Essenzializzazione |
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I concetti storici essenziali, per
discutere di patrimonio europeo, e di temi connessi, fra i quali l’intercultura
Di Antonio Brusa
Nei discorsi sul patrimonio europeo, ricorrono molti concetti, quali eredità, origini, radici, ecc In molti casi, sono autentiche “metafore”. Per il loro uso corretto, dunque, occorre fare attenzione a questa loro allusiva e non realistica. L’albero ha radici vere; una società le ha solo metaforiche. Nella discussione corrente (ma anche in molte argomentazioni storiche) ci si dimentica di questo aspetto, e si tende a immaginare che effettivamente “sotto quella data città” si stendano le sue radici; o che effettivamente una società lasci la sua “eredità” a quella successiva, come accade all’interno di una famiglia per bene. Gli antropologi conoscono questo processo cognitivo, e gli hanno dato un nome: “essenzializzazione”. Consiste nella trasformazione di concetti analitici (usati cioè per la ricerca, e dunque in contesti molto rigorosi) in concetti realistici, come se si riferissero a realtà effettive. Gli storici usano effettivamente “eredità, patrimonio, radici” ecc. Ma li usano come termini che si riferiscono a fenomeni particolari (in genere si tratta di scambi o di passaggi di singoli elementi culturali). Quando, invece, vengono essenzializzati, miracolosamente acquistano una loro consistenza: diventano essi stessi dei soggetti storici. Il caso più significativo è senz’altro quello che ha caratterizzato il concetto di “cultura”. Se lo si essenzializza, lo immagineremo come una qualcosa che ha suoi “confini”, una sua “fisionomia”, una sua “realtà”: come se fosse una montagna, una persona, una città. Invece, il termine indica uno degli aspetti più astratti e inafferrabili della vita sociale umana. Chi ha mai “visto” una cultura? Chi ne ha mai osservato e percorso “i confini”? Una cultura è un insieme, mutevole e cangiante, di “tratti culturali”: azioni, credenze, teorie, comportamenti, che, come se fossero le molecole di un gas (ahimé altra metafora!) si spostano in continuazione, si aggregano e si ricompongono. L’essenzializzazione della cultura è un fenomeno per nulla spontaneo, derivante dall’abuso della scienza antropologica. Al contrario, è avvenuto all’interno stesso della disciplina (si ricordano a questo proposito il culturalismo americano e Franz Boas) e di qui si è diffuso nel resto della società. Ma una “cultura essenzializzata” si accompagna sempre a un punto di vista ben preciso. Lo richiede con forza: se esiste come realtà, infatti, occorrerà difenderla, preservarla, conservarla pura e intatta. Ma per converso, anche chi sostiene una cultura “aperta” compie lo stesso errore di essenzializzazione, se immagina che occorra “meticciarla” con le altre, senza paura. Come se esistessero culture pure e culture meticce, e non fossero, per definizione e storicamente, tutte meticce. Ma se il processo di essenzializzazione della cultura
appartiene al dibattito antropologico, in ambito storico-didattico è stato
individuato da molto tempo un processo cognitivo analogo, che ci aiuta a capire
che cosa accade, quando si discute correntemente di fenomeni astratti: Si tratta, riassumendo, di tre processi cognitivi analoghi (reificazione della metafora, essenzializzazione e personalizzazione), che presiedono alla costruzione del senso di un complesso di concetti che vengono utilizzati nei contesti più diversi (da quelli scientifici a quelli della vita quotidiana e dei media), quando si discute intorno ai temi dell’identità e del patrimonio. Ciò che preoccupa, di questi concetti, è che, una volta che vengano appresi e usati nella loro versione essenzializzata, intervengono pesantemente (per quanto in modo del tutto inavvertito) sia nella strategia dell’argomentazione, sia negli esiti del discorso. Predeterminano, in qualche modo, le conclusioni: se, in pratica, le “radici” sono immaginate come un qualcosa di concreto e reale, allora si tireranno appresso tante altre metafore (dall’innaffiarle, al preservarle, all’evitare di tagliarle), anch’esse percepite in forma realistica e condurranno quasi inevitabilmente alla conclusione che bisogna intraprendere quella tale iniziativa giusto “per non tagliare le nostre radici”. Argomento da considerarsi definitivo: e chi mai vorrebbe, in effetti, tagliare le proprie radici? In questo modo un termine, nato per essere adoperato nella ricerca (e quindi come strumento euristico, di apertura ai dubbi e all’inchiesta continua) si trasforma in un guardiano della conservazione. Una trasformazione che, indubbiamente, lo snatura. Nei processi di formazione occorre riportare (in questo come in tutti i casi) i concetti alla loro natura epistemologica corretta. E, per favorire l’insegnante in questo lavoro, viene qui presentato un piccolo “dizionario”, nel quale gli usi comuni dei diversi concetti, vengono raffrontati a quelli più ristretti e scientifici.
