Sistema dei media
e identità in movimento della scuola
di Roberto Maragliano
- Università Roma Tre
(r.maragliano@uniroma3.it)
I media come risorsa per costruire
mondi
Il mio modo di intendere
i media digitali e più in generale le tecnologie della conoscenza
e della comunicazione è meno interessato agli aspetti tecnici
e materiali di funzionamento di questa o quella macchina e più
proiettato a cogliere, nella disarticolazione/riarticolazione
dei blocchi del sapere messa in scena dell'azione congiunta dei
numerosi strumenti di cui disponiamo oggi per conoscere, conoscerci
e comunicare, l'occasione per avviare un ripensamento dell'intera
area dell'esperienza umana, e, all'interno di questa, della specifica
componente educativa.
Ciò
che sostanzialmente io penso delle tecnologie è che ne vada valorizzata
in primo luogo la funzione epistemologica, soprattutto in relazione
alle dinamiche che scaturiscono dal loro agire in forma congiunta,
e che quindi sia da evitare la tendenza, peraltro assai diffusa,
a ridurre l'identità di ciascun mezzo ai soli aspetti materiali
e funzionali che ne caratterizzano l'impiego. Introdurre dentro
il tema delle tecnologie l'esigenza di un'analisi il più possibile
attenta e concettualmente fondata dei processi di conoscenza ed
esperienza che il loro intermediarsi tra soggetto, altri soggetti,
oggetto/i, ambiente e soggetto stesso mette in azione servirebbe
anche a sottrarsi ad un altro diffusissimo luogo comune, quello
vede al di sotto di tali processi, perennemente, il conflitto
tra uno strumento e il suo presunto antagonista.
Riconosco
che questa è una tesi controcorrente, non solo rispetto a chi
guarda ai media con aria di sufficienza (sono tanti, nell'ambito
della pedagogia accademica nostrana, e ancor più nell'ambito della
pedagogia spontanea di quanti si occupano o soltanto si preoccupano
di formazione) ma anche nei confronti di chi facendo suo l'impegno
d'interpretazione delle semiosi favorite dai diversi mezzi del
conoscere e del comunicare non include dentro a questo ambito
d'impegno il mezzo libro, o di chi riducendo il tutto ad un problema
pratico ritiene che la scuola debba impegnarsi in un compito di
alfabetizzazione ai nuovi media. Ma certo non mi si potrà rimproverare
l'averla formulata tardivamente o in modi reticenti: il mio Manuale di didattica multimediale
è del 1994 [1] e il volumetto Tre ipertesti su multimedialità e formazione [2] è anch'esso del
1998 e mai in quei due testi viene sostenuta l'idea che le tecnologie,
in campo pedagogico-didattico, svolgano funzioni soltanto strumentali;
inoltre ci sono, a documentare un tale orientamento, le attività
di ricerca e formazione di cui dà conto il sito web del Laboratorio
di Tecnologie Audiovisive di cui sono responsabile, attività volte
a promuovere una "pedagogia esigente", pensata e teoricamente
centrata sulla possibilità di interpretare i media come dispositivi
filosofici. [3]
Certo,
le macchine ci aiutano ad accumulare e scambiare conoscenza e
ci permettono di realizzare meglio questi compiti, ma ciò che
ce le rende preziose e insostituibili è che, squadernando innumerevoli
rappresentazioni del mondo e invitandoci a farle nostre, costruendo
realtà ma anche facendocele costruire in innumerevoli forme, ci
costringono a pensare, appunto, le forme del mondo e, assieme
ad esse, le forme che noi stressi diamo al mondo. In altri termini,
dialogando e interagendo tra di loro, e facendo tutto ciò tramite
noi stessi, i media ci mettono a contatto diretto con i quadri
ma anche con le cornici del conoscere. E questa è, io credo, un'opportunità
epistemologica che non possiamo permetterci il lusso di ignorare.
Se
avessimo una sola fonte di sapere, questo stesso sapere risulterebbe
monodimensionale (o, come chiarirò successivamente, adimensionale).
