GIOCO
La
funzione del gioco nella vita psico-fisica
Il
gioco rappresenta un esercizio fondamentale nella strutturazione della
personalità, specialmente di quella
in età evolutiva. Teorie psicologiche o biologiche hanno cercato di spiegarne
la ragione:
A)
Gioco come superfluo di energia, secondo cui il soggetto dispone
di un'eccessiva carica energetica che ha bisogno di scaricare, facendo
qualunque tipo di gioco. È stato però osservato che a volte il bambino
(se l'interesse persiste) gioca anche dopo l'insorgere della stanchezza;
inoltre la teoria, non spiega il motivo per cui un bambino sceglie un
gioco piuttosto che un altro.
B)
Gioco come residuo di funzioni ataviche, secondo cui il soggetto
riproduce spontaneamente alcune attività dei lontani predecessori che
oggi appaiono inutili. Ad es. la lotta soddisfa una tendenza ancestrale;
attuandola il soggetto se ne libera, in quanto considera l'avversario
un partner indispensabile. Giocare molto da bambini (insieme ad altri
bambini) significa avere più probabilità di socializzazione da adulti.
Questa teoria è comunque strettamente legata alla legge bio-genetica di
Haeckel, secondo cui lo sviluppo dell'individuo ricapitola l'evoluzione
della specie (ad es. bambino = uomo primitivo). Questa teoria però, se
può spiegare giochi come la lotta, la corsa, l'inseguimento, la caccia...,
non può spiegare molti altri giochi frutto dell'imitazione dell'adulto
da parte del bambino.
C)
Gioco come funzione e conservazione dello sviluppo, secondo cui
da un lato esso sviluppa e conserva le funzioni utili alla vita adulta
e, dall'altro, agisce come una valvola di sicurezza per scaricare l'energia
di alcune tendenze antisociali che l'individuo si porta con sé dalla nascita.
Questa teoria però non spiega il gioco negli adulti.
D)
Gioco come esercizio preparatorio, secondo cui l'attività ludica
ha il compito di esercitare funzioni biologiche che saranno poi utilizzate
nella vita adulta (ad es. il gattino salta sul gomitolo che gli rotola
davanti e lo addenta, come in seguito farà col topo). Questa teoria è
stata accettata da pedagogisti come Froebel, Claparède e Decroly.
I
giochi infantili
a)
di esercizio senso-motorio (primi mesi di vita). Il gioco
fatto per il solo gusto di esercitarsi, verificando le proprie capacità;
dapprima l'attenzione è verso il proprio corpo, poi si sposta verso gli
oggetti.
b)
simbolici (dai 18 mesi ai 6 anni). Attraverso l'immaginazione
e l'imitazione, il bambino rappresenta un oggetto-persona-situazione che
non sono presenti, ma che fanno parte della sua esperienza; il bambino
drammatizza il mondo interiore della fantasia per mantenere l'equilibrio
psichico; gli oggetti vengono usati non solo per le loro proprietà funzionali
e materiali, ma anche per quelle simboliche, che il bambino attribuisce
loro: ciò ovviamente presuppone una certa capacità di analisi del contenuto
di un ricordo che il bambino vuole utilizzare.
c)
regolamentati (a partire dai 6 anni). Questi giochi subentrano
quando il bambino sviluppa la sua socializzazione, cioè dopo aver acquisito
un certo grado di adattamento alla realtà e di tolleranza alle frustrazioni
(in questi giochi infatti deve accettare la sconfitta e non infierire
sull'avversario in caso di vittoria). Le regole possono essere tradizionali
(quelle tramandate) o frutto di accordi momentanei: l'importanza del loro
rispetto è fondamentale per la riuscita di questi giochi.
d)
hobby (a partire dai 6 anni). Vengono intrapresi per puro
piacere, ma sono sottoposti alla realizzazione consapevole di uno scopo,
che a volte può durare anche tutta la vita, se le gratificazioni ch'essi
forniscono si fanno col tempo sempre più considerevoli (ad es. gli scacchi
o la raccolta dei francobolli). Si pongono quindi in una via di mezzo
fra il gioco e il lavoro.