Viriato, Giulio Civile, Burdicca, Arminio, Vercingetorige,
Decebalo, Spartaco furono protagonisti necessari e al tempo stesso marginali
della storiografia latina. Poiché, infatti, capeggiarono guerre e rivolte
contro l’impero romano, furono necessari per mostrarne la forza irresistibile;
ma, al tempo stesso, recitarono un ruolo inevitabilmente marginale, perché gli
storici latini erano più che altro interessati a magnificare la potenza del
loro esercito, il coraggio e la bravura dei loro generali. Per tale motivo,
questi personaggi non sono uniformemente studiati nelle scuole europee
(naturalmente, dove si insegna un po’ di storia romana), e non sono egualmente
conosciuti dalla massa dei cittadini dell’UE. Ognuno è eroe nella sua terra:
Giulio Civile, che guidò la resistenza dei batavi, è celebrato in Olanda;
Arminio, il vincitore di Teutoburgo, è lungamente raccontato nei manuali
tedeschi, così come Vercingetorige in quelli francesi. A questa pattuglia di eroi, tratti compattamente dalla storiografia romana, si aggiungono altre schiere, provenienti dalle fila del Medioevo, dell’età Moderna e di quella Contemporanea: Carlomagno, Federico Barbarossa, Guglielmo Tell, Stefano I; e poi, ancora, Ladislao Jagellone, Guglielmo d’Orange, Martin Lutero; e, a chiudere questa sfilata, i protagonisti dei molti Risorgimenti (italiano, tedesco, polacco, greco) e della prima guerra mondiale: questi ultimi quasi tutti sfortunatamente morti in combattimento, con l’eccezione, sorprendentemente comune, di Mussolini e Hitler, dei quali i manuali italiani e tedeschi del tempo raccontano, che si temprarono come l’acciaio, in quella straordinaria forgia della modernità, costituita dalle trincee del Carso e del fronte franco-tedesco[2]. Sfogliando i manuali di storia dei paesi europei, scopriamo una sorta di Olimpo, popolato da alcuni semidei, che tendono ad essere ammirati in molti paesi (come Cristoforo Colombo o Goffredo di Buglione), mentre altri sono onorati solo localmente, come Pietro Micca, in Italia, o Jan van Speyk, in Olanda: eroi di nazioni diverse, ma associati dal fatto di essere uomini del tutto comuni - montanaro il primo, figlio di pescatori il secondo - che presero la tragica decisione di farsi saltare in aria insieme con i nemici. Entrambi martiri suicidi, a lungo spensieratamente offerti all’imitazione dei bambini dei rispettivi paesi[3]. Per quasi due secoli, infatti, questi eroi sono stati proposti a milioni di allievi come modelli, ora di coraggio e di abnegazione, ora di astuzia, intelligenza, sapienza. Sono stati strumenti didattici, considerati efficaci per creare individui disposti a mettere al servizio della collettività il cuore, le braccia e il cervello. Furono i “mattoni” di quel processo, conosciuto dagli storici come nation building. Oggi, per analogia col passato, potrebbe essere forte la tentazione di creare un “super-olimpo” dell’Unione Europea, un concilio composto dagli eroi condivisi, o da quelli giudicati più significativi e meritevoli di entrare in una hit parade continentale. A sostegno di questo progetto, potrebbe giungere anche una certa stanchezza della didattica, intesa come disciplina per la crescita delle intelligenze, ed una ripresa di antiche visioni dell’apprendimento: centrate sull’empatia, sul fascino del racconto, sul coinvolgimento morale, sull’immedesimazione con i modelli letterari o storici. In una parola, sembra che la parabola della formazione si stia chiudendo su se stessa, e torni alle sue origini ottocentesche, quando l’urgenza di dar corpo e sostanza alle “comunità immaginate” spinse i politici e gli intellettuali del tempo a progettare e realizzare quella pedagogia identitaria della storia, della quale gli eroi furono una struttura portante[4]. Come la ricerca storico-sociale ha ampiamente dimostrato, le questioni identitarie coinvolgono strettamente l’attività politica di una nazione o di un gruppo umano. Sono causa primaria, perciò, dell’uso pubblico della storia: quella tendenza, sempre più diffusa nel mondo attuale, ad utilizzare le conoscenze storiche per ottenere vantaggi economici o politici. Uno stato si qualifica e si distingue, fra tutti, per l’antichità della sua storia, così come un partito politico o un gruppo di pressione; un dato territorio, un’azienda, una città magnificano il loro passato, ne diffondono l’immagine attraverso i media, e incrementano, in questo modo, la vendita del proprio prodotto (turistico o manifatturiero). Molti sono quelli che “mettono le mani sulla storia”, scrisse qualche tempo fa Marc Ferro, vice direttore delle “Annales”, vivamente preoccupato dal fatto che questo nuovo contesto modifica profondamente il nesso fra la produzione del sapere storico, e la sua