire de France, de Vercingétorix à la Révolution, Paris 1988.

[8] A. Jouanna, Histoire et polémique en France dans la deuxième moitié du XVIème siècle, in « Storia della storiografia », 1, 1982, pp. 57-76.

[9] A. Omodeo, La leggenda di Carlo Alberto, in Id., Difesa del Risorgimento, Torino 1955, pp. 156-235. La descrizione più completa di questa strategia politica si trova negli studi di I. Porciani, “Fare gli italiani”, in M. Flacke, cit., pp. 199-222; Id.,  Il libro di testo come oggetto di ricerca: i manuali scolastici nell’Italia postunitaria, Bari, 1982; Id., La festa della nazione: rappresentazione dello Stato e spazi sociali nell’Italia unita, Bologna 1997. Il modello di curricolo storico, costruito innestando nella storia generale, comune a molte nazioni europee, la storia dinastica sabauda: G. Di Pietro, La storia nelle scuole medie italiane dalla fine del Settecento all’età della Destra, in “Società e Storia”, 6, 1079, pp. 725-61. G. Ricuperati, L’insegnamento della storia dall’età della sinistra ad oggi, ibidem, pp. 739-92.

[10] E. Signori, La Grande guerra e la monarchia italiana: il mito del “re soldato”, in          pp. 179-203. In genere, sugli eroi della I guerra mondiale, costruiti spesso sul modello dell’uomo comune che si nobilita con la morte, vedi A. Brusa, Héros, cit.

[11] M. Rigotti Colin, Il soldato e l’eroe, in “Rivista di Storia contemporanea”, 14, 1985, 3, pp. 329-351; I. Porciani, “Fare gli italiani”, cit.

[12] Debray, Le scribe. Génèse du politique, Paris 1990, p. 24.

[13] E. De Amicis, Il libro Cuore,

[14] E. Sestan, Legnano nella storiografia romantica, in Id., Storiografia dell’Otto e Novecento, a c. di G. Pinto, Firenze 1991, pp. 221-240, 232.

[15] R. Bordone, Il passato storico come tempo mitico nel mondo cittadino italiano nel Medioevo,in “Società e Storia”, 51, 1991, pp. 3-22: mostra come questo processo di rielaborazione mitografica della realtà sia pressoché coevo ai fatti. M. Feo, Il Poema epico latino nell’Italia medievale, in AA VV, I linguaggi della propaganda, Milano 1991, pp. 30-73, riporta ampi brani del Carmen de Gestis Frederici I imperatoris in Lombardia (pp. 45-49), con le inequivocabili testimonianze d’affetto verso l’imperatore tedesco. Una messa a punto recente sugli stereotipi legati al Medioevo si trova in F. Marostica (ed), Medioevo e luoghi comuni, Tecnodid, Napoli 2004. Per i problemi didattici connessi, si veda anche A. Brusa, Prontuario degli stereotipi medievali, in “Le Cartable de Clio”, 2005, in corso di stampa.

[16] Ricavo questa notizia dal delizioso libretto di L. Braccesi, L’Antichità aggredita. Memoria del passato e poesia del nazionalismo, L’Erma di Breitschneider, Roma 1987.

[17] P. Fanfani, Il Plutarco nelle scuole maschili, Firenze 1872: rileviamo solo en passant, che quando si trattava di storia, si pensava esclusivamente ad una educazione maschile.

[18] B.F. Garelli, Il giovinetto campagnolo educato e istruito, Torino, 1892, citato in G. Oliva, L’eroismo militare come linguaggio del consenso: due modelli propagandistici dell’Italia liberale, in AA VV,  I linguaggi della propaganda, cit. pp. 122-127, 114.

[19] Miti portoghesi

[20] F. Cassano, Approssimazioni, Bologna …

[21] E.J. Hobsbawm, T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Torino 1987. Le notizie sui diversi continenti sono ricavate dal dibattito su questo libro, svoltosi su “Passato e Presente”, 14-15, 1987, pp. 11-20, fra Innocenzo Cervelli, Tim Mason, Alessandro Triulzi e Franco Gatto.

[22] A. Brusa, L. Cajani, africa, in “Didactica de las ciencias sociales y sperimentales”…

[23] America Latina es tu hora!

[24] Si veda il recente speciale delle “Annales” (2005)

[25] E. Zerubavel, Mappe del tempo, Bologna 2005

[26] Patrick Geary, Quand les nations refont l’histoire. L’invention de l’Europe

(dal sito www.sportellostranieri.bergamo.it)

 

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