Il
lavoro
La
capacità di giocare si trasforma in capacità di lavorare quando sono state
raggiunte le seguenti condizioni:
a)
capacità di controllare o modificare gli impulsi, che da aggressivi-distruttivi
devono diventare costruttivi;
b)
capacità di portare avanti piani prestabiliti, trascurando il piacere
immediato, le frustrazioni momentanee, e pensando invece al risultato
finale;
c)
capacità di passare dal principio del puro piacere (fonte di egocentrismo)
al principio di realtà, che permette di vivere il piacere nel rispetto
delle regole sociali.
Lavoro
manuale e intellettuale
·
È necessario armonizzare il lavoro manuale con quello mentale,
sia per creare una personalità psico-fisica equilibrata, che non abbia
difficoltà a muoversi nelle varie situazioni che incontra; sia per impedire
che si formi -come spesso invece succede- la discriminazione del lavoro
manuale rispetto a quello intellettuale. I fatti purtroppo dimostrano
che questa unità di energia muscolare e psichica tende a spezzarsi man
mano che l'adulto si specializza in una determinata attività lavorativa.
L'adattamento
al lavoro
·
Il lavoro scolastico o professionale, eseguiti per un certo
tempo, rivelano un decorso caratteristico che presenta la forma di una
"curva". Si devono all'italiano Angelo Mosso le prime ricerche
sul lavoro muscolare e la sua rappresentazione grafica, detta Ergogramma;
successivamente lo psichiatra tedesco Kraepelin estese queste ricerche
al lavoro psichico, elaborando lo Psicoergogramma.
Le
fasi sono le seguenti:
a)
Fase di spinta iniziale. La novità del lavoro e il desiderio di
mettersi in evidenza danno l'avvio allo slancio iniziale verso un buon
rendimento. Il fenomeno però è di breve durata.
b)
Fase di adattamento. È il periodo di ricerca del ritmo più adatto
alla propria natura psico-fisica per l'esecuzione di un particolare compito.
Il rendimento cala ma è più costante. c) Fase di massimo rendimento. L'equilibrio
del rendimento porta a migliorare l'esecuzione in precisione e rapidità.
c)
Fase decrescente. Graduale diminuzione del rendimento per l'insorgere
della fatica: spreco di energia, senso di stanchezza e di frustrazione.
d)
Fase di spinta finale. Il piacere dell'approssimarsi della fine
del lavoro provoca nel soggetto un lieve progresso, che però dura poco.
·
Queste fasi possono essere verificate nell'arco di un'ora,
come nell'arco di un'intera vita (si veda ad es. il rendimento di un giocatore
di calcio).
Il
problema della fatica
Esiste
uno stretto legame tra attività lavorativa e personalità del lavoratore.
I)
Vi sono fattori soggettivi (inerenti alle risorse psico-fisiche),
come ad es. l'abitudine allo sforzo continuato, la capacità di concentrazione,
l'autocontrollo ecc., che aumentano il rendimento qualitativo-quantitativo
del lavoro e ritardano l'insorgere della fatica. Questi fattori però,
non sufficientemente stimolati da gratificazioni, forme di promozione
o carriera, significatività delle cose che si fanno, ecc., possono non
aumentare affatto il rendimento.
II)
Vi sono fattori oggettivi (inerenti all'ambiente di lavoro) che
possono favorire l'attività lavorativa: igiene dei locali, il guadagno,
la stima dei colleghi, le garanzie previdenziali, assicurative, ecc. Un'aula
scolastica troppo piccola o troppo grande rispetto al numero degli studenti,
illuminata male, senza pannelli antiacustici, sporca o fredda o troppo
calda, con una lavagna troppo piccola, priva di cartine geografiche, dotata
di un solo armadietto - non favorisce certo l'impegno dei ragazzi. Peraltro,
i bambini e i fanciulli (oggi anche molto adolescenti) tendono a smettere
di lavorare appena avvertono i primi sintomi della stanchezza (fatica
soggettiva). Il che li porta ad accentuare le difficoltà reali dei loro
compiti.