diffusione nella società[5]. Lo storico che condivida tale inquietudine, dovrebbe ripensare il proprio lavoro, formatosi quando la storia era disciplina erudita ed esclusiva di poche élites; mentre l’insegnante di storia, dal canto suo, dovrebbe porre attenzione critica agli obiettivi della sua professione, proprio perché questi si sono strutturati in sintonia con i processi di nation building. Queste riflessioni ci portano a considerare criticamente la recente ripresa della narratività, alla quale abbiamo accennato sopra, e a concentrarci, invece, sull’obiettivo di distinguere la conoscenza storica dai suoi usi sociali e politici. E, poiché questi usi sono indubbiamente parte non trascurabile del funzionamento della società contemporanea, diventa un obiettivo didattico importante quello di conoscerli e imparare a valutarli. In questa prospettiva, gli eroi, da soggetti della storia, dovrebbero diventare oggetti di studio storico. Da soggetti e modelli della formazione storica, diventerebbero mezzi e strumenti importanti per scoprire aspetti importanti della società: non meno attraenti, forse, di quei racconti e aneddoti, che i bambini europei hanno studiato collettivamente fino agli anni ’70 del XX secolo. Prendiamo, ad esempio, Vercingetorige, eroe indiscusso della formazione storica francese. Oltre cento anni di studio, di libri e raffigurazioni, ne hanno decretato una fortuna che ha valicato largamente i confini scolastici ed eruditi. Basti pensare al successo della saga di Asterix e Obelix, eroi che, al di là dell’ironia del fumetto, mandano segnali inequivocabili della indomabilità senza riserve di quella nazione. Dei veri emblemi nazionali, lo riconosciamo. Per questa ragione, se noi moderni potessimo visitare la galleria degli eroi di Versailles, spostandoci indietro nel tempo fin verso la metà dell’Ottocento, ci stupirebbe molto l’assenza del condottiero gallico. Ma troveremmo anche dei custodi pazienti, a spiegarcene il motivo: “E’ un perdente, e dunque non esiste per la memoria francese, come Waterloo”[6]. E, in effetti, i francesi, e prima di loro i franchi, i gallo-romani, e l’innumerevole famiglia dei celti, non avevano molti argomenti, per andare fieri di Vercingetorige. E’ vero che fu coraggioso, irriducibile e non accettò il dominio straniero. Ma è altrettanto vero che condusse le armate galliche verso un disastro collettivo, con una strategia sbagliata, e che (e questo era un motivo supplementare di vergogna) fu consegnato dai suoi compatrioti a Giulio Cesare, in cambio della cessazione dell’assedio di Alesia. Fu, dunque, un condottiero sconfitto e tradito, e, conseguentemente, un pessimo candidato all’Olimpo. Ma nel 1865 uno storico e un imperatore (Augustin Thierry e Napoleone III) decisero che era il momento di farne un simbolo nazionale. Lo proclamarono “martire del diritto” e, come tale, lo elessero (lui, il nemico acerrimo dei romani) a “combattente in difesa della civiltà latina”. Tutto questo, poco prima che la Francia cominciasse una guerra suicida contro la Germania, e lo stesso imperatore venisse definitivamente travolto e deposto. Dunque: alle origini del mito del re gallo non ci fu la sua tragica vicenda, né lo strenuo ricordo che di lui conservarono i suoi amati sudditi e i loro discendenti. Vercingetorige non “visse per sempre nel cuore dei francesi”. Al contrario, questi aspettarono ben duemila anni, per cambiare opinione su di lui, e lo fecero in seguito ad un’operazione di “uso pubblico della storia”, dalla fortuna brillante e stranamente vendicativa: perché se è vero che l’eroe, da allora, entrò nella memoria storica della Francia, è altrettanto indubbio che nessuno tenne viva la memoria del vero creatore del mito. Vercingetorige non è un caso paradossale o isolato. Se continuiamo ad aggirarci nel Pantheon francese, noteremo, infatti, che la schiera degli eroi tardivi è piuttosto folta[7]. Clodoveo, considerato nella storia insegnata come il vero fondatore della Francia, fu una creazione degli eruditi del XVI secolo. Questi, col proposito di conferire una genealogia illustre al nascente stato francese - una costruzione politica composita, basata sulla magistratura e sulla nobiltà - fantasticarono intorno all’idea che i magistrati discendessero dai galli, e i nobili direttamente dai lombi, per l’appunto, di Clodoveo, proclamato per l’occasione “primo sovrano franco”[8]. Dal canto suo, nemmeno Carlo Magno (della cui natura eroica nessuno oggi più dubita) ai suoi tempi godé di fama cristallina. Al dire di alcuni suoi cronisti, anzi, si macchiò di nefandezze indicibili e neppure la sua incoronazione fu esente da qualche diceria. Una tradizione, poco elegante ma di grande successo, lo volle sovrano rimbambito, vittima