Ciò che mi preme mettere in evidenza è che più fonti abbiamo e
più media usiamo più facce possiamo scoprire dell'universo del
sapere e quindi più articolata può farsene il nostro impegno di
percezione, costruzione, concettualizzazione, comprensione. [4]
Naturalmente,
un approccio siffatto presuppone che ci sia, da parte dell'uomo
(non già dell'utente di questo o quel mezzo, ma dell'uomo generale
che usa le macchine, ne pratica un certo numero e in un qualche
modo ne incorpora le funzioni), [5] un continuo lavoro
di tessitura, cioè un'attività ininterrotta, sia conscia sia inconscia,
di istituzione di collegamenti fra le diverse immagini del mondo
che vengono proposte dal singolo mezzo, e tra queste e le immagini
proposte da tutti gli altri media.
L'idea di sistema
dei media, dentro la scuola
Da quanto
detto fin qui consegue che la scelta di portare a scuola le molteplici
configurazioni date dalle macchine al sapere potrebbe favorire
non già una volatilizzazione del sapere stesso (come alcuni ingenuamente
credono) ma al contrario la sua inscrizione in una logica di concretezza,
solidità, operatività: prerogative, queste, che è più facile immaginare
garantite dall'esercizio di una sorta di "conoscenza al plurale"
piuttosto che da una "conoscenza al singolare".
Che poi
buona parte dell'idea e di pratica di scuola di cui disponiamo
sia centrata sulla conoscenza al singolare e che questa scelta,
non vissuta come tale ma come un dato di fatto, risponda ai requisiti
della praticabilità e della comodità pedagogico/didattica è altra
questione, che appunto andrebbe vista come tale, cioè come un
problema di cui essere consapevoli, e non invece come un assunto
irrinunciabile, quasi un assoluto metafisico.
Cosa
intendo dire, con questo? Che la scuola di cui parliamo e che
pratichiamo (anche a livello universitario) è comunque di tipo
tecnologico, essendo costituita in massima parte di esperienza
mediata. Il problema nasce dal fatto che la sua identità e la
sua articolazione sono modellate su una sola tecnologia, la stampa,e dal fatto che
la mancanza di un confronto permette una sorta di nascondimento
di questa matrice tecnologica. La scrittura a stampa, infatti,
sia per ragioni storichesia per ragioni
che chiamerei di "psicologia degli enti",è vissuta non tanto
come un apparato materiale e quindi come una delle possibili configurazioni
del sapere proposto (sia pure la migliore, la più elevata e sofisticata,
ma pur sempre "una"), bensì come "la Forma" del sapere, l'unica
che gli sarebbe legittimamente propria.
Una
tale cortocircuito (come definirlo altrimenti?) presenta indubbie
comodità per la scuola, e in particolare per l'azione di chi insegna
e di chi impara. Per esempio, la comodità di centrare l'attenzione
solo sui "contenuti", senza mai doversi porre il problema di come
essi siano configurati, di quale matrice o cornice cognitiva siano
espressione; o, ancora, la comodità di proporre/illudersi che
si possa approdare ad un modo oggettivo, univoco per riprodurre
l'articolazione dei contenuti e per verificarne l'acquisizione
da parte degli allievi. [9]
Ma questo
cortocircuito, va detto, è anche espressione di una tipica soluzione
di autoaccecamento o di razionalizzazione distorcente, in quanto
corrisponde al non voler vedere niente che sia al di là di ciò
che si giudica (aprioristicamente) visibile, niente che sia posto
fuori di ciò che si è deciso (in forma conscia o no) di poter/voler
vedere.