III)
Vi sono poi i fattori sociali, connessi al tipo di vita collettiva
di una determinata società, che possono condizionare negativamente, pur
in presenza di molti fattori ottimali dal punto di vista soggettivo e
oggettivo; o, al contrario, possono influenzare positivamente, pur in
assenza di molti fattori ottimali. Ad es. se in una società, attraverso
i suoi mass-media, si dà una netta prevalenza all'immagine, rispetto alla
parola scritta, lo studente a scuola, dovendo studiare sui libri di testo,
si stancherà molto prima. Come noto, l'insorgere precoce della fatica
riduce il controllo dei propri movimenti e rallenta il potere delle inibizioni
automatiche e volontarie (cui si riallacciano, peraltro, quasi tutti gli
incidenti).
L'indice
di robustezza costituzionale
Il
Piquet ha ideato un indice di robustezza, ricavato da numerose e precise
osservazioni: si ottiene sottraendo all'altezza il peso del corpo sommato
al perimetro toracico.
Costituzione
quando l'indice
molto
forte
|
è
meno di 10
|
forte
|
è
fra 11 e 15
|
buona
|
è
fra 16 e 20
|
media
|
è
fra 21 e 25
|
debole
|
è
fra 26 e 30
|
molto
debole
|
è
fra 31 e 35
|
debolissima
|
è
più di 36
|
Il
gioco in pedagogia
(brevi cenni)
a)
L'idea di introdurre il gioco nel campo educativo risale a Rousseau.
Prima di lui la scuola era concepita solo per un lavoro serio e disciplinato,
dove l'allievo doveva imparare a memoria determinate nozioni e acquisire
determinati comportamenti, in un clima di severità, ubbidienza e distacco,
ottenuto anche a costo di punizioni fisiche.
b)
L'importanza del gioco era già stata riconosciuta presso i Greci
e i Romani, ma si trattava di una materia di studio (teorica, nel senso
che si imparavano molte regole; pratica, nel senso che si svolgevano esercizi
più che altro ginnici). Il gioco non era né spontaneo né piacevole.
c)
Bisogna aspettare i pedagogisti moderni, come Pestalozzi, Herbart
e Froebel, perchè si realizzi un'impostazione psicologica ed educativa
dei giochi infantili. Froebel, ad es., mette a disposizione dei bambini,
riuniti nel "giardino d'infanzia" (la loro scuola), una serie
di "doni" capaci di stimolare l'attività simbolica, evocativa,
fatastica del bambino (ad es. egli pensava che la sfera potesse far maturare
nel bambino l'idea del movimento, il cubo l'idea del riposo, ecc.).
d)
Presto ci si accorse che i "doni" erano troppo astratti
e che il bambino ha bisogno di giocare con cose più agganciate alla sua
vita quotidiana. Inoltre si capì che le combinazioni dei giochi imposte
dall'insegnante ostacolavano la spontanea manifestazione dell'iniziativa
individuale.
e)
La Montessori invece ha cercato di graduare il materiale ludico
alla maturità psicologica del bambino, col fine specifico di sviluppare
le funzioni senso-motorie. Il bambino cioè veniva educato a riconoscere,
attraverso il gioco, le sue diverse attività senso-motorie. Ma in tal
modo -è stato obiettato- si valorizzavano poco le idee tipiche della vita
infantile.
f)
Infine, Dewey, Decroly, Claparède hanno cercato di fare del gioco
un mezzo per sviluppare integralmente la vita psico-fisica del bambino.
Approfondimenti
Il gioco dei bambini vs i giochi dei grandi.
Il tempo dell'infanzia vs il tempo degli adulti
|