dei giochi di palazzo, sempre bisognoso del soccorso dei valenti nobili del suo esercito. Giovanna d’Arco, peraltro una delle poche eroine che l’antichità ci abbia consegnato, ha dato vita ad una tradizione colma di imbarazzi e reticenze. Commemorarla era difficile e pericoloso: ora non si potevano irritare gli inglesi, che la catturarono; ora la Chiesa che, non andrebbe taciuto, la mandò al rogo; ora si doveva tener conto dell’orgoglio della monarchia, che si sarebbe sentita sminuita dall’aiuto femminile. Insomma, si dovette attendere la fine della prima guerra mondiale – era trascorso mezzo millennio di silenzio - perché i ricordi si decantassero, e si potesse proclamare il mito francesissimo della “pulzella d’Orléans”. Questi esempi francesi ci insegnano che il concetto di eroe ha molte sfaccettature. E’ un concetto complesso. La prima sfaccettatura riguarda la vicenda storica di partenza. Non attendiamoci, però, un’impresa sempre fuori dal comune, un’avventura dai connotati eccezionali. Spesso è decisivo un secondo aspetto: il modo con il quale quella vicenda viene rielaborata, a volte a distanza di secoli, e dal quale dipende sia il carico di valori, che le viene attribuito, sia la trasfigurazione eroica del suo protagonista. E’ a questo punto, che l’eroe acquista l’immortalità, perché il suo ricordo si fisserà nella memoria collettiva, e verrà tramandato di generazione in generazione. E, ancora in quello stesso momento, l’eroe si arricchirà di una potentissima carica formativa, basata sulla promessa, all’allievo che lo imiterà, di diventare un cittadino leale e rispettato, e, prospettiva ancora più esaltante, di trasformarsi, anche lui, in un eroe, immortale come il suo modello. Il passo dall’Olimpo all’aula è assai breve. L’eroe, potremmo concludere, è uno strumento “naturalmente pedagogico”. L’Italia, uno stato-nazione molto più giovane della Francia, fornisce una accurata conferma di questa complessità del concetto, ma anche la possibilità di scoprirne degli aspetti inediti. Prima dell’unificazione (1861), infatti, ogni stato italiano possedeva un proprio pantheon, costituito in gran parte dai personaggi eccellenti della dinastia regnante, studiati nelle scuole e raffigurati nelle piazze cittadine in pose magniloquenti, spesso con le loro ignare cavalcature (una forma di decoro urbano molto diffusa in tutta Europa). Con l’unificazione italiana, il Piemonte estese a tutta la nazione il suo pantheon, e, al tempo stesso, promosse una forte politica culturale, per annettere eroi regionali-nazionali o sollecitarne la nascita. Per quanto riguardava la dinastia sabauda, il processo fu rapido, e non attese i secoli che caratterizzarono gli esempi francesi visti sopra. Carlo Alberto, ad esempio, il re che, dopo essere stato sconfitto dall’Austria, aveva abdicato ed era andato in esilio in Portogallo (1849), venne canonizzato ancor prima della sua morte[9]. Con lui, fece il suo ingresso nella manualistica italiana, l’intera progenie savoiarda. E, come con il re esule, non si perse tempo nella canonizzazione di nessuno dei suoi successori. Vittorio Emanuele II divenne rapidamente “il re galantuomo”; Umberto I fu celebrato come “il re buono”. Per ultimo, toccò a Vittorio Emanuele III, il cui processo di eroizzazione consisté nel trasformarlo da individuo schivo e poco appariscente, quale egli era, in simbolo di una nazione di onesti lavoratori, poco inclini alla retorica. La sua immagine venne disegnata con cura, in un contrasto ricercato con i sovrani austriaci e tedeschi, pomposi e distanti dalle masse: il “re soldato” sconfiggeva gli imperatori-generali, e vendicava il poco fortunato bisnonno, Carlo Alberto[10]. Soldati coraggiosi e contadini lavoratori, questo era il
prototipo intorno al quale lavoravano i costruttori della memoria storica e
dell’identità italiane, rielaborando momenti e personaggi delle diverse storie
regionali, a volte talmente marginali, da essere stati trascurati – fino ad
allora - dagli stessi eruditi. In questa fatica collettiva, ogni regione
apportò all’erigendo panteon nazionale il suo contributo. La Liguria offriva
Cristoforo Colombo, del quale veniva messa in rilievo la sua ostinazione nel
vincere l’ottusità spagnola, ma, soprattutto, il Balilla: un ragazzetto che
ebbe la ventura di scagliare un sasso, contro un drappello di austriaci, che
avevano occupato Genova, durante una delle innumerevoli guerre dinastiche del
‘700. Il Piemonte, oltre ai sabaudi, presentava il risoluto Pietro Micca, un
serio soldato, immolatosi nella difesa di Torino, sempre negli stessi frangenti
bellici. Dalla Toscana provenivano Pier Capponi e Francesco Ferrucci, eroi
tardo-medievali e rinascimentali, di guerre contro francesi e spagnoli.