Secondo l'approccio al quale invece mi rifaccio,
tecnologizzare il sapere scolastico significa compiere una serie
di operazioni esplicite ma concettualmente complesse, che muovono
dalla decisione principale, di tipo strategico, mirante ad affiancare
all'ordine preesistente, inteso come emanazione di un'unica forma
tecnologica, quella determinata dalla stampa, altri ordini, provenienti
da altre forme tecnologiche. Una decisione coerente con l'esigenza
di dar vita, anche dentro la scuola, ad un sistema dei media. [10] Per cominciare,
questo impegno potrebbe tradursi nell'accettare, o meglio nel
volere che il libro (la "forma libro") interloquisca educativamente
con il computer (la "forma computer").
Costruire
un sistema là dove oggi c'è unicità ed esclusività permetterebbe
di ampliare la portata critica e di consolidare la portata strategica
dell'esperienza che il giovane matura in sede scolastica, sia
sul piano cognitivo sia su quello affettivo e relazionale, in
quanto, procedendo in questa direzione (libro + computer + .),
non risulterebbe esclusa, da questa azione di rispecchiamento
plurimo di individuo e media, nessuna forma o espressione della
cosiddetta "esperienza generale".
L'idea di sistema
dei media, fuori della scuola
Il
senso di questa prospettiva può risultare più chiaro, o almeno
mi auguro sia così, se si prova ad individuarne i presupposti
al di là degli spazi dell'intervento intenzionale, nel mondo esterno
alla scuola.
Qui
non c'è luogo dell'esperire e del fare che non venga continuamente
sollecitato, influenzato, addirittura modellato e costruito dall'azione
congiunta dei media o per l'edificazione del quale i media non
forniscano a tutti noi risorse cognitive differenziate, comunque
vissute all'interno di una logica di sistema.
In
riferimento a questo dato di fatto, si può affermare che la nostra
vita è totalmente plurimediale, oggi, o
multi-mediale, [11] cioè giocata dentro
l'azione di più mezzi, i quali presentano diverse identità e nature,
e operano, dentro di noi, secondo modalità di connessione continua,
coerenti con una logica di sistema tanto stringente e avvincente
(e vincente!) da sembrare spontanea, quasi naturale.
Cerco
di chiarire questo punto, che considero cruciale. Non sto parlando
del fenomeno del forte condizionamento culturale che, sul piano
individuale e collettivo, rischia di produrre l'azione coordinata
di più mezzi, quando c'è un qualcuno che ne detiene la proprietà
e ne governa unitariamente l'attività. Non voglio negare che questo
sia un problema serio, è serissimo. Il fatto è che sto parlando
di altro, qui. Sto chiamando in causa l'attività di cucitura,
integrazione, connessione che l'individuo (o il gruppo al quale
appartiene) compie tra i vari elementi di conoscenza/esperienza
prodotti dalla sua esposizione ai media. Mi riferisco dunque ad
un impegno che non trova mai sosta, in ognuno di noi, articolandosi
diversamente sul fronte conscio e su quello inconscio e quindi
assumendo configurazioni diverse e producendo risultati differenziati
a seconda del grado di consapevolezza che ciascuno ha del problema
di "confrontare le cose" e del livello di familiarità con questo
o quel mezzo, ma anche della familiarità, propria di ciascuno,
con
l'idea di sistema.
Di fatto,
quel che ognuno ascolta/vede alla televisione rimbalza automaticamente
su quel che legge sul giornale, e questo a sua volta si intreccia
con ciò che può ricavare dalla navigazione
in Internet o dallo scambio di messaggi (elettronici e no) con
i suoi conoscenti, per non dire del sottofondo sonoro che a questo
intreccio di temi viene garantito da radio, dischi, brusii, chiacchiere
e rumori urbani, o per non dire ancora dell'articolazione visiva
che a tale intreccio viene assicurata dall'album di immagini fisse
e in movimento che inesauribilmente squadernatagli dalle superfici
dei corpi e degli oggetti, dai monitor, dagli schermi. E così
via.