Masaniello raccontava il furore e la sventura della ribellione napoletana
contro A questa storia, insegnata nelle scuole, corrispondeva poi (in un parallelismo perfetto con le politiche culturali di tutte le nazioni europee del tempo) una vasta operazione di pedagogia nazionale, che coinvolgeva gli arredi urbani, i nomi delle strade e delle piazze, la creazione di feste, spettacoli teatrali e opere liriche, e, dopo la prima guerra mondiale, l’istituzione del culto del milite ignoto. Un fenomeno peraltro notissimo e esteso alla maggior parte delle società che hanno popolato il pianeta terra. “Sin dalle sue origini, ha generalizzato icasticamente .. Debray, il potere ha un intellettuale alla sua sinistra e un architetto alla sua destra”[12] E, naturalmente, la pubblicistica martellava senza sosta: conferenze, anche nei paesi più sperduti, riviste, quotidiani, libri di storia divulgata e di evasione. Tra questi, il sicuro capolavoro è costituito dal Libro Cuore, di Edmondo de Amicis, un giornalista-scrittore, votatosi alla causa della formazione nazionale. Si tratta del racconto della vita scolastica e familiare di un bambino torinese, Enrico, delle sue paure, gioie, amicizie, dei suoi problemi pre-adolescenziali. Ma anche di ciò che studiava in classe, con impegno. E, fra questi studi, spiccavano i cosiddetti “racconti del mese”, che suo padre gli destinava periodicamente, e i cui protagonisti erano bambini, resi notevoli dal fatto che si erano sacrificati (spesso con la vita) in nome dell’Italia, del senso del dovere, dell’amore filiale: i valori intorno ai quali lavorava, appunto, la pedagogia nazionale. Ebbene, questi giovani eroi provenivano da ogni regione d’Italia: vi era il piccolo tamburino sardo, la piccola vedetta lombarda, il piccolo scrivano fiorentino, il bambino romagnolo e quello più vagamente “meridionale” (ahimé, terra incognita, l’Italia del Sud, anche per i volenterosi intellettuali nazionali). Era come se si dicesse ai giovani studenti: “ogni regione ha formato nel tempo una sua particolare identità; ma tutte contribuiscono con l’ardimento delle sue genti, i valori familiari e l’amore per la terra, alla grandezza dell’Italia”. In scala più ridotta, potremmo concludere, è l’anticipazione inconsapevole di una possibile creazione del pantheon europeo[13]. All’appello degli eroi regionali mancò per parecchio tempo Queste figure eroiche non si succedevano, nei libri di testo, come figurine di una collezione. Erano, invece, vive protagoniste di un racconto complessivo, che metteva gli allievi in grado di comprendere il loro tempo, e di rispondere alle eterne domande sulle origini e sulle mete collettive. Anche queste storie hanno un modello, un nucleo generatore, che possiamo facilmente ricavare, dalla lettura dei manuali europei: un popolo, di per sé buono e pacifico, subisce immensi torti e sofferenze, se ne libera, e il suo valore viene finalmente riconosciuto da tutti. Al fondo, c’è un modello che noi europei conosciamo benissimo. Un pedagogista di fine ottocento lo rivela candidamente. Il modello sul quale il bambino deve formarsi – afferma - è la storia di Cristo; quando, poi il piccolino diventerà adolescente, il suo modello sarà la storia della patria. In questa prospettiva pedagogica, Cristo e la Patria sono posti in perfetto parallelismo: semmai, la storia è lo sviluppo adulto e più consapevole del Vangelo[17]. Da questa idea centrale, si genera uno schema narrativo, che in decine di varianti, troviamo in tutte le storie nazionali europee. Qui ne presento una sintesi italiana, particolarmente efficace, opera di un altro pedagogista ottocentesco: “Circa 1400 anni fa scesero in Italia dei popoli barbari e vi comandarono da padroni. Cacciati quei là, ne vennero molti altri più tardi; ed alcuni, con nostra vergogna, chiamati dagli italiani stessi, in guerra fra di loro. Prima i Francesi, poi gli Spagnoli, poi i Tedeschi, poi a volte gli uni, a volte gli altri, son venuti a piantarsi in casa nostra: e noi si fece da servi per un bel pezzo. Cacciati, bene o male, gli stranieri, sul principio di questo secolo (1800) l’Italia restò divisa a brandelli, come la veste di Arlecchino, e l’Austria continuò a farla da padrona quasi dappertutto. Finalmente nel 1848, nel 1859, nel 1866 e nel 1870 gli italiani scossero il giogo della servitù e sotto questa medesima bandiera si raccolsero in una sola famiglia, acclamando Vittorio Emanuele re d’Italia e Roma capitale del nuovo regno”[18] . Se l’eroe è un martire, vuol dire che ci sono stati dei carnefici. Perciò, il racconto storico li elenca come i grani di un rosario, che nella loro scarna successione, precisano l’essenziale della vulgata storica. Ciò che, al di là delle battaglie, dei personaggi e del vuoto nozionismo (considerato segnale di cattivo apprendimento anche allora), bisogna che tutti i cittadini sappiano è proprio questa sequenza dei nemici: i barbari, in primo luogo, poi i francesi, gli spagnoli, i tedeschi e, infine, gli austriaci. La redenzione finale giunge dopo un lungo travaglio di sofferenze. Potremmo confrontare tutte le storie insegnate negli stati europei, per riconoscere l’identico plot. Varia solo la nazionalità dell’oppressore, ma tutte vantano un periodo più o meno lungo, più o meno antico, più o meno feroce di sofferenza. E, spesso, gli eroi di una storia sono i carnefici di quella vicina. E, ancora più spesso, gli oppressori di un tempo si trasformano nei difensori dell’identità nazionale, in quello successivo. Ecco il Portogallo: il suo eroe primo è Viriato, strenuo difensore dell’identità di quelle popolazioni, che solo il tradimento poté vincere. I carnefici di Viriato sono i Romani. Ma, nella fase successiva, apprendiamo che romani e autoctoni si sono fusi, e difendono la loro identità da nuovi attentatori: svevi, vandali, visigoti. E poi, insieme con questi, preservano la purezza dei loro lombi rinnovati dagli arabi; e di seguito, insospettabilmente, si guardano dagli spagnoli, che – per buona parte del secondo millennio – si danno attivamente da fare per attentare alla loro indipendenza, poco sensibili al fatto di condividere lo stesso eroe fondatore, lo sfortunato Viriato[19]. Spagnoli, francesi, tedeschi, russi, svedesi, inglesi: ognuno di questi popoli è, a seconda degli scenari, redento o carnefice; e, a seconda degli scenari, i diversi protagonisti recitano il ruolo di eroi o di assassini. Non c’è nessun “popolo vergine”, nella scala a ritroso delle sofferenze, ha scritto con efficacia un sociologo, Franco Cassano[20]. Dobbiamo aggiungere che non c’è nessun eroe, presso un popolo, che non sia assassino, per qualche altro. Spiriti purissimi e assolutamente disinteressati, per alcuni, pericolosi e fanatici integralisti, per altri. L’Olimpo degli eroi ci appare, ora, come la punta luminosa di un iceberg, la cui parte sommersa cela aspetti inquietanti: valori che cambiano nel tempo e nello spazio, a secondo degli umori e delle prospettive di chi li gestisce; ma che vengono insegnati comunque come immutabili e sacri. Comportamenti che nel quotidiano la maggior parte di noi considererebbe aberranti, che vengono invece innalzati a modelli eccezionali. Un’idea del mondo circostante potenzialmente ostile, dal quale occorre difendersi. Un’idea del passato inteso come il fondamento della propria nobiltà e grandezza. Una considerazione eccezionale di sé. Il proprio rapporto con la società come di richiesta possibile di sacrificio: madre o padre solo apparentemente benigna e protettrice, in realtà pronta a trasformarsi nell’Isacco che sacrifica il figlio. L’idea di storia e di passato come obbligante: ricorda che sei figlio di tanti eroi, e che non puoi sottrarti al dovere di imitarli. Una prospettiva di se, che, nel quotidiano, giudicheremmo aberrante per noi e terrorizzante se adottata da altri: il sacrificio di sé. Verso la fine degli anni ’70 del secolo passato, iniziò una fecondissima stagione di studi, sui procesi di eroizzazione e sulla elaborazione della tradizione, che coinvolse, nel decennio successivo, storci di tutta Europa. Il punto di partenza fu un convegno, organizzato dalla rivista “Past and Present”,intitolato significativamente L’invenzione della Tradizione[21]. Si era in un periodo che molti osservatori avevano chiamato del “Riflusso”. Il periodo precedente (gli anni 60-70) si erano caratterizzati per la cosiddetta “preminenza del politico”: di ogni aspetto importante della vita sociale, in pratica, doveva essere ricondotto alla dimensione politica. Ora, invece, al principio degli anni ’80, cominciavano a prender piede altre tendenze, secondo le quali la politica era vista come falsa, artificiale, governata da interessi incontrollabili. Nuove sorgenti di verità apparivano più naturali e genuine: quelle che scaturivano dalle radici intime di un popolo, e che, per il fatto di essere sopravvissute alla stagione iconoclastica della modernità, mostravano la forza dei tempi, e la genuinità delle origini. Le tradizioni, in una parola. E difatti, in quello stesso periodo, si assiste al formarsi di movimenti etnici, all’interno dell’Europa, fondati sul presupposto che la costituzione politica degli stati altro non aveva fatto che opprimere l’autenticità delle primordiali radici dei popoli, dei loro canti, dei loro costumi e delle loro tradizioni. Hobsbawm e Ranger, allora, chiamarono a raccolta storici da ogni parte di Europa, sulla base della più semplice parola d’ordine, che li possa riunire a partire da nazionalità e indirizzi politici, i più disparati: “vediamo se è vero”. I risultati del convegno furono sbalorditivi. Gli storici
non tralasciarono nessuna di quelle tradizioni, che ogni gruppo nazionale
sbandierava come simbolo della propria genuinità e dimostrazione della propria
diversità dagli altri popoli. Indumenti, come il Kilt o il tartan e l’infinita
passerella degli abiti “regionali”, strumenti musicali, come la cornamusa,
feste e palii, creduti risalenti al medioevo (e i cui figuranti sembrano
inevitabilmente usciti dai quadri di Paolo Uccello), personaggi della nostra
infanzia, come Babbo Natale, icone femminili volute antichissime, come
Cleopatra o Lady Godiva: a leggere ancora oggi quelle pagine, si resta sorpresi
dal vederli cadere, uno dopo l’altro, sotto la mannaia della critica storica.