Abitanti
del villaggio dei media - un villaggio grande quanto il mondo,
anzi ben più grande di esso (perché capace di moltiplicarlo con
l'aiuto dell'immaginazione, della teoria, la simulazione, della
narrazione) - costruiamo la nostra identità, giorno
dopo giorno, o, secondo un altro punto di vista (a mio avviso
più corretto) ci dotiamo di più identità, giorno dopo giorno,
proprio stando dentro l'intreccio dei media, dentro le loro interfacce,
e svolgendovi il ruolo di attori, non solo di consumatori.Quindi connettendo
cose, ma anche connettendoci a cose.
Apocalisse dei media
Nel mettere
sotto osservazione i fenomeni di cui ho detto non mi sembra dunque
di toccare aspetti marginali, ritenendo invece che essi fungano
da elementi centrali, da fattori di identificazione del nostro
stare al mondo.
Questo
impegno a connettere, cucire, tessere è una prerogativa irrinunciabile
dell'uomo odierno,considerata la
vastità dell'offerta di elementi assicurata dai media. Ma così
si potrebbe ipotizzare che sia sempre stato, fin da quando l'uomo,
dotatosi della parola parlata, dell'immagine e della scrittura
ha usato queste risorse come strumenti per conoscere, ma anche
per edificare il mondo, e per farlo in modo integrato.
Tutto
bene, dunque? Tutto chiaro, allora? Direi proprio di no.
Spesso,
infatti, ci accorgiamo di non disporre, oggi che il problema è
più eclatante di quanto non fosse ieri, di apparati concettuali
capaci di farci vivere con coscienza, consapevolezza, criticità
e (perché no?) serenità questa cruciale e sempre più pervasiva
componente del nostro esistere.
Capita
infatti con una certa frequenza, e comunque oggi ben più di ieri,
e non solo in campo educativo, che ci si trovi di fronte a rappresentazioni
"apocalittiche", terroristiche e terrorizzanti, relativamente
all'azione dei media, discorsi che appaiono basati su impressioni
più che su dati di osservazione, su luoghi comuni più che su concetti,
su filosofie "spontanee" più che su teorie fondate, e che finiscono
col dividere in due la nostra coscienza (per non dire della/e
nostra/e identità): la parte che ci fa comunque e necessariamente
interlocutori dei media, l'altra che ci fa sentire vittime dei
media, proprio in quanto ne siamo utenti. Di qui la condanna ad
una sorta di perenne schizofrenia: siamo quel che siamo per effetto
dei media ma contemporaneamente neghiamo (o vorremmo fosse annullata)
questa dimensione. [14]
Ecco
allora che fissare alcune concettualizzazioni di base, per esempio
proporre una riflessione preliminare, come sto facendo qui, sull'idea di "sistema dei media",
potrà servire a tutti noi per misurarsi con qualcosa di più impegnativo
e gratificante che non delle semplici (o complicate) istruzioni
per far funzionare un computer o delle banali considerazioni sul
rapporto fra realtà e rappresentazione: E ditemi voi, tanto per
mettere a tacere quest'ultimo tema (che tanto sembra appassionare
psicologi e pedagoghi), se c'è una realtà qualsiasi, fatta propria
dall'uomo, che si presenti nuda, totalmente scissa da modalità
di rappresentazione, ditemi voi a che cosa mai si riduca la realtà
se a sostenerla non c'è l'incontro tra più codici e elementi di
costruzione, ditemi voi se l'idea di realtà di chi conosce più
cose e in più modi diversi sia meno o più realistica di chi ne
conosce meno, di cose, e in un minor numero di modi.
Muoverci
nella direzione di "concettualizzare le tecnologie" ci dovrebbe
aiutare a tenere desto quel che un po' tutti chiamiamo "spirito
critico", anche se poi intendono questa entità in modi assai diversi. [15] Tanto più dovrebbe
risultare necessaria questa azione, quanto più il mondo, esterno
e interno a noi, si fa più complicato e indecifrabile.
Queste
considerazioni, com'è ovvio, le sto facendo anche in relazione
alle condizioni di drammatica incertezza che da tempo il mondo
sta provando, e in particolare dal giorno dell'attacco alle Torri
di New York.