Le conclusioni degli studiosi non lasciavano spazio all’arcadia: le tradizione
più antiche risalgono ai secoli fondamentali del nation building europeo
(XVIII e XIX secolo); quelle più recenti, come Babbo Natale o Cleopatra,
derivano malinconicamente da campagne pubblicitarie americane degli anni Trenta
del secolo passato, della Coca Cola (il buon vecchio barbuto e vestito di
rosso) o di case produttrici di prodotti di bellezza. Gli storici, poi, hanno
mostrato come, dall’Europa, il fenomeno dell’invenzione della tradizione si
estende a tutto il mondo. Gli Usa inventano Gli eroi non vivono isolati nel passato. Il loro mondo è costituito da un racconto, del quale Eviatar Zerubavel ha messo in luce sia gli aspetti retorici, sia gli scopi sociali. Questo racconto è “la storia tradizionale”. Quella che tutti hanno studiato a scuola: gli occidentali fino dal 1800, e gli abitanti delle altre nazioni a partire esattamente dal momento nel quale il loro stato ha raggiunto l’indipendenza[25]. La dimostrazione di Zerubavel è argomentata, erudita e convincente: quel racconto storico produce l’illusione di un passato, in stretta continuità con il presente, e dà al lettore (alla sterminata famiglia di lettori nazionali, dovremmo dire) l’illusione di appartenere ad una comunità, che affonda le radici nel passato. E’ un racconto con funzioni identitarie, e – solo in secondo luogo – conoscitive. Non serve dunque, per permettere agli allievi di conoscere gli eventi più importanti del passato. Ma ha lo scopo di convincerli che fanno parte di una comunità nazionale, culturale, religiosa, linguistica, di gusti … Gli eroi, in questo ambiente pedagogico-narrativo sono perfettamente a loro agio. Ma il ragionamento di Zerubavel ci aiuta a focalizzare il vero dilemma odierno. Che fare: rinunciare agli eroi, crearne di nuovi, pacifici e interculturali, o rivedere a fondo lo scopo della narrazione, che dà loro senso? Ci guida verso una possibile risposta la ricerca di un medievista americano, Patrick Geary[26]. Questi ha analizzato alcuni elementi costitutivi della storia occidentale (fondamentalmente il passaggio fra antichità e medioevo). Ha studiato come questi si sono formati (ahimé sempre nel corso del secolo XIX); ha messo in evidenza gli stretti legami fra ambienti scientifici e ambienti politici, e le forti idealità nazionali dei medievisti del tempo e il loro indissolubile coinvolgimento nei progetti di nation building francese, italiano e soprattutto tedesco. Ha messo in luce gli anacronismi (forse inevitabili in quel periodo), che portarono quegli studiosi a “retrodatare” realtà che nel V e nel VI secolo erano inesistenti, e prima fra queste, “il popolo”. In realtà, questo soggetto, fondamentale nella vita politica, e in definitiva nella storia moderno-contemporanea, era impensabile nella tarda antichità. Esistevano bande, tribù, federazioni di “gentes”, come le chiamavano i romani, che – per comodità, e sicuramente con un una buona dose di disprezzo – adoperavano generici nomi collettivi: i germani, gli slavi, i reti e così via. E a loro volta, queste genti, si sceglievano dei nomi: gli alemanni (che vuol dire: tutti gli uomini) o i franchi (i coraggiosi o i liberi) e ne ripescavano dal passato altri, come gli svevi, oppure ne ricevevano dai vicini, come gli ungari. E completavano questo processo “inventandosi” un passato remotissimo, di antenati che cacciavano fieri nelle terre gelide della Scandinavia o della Siberia, e di eroi, saggi ed invincibili, che li condussero presso i confini dell’impero. Una storia inventata nel passato, dunque, che si trovò in perfetta sintonia con le aspirazioni politiche ottocentesche. Il terreno ideale per la nascita di discipline quali l’etnoarcheologia o l’etnolinguistica, che a loro volta supportarono la formazione della nostra storia, quella che raccontiamo a scuola, e che fonda l’odierna mitologia storico pedagogica: l’antichità classica costruito l’unità culturale dell’Occidente, il medioevo ha dato a questi i popoli, l’età moderna ne ha fatto degli stati nazionali. Sarebbe ora che gli storici europei, conclude Geary, riconoscessero questo errore profondo e del quale oggi avvertiamo tutta la pericolosità, e collaborassero alla creazione di una nuova storia, nella quale forse, sarà assolutamente secondaria la questione se inventare nuovi personaggi esemplari, o tenersi i vecchi, perché ci permetterà di liberare questi eroi dal pesante compito della formazione, e ce li restituirà al puro piacere della narrazione. [1] Una galleria vastissima di eroi si trova in M. Flacke (ed), Mythen der Nationen. Ein Europaeisches Panorama, Kohler and Amelang, Berlin-Munich, 1998, che raccoglie le mitologie nazionali di 12 stati dell’UE, della Russia e degli Usa. …Libro francese. A. Brusa, Manuali e eroi, ha mostrato come la retorica eroica si sia spostata dal testo al paratesto, nella manualistica italiana. [2] A. Brusa, Héros et déserteurs, gli eroi della prima guerra mondiale. Sulla
base di questa ricerca si sono sviluppate tre tesi di laurea, presso il
Dipartimento di Scienze Storiche e Sociali dell’Università di Bari, che hanno
setacciato analiticamente le biografie eroiche della prima guerra mondiale, e
il loro modificarsi nel corso del XX secolo, fino quasi a scomparire. [3] H. Schlechte, Durch eigene hollaendische Kunst
angeregt, fuehle ich, dass ich Hollaender bin, in M. Flacke, cit., pp. 223-
247, 242 ss. [4] Didattica degli eroi [5] Marc Ferro [6] J. Harmant, Historiographie d’un mythe.
L’invention de Vercingétorix de 1865 à nos jours, in « Storia della
Storiografia », 15, 1988, pp. 2-16. D. Trom, Die gespaltene Erinnerung, in M. Flacke, cit. pp. 129-151,
130-133. [7] Ch. Amalvi, Les héros de l’Histoire de France.
Recherche iconographique sur le panthéon scolaire de [8] A. Jouanna, Histoire et polémique en France
dans la deuxième moitié du XVIème siècle, in « Storia della
storiografia », 1, 1982, pp. 57-76. [9] A. Omodeo, La leggenda
di Carlo Alberto, in Id., Difesa del Risorgimento, Torino 1955, pp.
156-235. La descrizione più completa di questa strategia politica si trova
negli studi di I. Porciani, “Fare gli italiani”, in M. Flacke, cit., pp.
199-222; Id., Il libro di testo come
oggetto di ricerca: i manuali scolastici nell’Italia postunitaria, Bari,
1982; Id., La festa della nazione: rappresentazione dello Stato e spazi
sociali nell’Italia unita, Bologna 1997. Il modello di curricolo storico,
costruito innestando nella storia generale, comune a molte nazioni europee, la
storia dinastica sabauda: G. Di Pietro, La storia nelle scuole medie
italiane dalla fine del Settecento all’età della Destra, in “Società e
Storia”, 6, 1079, pp. 725- [10] E. Signori, La Grande
guerra e la monarchia italiana: il mito del “re soldato”, in pp. 179- [11] M. Rigotti Colin, Il soldato e l’eroe, in “Rivista di Storia contemporanea”, 14, 1985, 3, pp. 329-351; I. Porciani, “Fare gli italiani”, cit. [12] Debray, Le scribe. Génèse du politique, Paris 1990, p. 24. [13] E. De Amicis, Il libro Cuore, [14] E. Sestan, Legnano nella storiografia romantica, in Id., Storiografia dell’Otto e Novecento, a c. di G. Pinto, Firenze 1991, pp. 221-240, 232. [15] R. Bordone, Il passato
storico come tempo mitico nel mondo cittadino italiano nel Medioevo,in
“Società e Storia”, 51, 1991, pp. 3-22: mostra come questo processo di
rielaborazione mitografica della realtà sia pressoché coevo ai fatti. M. Feo, Il
Poema epico latino nell’Italia medievale, in AA VV, I linguaggi della
propaganda, Milano 1991, pp. 30-73, riporta ampi brani del Carmen de
Gestis Frederici I imperatoris in Lombardia (pp. 45-49), con le
inequivocabili testimonianze d’affetto verso l’imperatore tedesco. Una messa a
punto recente sugli stereotipi legati al Medioevo si trova in F. Marostica
(ed), Medioevo e luoghi comuni, Tecnodid, Napoli 2004. Per i problemi
didattici connessi, si veda anche A. Brusa, Prontuario degli stereotipi
medievali, in “Le Cartable de Clio”, [16] Ricavo questa notizia dal delizioso libretto di L. Braccesi, L’Antichità aggredita. Memoria del passato e poesia del nazionalismo, L’Erma di Breitschneider, Roma 1987. [17] P. Fanfani, Il Plutarco nelle scuole maschili, Firenze 1872: rileviamo solo en passant, che quando si trattava di storia, si pensava esclusivamente ad una educazione maschile. [18] B.F. Garelli, Il giovinetto campagnolo educato e istruito, Torino, 1892, citato in G. Oliva, L’eroismo militare come linguaggio del consenso: due modelli propagandistici dell’Italia liberale, in AA VV, I linguaggi della propaganda, cit. pp. 122-127, 114. [19] Miti portoghesi [20] F. Cassano, Approssimazioni, Bologna … [21] E.J. Hobsbawm, T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Torino 1987. Le notizie sui diversi continenti sono ricavate dal dibattito su questo libro, svoltosi su “Passato e Presente”, 14-15, 1987, pp. 11-20, fra Innocenzo Cervelli, Tim Mason, Alessandro Triulzi e Franco Gatto. [22] A. Brusa, [23] America Latina es tu hora! [24] Si veda il recente speciale delle “Annales” (2005) [25] E. Zerubavel, Mappe del tempo, Bologna 2005 [26] Patrick Geary, Quand les nations refont
l’histoire. L’invention de l’Europe |
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