Globalizzazione
comunicativa e iper-multi-anarco-medialità sembrano essere due
caratteristiche forti di questa tragica, grandiosa e opaca svolta
nella "messa in scena" della realtà collettiva.
Stiamo
andando, infatti, ben al di là dei confini della "documentazione"
o di quella che fin qui abbiamo chiamato "guerra in diretta".
I media non si limitano a farci assistere, ci stanno portando
la guerra in casa (ma anche elementi di pace, fortunatamente!).
Ognuno di noi vive a pezzi l'insieme magmatico di questa realtà,
se ne fa delle rappresentazioni, se la cuce a suo modo, utilizzando
il megapuzzle delle rappresentazioni collettive fornitoci dal
sistema dei media, ma usando anche la megacornice che questo sistema
comunque ci assicura. In questo groviglio, in questo reticolo
tutto si tiene, tutto interagisce con e rimbalza su tutto: i grandi
simboli e i grandi sentimenti, i fatti collettivi e i loro risvolti
umani, la necessità dei casi e la casualità degli ordinamenti
necessari; tutto è rappresentazione ma anche presentazione e presenza,
tutto è realtà solo in quanto è molteplicità, è gioco (mi si perdoni
l'espressione!) di rappresentazioni. [16] Cosa sarebbe, chiediamoci,
questo lacerante grumo di esperienza di una guerra "aperta", collegata
ad altre in corso, lontana e vicina nello stesso tempo, locale
e globale, loro e nostra, cosa sarebbe se avessimo a disposizione
un solo codice, una sola risorsa di presentazione del mondo e
del nostro starci dentro? Se dunque l'angoscia per una guerra
esterna e interna trova modi di contenimento è perché possiamo
vedere e possiamo vivere questa "cosa" in vari modi, da diverse
angolazioni e prospettive, è perché in tutto ciò ci è riservata
comunque una parte attiva, che è proprio quella che affida a noi
(alla nostra parte cosciente ma anche a quella inconscia) il compito
di istituire collegamenti, di integrare, di predisporre tessuti
(testi) di conoscenza e di esperienza. Se dunque non soccombiamo
è perché il teatro dei media ci offre una grande occasione per
problematizzare e confrontare, riaggiustare e condividere elementi
di problematizzazione, dunque per sfuggire al ricatto di fatti
e giudizi dati una volta per tutte.
Forma libro e forma
computer
Vengo,
a questo punto, al risvolto pedagogico e scolastico del ragionamento
che ho fin qui sviluppato. E sarò sintetico, considerato che chi
abbia seguito la linea di ragionamento proposta fin qui non dovrebbe
incontrare difficoltà alcuna nel prolungarla fin dentro il contesto
educativo.
Mi è
capitato più volte (e soprattutto nei testi citati all'inizio)
di parlare della scuola (e dell'università) che conosciamo e ancora
pratichiamo, quella configurata in forma di libro, come di una
scuola monomediale. Non è così, o almeno adesso non mi sembra
più che una tale attribuzione sia adeguata.
Preferisco
parlare, ora, di scuola amediale, cioè di una scuola che adotta
sì il formato del libro, che struttura i suoi saperi e le sue
azioni sui saperi in base alla forma-libro, che rifiuta (o semplicemente
non conosce) altra figura epistemologica, ma che poi nasconde
(a se stessa e al mondo) questa sua scelta, e quindi si autopropone
come luogo di irradiazione del sapere tout court, non dunque del
sapere mediato dalla tecnologia stampa e dalla forma particolare
che essa dà al mondo.
E' questa
stessa la scuola che continua a fare resistenza al computer, o
che, se decide o è costretta a tollerare la novità, lo fa proponendosi
di "addomesticare la bestia", cioè trattando il computer alla
stregua di un libro o, peggio ancora, chiudendolo nella gabbia
del 'laboratorio'.
Perché
lo fa? Per autoconservazione, mi sembra evidente. Perché, se cedesse
su questo punto, cadrebbe buona parte della sua identità storica
e attuale, verrebbe allo scoperto l'autoaccecamento di cui è causa
e ad un tempo vittima, si troverebbe costretta a riconoscere l'ipocrisia
sottostante all'idea che sia possibile riprodurre e irradiare
contenuti "allo stato naturale". Perché, credo di averlo espresso
in termini sufficientemente chiari, dovrebbe ammettere (a se stessa
e al mondo) che il suo è un sapere mediato, è una delle possibili
configurazioni di sapere mediato, può darsi o addirittura è certo
che sia la più efficace, economica, vantaggiosa, ma è pur sempre
"una" configurazione rispetto ad "altre" possibili.
Entrando
a scuola (ma entrandoci bene, per quello che è e sa fare, per
la forma epistemologica che gli è propria)il computer produrrebbe
dunque un primo effetto di disincantamento, per il fatto di dare
visibilità di forma alla forma del libro, e poi uno che chiamerei
di "ispessimento epistemologico", consistente nell'aprire nuove
prospettive di conoscenza/esperienza. Insomma, nel fare 'sistema',
seppur minimo (ma in un qualche modo bisogna pur cominciare) aprirebbe
nuove vie e farebbe capire che quelle precedentemente battute,
che potranno/dovranno essere mantenute, erano anch'esse delle
vie, per quanto di forma differente: non erano la terra.
Ma consentirebbe
anche la legittimazione scolastica di intelligenze fin qui considerate
poco degne di un tale riconoscimento, quelle non-accademiche o
anti-accademiche che però il mondo d'oggi sta sempre più valorizzando
(e riscoprendo). Alludo alle forme dell'intelligenza concreta;
la vulgata scolastica della teoria piagetiana le vorrebbe scomparse
fin dai primi vagiti dell'intelligenza formale, e invece governano
molta parte delle attività e dei pensieri di noi adulti: la pratica
manuale, ovviamente, ma anche l'arte,
il gioco, il buon senso, il corpo, l'affettività, insomma
tutti gli ambiti entro i quali intuizione, globalità, immersione,
reticolarità, connettività, simulazione contribuiscono a concretizzare
un paradigma di conoscenza/esperienza diverso ma non alternativo
a quello segnato da analisi, scomposizione, astrazione, chiusura.
Lo si
potrebbe affermare con una formula. Adottando il computer, la
scuola fa sistema: salva il libro, si salva dal libro, fa testo
(ovviamente, nel senso di tessuto).
Multimedialità per
quale scuola
Ovviamente
sono dell'idea che una positiva trasformazione del sistema di
istruzione non possa concretizzarsi solo attraverso un intervento
di questo tipo, anche se tengo a sottolineare che metterlo ai
primi posti dell'agenda del cambiamento non significa predicare
e attuare una sorta di riduzione della politica e dell'azione
pedagogica alla didattica quanto dare il giusto riconoscimento
alla questione di decidere che cosa e come la scuola debba dare
in termini di cultura, esperienza, sapere, rispetto a ciò che
danno altre realtà della scena sociale odierna (che comunque svolgono
un'azione educativa).
Altri
elementi vanno inclusi nel disegno, o meglio nel ri-disegno del
sistema scuola.
Sono
poi quelli su cui, negli ultimi anni, si è concentrato il confronto
pubblico in fatto di riforma scolastica. Elencarli risulterebbe
pretestuoso rispetto all'impianto di questo mio ragionamento.
Mi limiterò
dunque a identificare, tra gli elementi di discussione, quelli
o le classi di quelli che vedo più facilmente entrare in relazione
con il taglio esigente (epistemologicamente e pedagogicamente
esigente) che qui ho inteso dare all'inquadramento scolastico
delle tecnologie della conoscenza. Alcuni degli elementi del confronto/conflitto
sul cambiamento hanno ricevuto una sanzione normativa e stanno
già entrando in azione, altri godono di un riconoscimento normativo
ma non di quello attuativo, altri ancora sono presenti solo come
auspicio o appunto per un intervento legislativo di là da venire.
Di fatto, sono tutti contemporaneamente e a volte confusamente
presenti dentro la rappresentazione collettiva (il "teatrino"?)
della riforma scolastica. Ma mio è il modo di identificarli e
contestualizzarli qui.
La
riarticolazione costituzionale, istituzionale e amministrativa
del sistema
Approdato a quasi centocinquant'anni di vita, l'assetto generale
della scuola italiana sta mettendo in discussione, per la prima
volta in modo impegnativo, la sua originaria e mai infranta vocazione
centralistica. Non lo fa, però, in totale indipendenza rispetto
ai processi in atto di riarticolazione dello Stato e degli altri
apparati di governo del sociale, bensì mosso dalla comune esigenza
di dare identità e voce a tutte le forme di espressione della
volontà collettiva, da quelle più vicine e contestualizzate rispetto
ai regimi di vita degli individui e dei gruppi a quelle più mediate
e distaccate relativamente a tali localizzazioni primarie. La
ridefinizione dei compiti dello Stato, delle Regioni, degli Enti
territoriali e dei singoli istituti scolastici autonomi in ordine
all'identità dell'istruzione e della formazione, all'individuazione
delle funzioni generali del sistema scolastico e di quelle locali
e dei modi per realizzarle chiama in causa, attraverso la messa
in mora della pratica classica del "programma ministeriale" e
l'identificazione di standard ai quali i diversi curricoli e piani
dovranno adeguarsi, un'idea di "sapere" più ampia e complessa
di quella sancita dall'organizzazione dei contenuti dell'insegnamento
per "discipline". Non è improprio cogliere, dentro questo processo,
anche la messa in crisi del monopolio della "forma libro" (e quindi
delle pratiche ad essa collegate). Pur non militando nel partito
di quanti sostengono che il computer sia di per sé una soluzione
dei problemi della scuola, mi risulterebbe difficile negare che
la sua costruttiva accettazione, accompagnata ad un ridimensionamento
delle logiche manualistiche, possa fungere da volano e sostegno
ad un processo di democratizzazione delle pratiche della produzione/riproduzione
del sapere.
La
ridefinizione della base culturale della scuola.
Il passaggio, avvenuto nel giro di pochi anni, da una scuola secondaria
a base sociale ristretta ad una scuola secondaria a base sociale
ampia, e la conseguente progressiva eliminazione delle dighe di
contenimento e dei meccanismi di reiezione che assicuravano l'omogeneità
dell'utenza di riferimento, ha di fatto mutato la ragione sociale
dell'intero sistema scolastico, senza però che venisse mutato
il suo impianto ordinamentale e culturale. E' giunto il momento
di far fronte ad un tale impegno. Molto probabilmente l'impianto
tripartito classico (un ciclo iniziale di base, uno intermedio
di smistamento, uno conclusivo nelle diverse filiere) non ha più
senso oggi che tutta o quasi la popolazione in età frequenta due
terzi del curricolo scolastico. Ne ha invece la riduzione dei
termini dell'impianto da tre a due, e ancor più ne avrebbe la
ridefinizione in termini complessivi e unitari del portato culturale
e didattico del primo dei due cicli. Su questo terreno la promozione
di spazi educativi plurimediali può rappresentare una
risorsa preziosa.
La creazione di un indirizzo
organico per la formazione. Un sistema scolastico più adeguato
alle trasformazioni della società di quanto non sia quello corrente
deve concedere ben altro risalto e riconoscimento all'esigenza
di far interagire cultura e lavoro, sia rendendo la cultura produttiva
e l'esperienza di produzione una delle componenti del curricolo
scolastico in senso stretto sia dando realizzazione materiale
e profilo culturale e didattico ad un serio indirizzo di preparazione
alle professioni, che ponga il nostro paese alla pari con altri
europei. Anche qui l'accoglimento dell'idea e della conseguente
pratica di una pluralità dei media e delle loro matrici di costruzione/diffusione
dei saperi (professionali come accademici) può svolgere un efficace
ruolo di propulsione.