Tre paradigmi di scrittura |
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Italiano scrittoTre paradigmi di scritturadi Raffaele Simone Siamo nel corso di una transizione importante, questo è uno dei temi a cui si riferisce essenzialmente il testo La terza fase (Raffaele Simone, La terza fase , Bari, Laterza, 2000); una delle dimensioni fondamentali di questa transizione concerne il meccanismo della scrittura (lo scrivere, le pratiche di scrittura). Per cercare di chiarirmi le idee e augurandomi di chiarirle anche a chi mi ascolta, ho elaborato una semplice tipologia di paradigmi di scrittura che mi pare renda conto, per lo meno in una prospettiva molto generale, di ciò che sta accadendo, e forse ci permette anche di immaginare che cosa potrà accadere nel campo della scrittura. Ho intitolato così i tre paradigmi, anche per capirci un po' per formule: il primo il paradigma di Platone , il secondo il paradigma digitale , il terzo il paradigma multimediale . Spiegherò via via che cosa significhino queste definizioni. Il paradigma platonico Platone, nella seconda parte del Fedro , racconta un mito secondo cui il dio egizio Teuth inventò i numeri, il calcolo, la geometria, l'astronomia, il gioco del tavoliere e dei dadi, e infine anche la scrittura: è interessante vedere la mescolanza delle cose che questo dio inventa; sono cose che stanno fra la scienza, l'intrattenimento, la pratica. Poi Teuth va da Thamus, re d'Egitto, e gli dice che queste cose andavano insegnate al suo popolo: in particolare secondo il dio Teuth la scrittura sarebbe stata di grande vantaggio per il popolo, perché sarebbe stata letteralmente "il farmaco della memoria e della sapienza": la scrittura, dice il dio, "è in grado di alleggerire la memoria degli uomini che fino a quel momento hanno dovuto tenere a mente le conoscenze e le informazioni di cui avevano bisogno". Al re Thamus questo ragionamento non piace particolarmente. Dice Thamus: "in realtà la scrittura non sarà il farmaco della memoria ma servirà soltanto a favorire l'oblio e la presunzione delle persone che la imparano, perché della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza e non la verità; divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, essi crederanno di essere conoscitori di molte cose mentre, come accade per lo più, in realtà non le sapranno". La scrittura cioè ci permette di sapere cose che non abbiamo elaborato noi stessi ma che prendiamo da altri senza insegnamento. In secondo luogo gli uomini "fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se stessi"; cioè la scrittura sposta la conoscenza dal dentro della persona che la elabora al fuori; la rende in altre parole superficiale e crea una falsa percezione di conoscenza. Il testo scritto ha un'altra debolezza importante per noi per definire il paradigma che sto chiamando platonico: il testo una volta scritto non può aiutare il lettore nell'opera di comprensione, perché si stacca dall'autore e vive per proprio conto; il parlato all'inverso, siccome è attaccato alla persona che lo emette, rimane indissolubilmente legato alla persona che lo emette e che lo può spiegare. Quindi, ed è la terza citazione, "una volta che sia scritto, un discorso rotola dappertutto nelle mani di coloro che se ne intendono come di coloro a cui non ne importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no; e se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, cioè del suo autore, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo". Insomma Platone sottolinea in questa analisi che per effetto della scrittura il discorso parlato cambia natura totalmente, non solo perché si stacca dal suo autore per passare nelle mani degli altri, ma anche per un altro motivo che a me pare di straordinaria sottigliezza: ed è che l'autore consegna al lettore un testo che non è più plasmabile dall'autore stesso, è un testo che ha raggiunto uno stato specifico a cui Platone dà per la prima volta un nome definito: bebaiotes , la stabilità, l'immutabilità. Il testo scritto è un testo fissato, è un testo che per qualche motivo ha cambiato natura e non può essere più trasformato e modificato. Lo stabilizzarsi del corpo del testo non piace a Platone, gli sembra una diminuzione delle risorse del testo, gli sembra un pericolo; il testo stabilizzandosi non è più vivo alla stessa maniera che capita alle creature della pittura: "le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma, se domandi loro qualcosa, restano zitte, e così fanno anche i discorsi scritti. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma, se volendo capir bene domandi loro che cos'è che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa". Il discorso scritto non parla, non può commentare se stesso perché stabilizzandosi si è pietrificato. Naturalmente non siamo obbligati ad adottare le analisi di Platone; l'ermeneutica e una varietà di discipline contemporanee hanno dimostrato che in effetti fra il lettore e il testo scritto si stabilisce un rapporto di straordinaria complessità dinamica. Ma Platone insisteva sui rischi dello stabilizzarsi, sul fatto che il parlato nasce dal di dentro mentre lo scritto nasce dal di fuori, e quindi il parlato risponde a un bisogno di comunicazione immediato e profondo mentre invece lo scritto, come dice Platone, "è solo acqua nera poggiata su un supporto". Ora, a parte le valutazioni che Platone fa, mi pare che in queste analisi ci siano dei temi di straordinaria acutezza e profondità che servono anche a noi per cogliere talune delle specificità di un modello di scrittura al quale, per secoli e fino al giorno d'oggi, ci siamo più o meno inconsapevolmente adeguati. Il testo scritto è illimitatamente manipolabile finché non è stabilizzato. Platone parla a un certo momento del fatto che i testi scritti si possono tagliare e incollare adoperando quasi la stessa metafora che si adopera oggi nel linguaggio dei calcolatori; però a un certo punto si stabilizza, acquista la proprietà che ho menzionato prima chiamarsi bebaiotes , e stabilizzandosi si stacca dal suo autore e può rotolare dappertutto, può andare ovunque si voglia e ovunque capiti, anche all'insaputa dell'autore stesso. Questo è all'incirca il modello platonico di scrittura; però, per andare a fondo in questa analisi di paradigmi, bisogna mettere in evidenza il fatto che nei termini scrittura e scrivere si raccolgono una varietà di significati molto diversi che non sempre siamo in grado di distinguere con l'accortezza che sarebbe necessaria. Quando noi diciamo scrivo, scrivere, sta scrivendo, sto scrivendo, si scrive alludiamo, per esempio, a una persona che sta tracciando segni su un supporto fisico; questa persona può essere per esempio colui che verga il testo con strumenti di scrittura che permettano di riconoscere il ductus , come dicono i filologi, cioè di riconoscere l'andamento della mano (per esempio il calamo o la penna dove c'è una mano che guida) e il prodotto di questa operazione di scrittura è un segno grafico che può essere tanto di testi propri quanto di testi altrui. Quindi chi scrive in questa accezione, è soltanto il vergatore di un segno grafico. Può essere anche come, in un altro caso, chi comanda l'impressione del testo, per esempio digitandolo su strumenti di scrittura che, a differenza della penna o del calamo, non permettono di riconoscere ductus e non danno come prodotto il tracciato della mano che si muove sul supporto. Pensate a una tastiera, tanto di macchina da scrivere quanto di calcolatore, dove dal tocco non possiamo riconoscere chi è l'autore della scrittura. Questa è già una persona che scrive; però c'è dell'altro nel concetto di scrittura: scrive anche chi concepisce ed elabora il testo che viene scritto anche se questa persona non compie le operazioni nel primo significato della parola scrivere , questa persona è un autore, uno scrittore, un redattore, ma non è detto che l'autore di un testo scritto sia anche la persona che traccia con la mano i segni grafici o digita: posso scrivere un romanzo senza toccare tastiera o penna, posso ad esempio dettarlo a qualcun altro. Questa terza possibilità, quella del dettatore, non ha propriamente un nome: io posso dettare un testo altrui e in quel momento posso dire che sto scrivendo qualche cosa, che qualcuno sta scrivendo sotto la mia dettatura. Scrive anche chi sottoscrive il testo che viene scritto senza rientrare in nessuna delle categorie precedenti. Quando firmiamo un contratto sottoscriviamo un testo che non abbiamo scritto in nessuno dei sensi precedenti, ma che appare come se lo avessimo scritto; quel testo è nostro, perché quel testo descrive le nostre volizioni. Non abbiamo scritto il testo in nessuno dei sensi precedenti ma, sottoscrivendolo, è come se lo avessimo scritto. È un caso abbastanza paradossale che apre una tematica di grande interesse filosofico e giuridico, la teoria della sottoscrizione (la teoria della firma), che nel momento in cui viene apposta ci rende autori di ciò che le sta immediatamente sopra. Chi sottoscrive il testo scrive segni grafici personali, la firma e la sottoscrizione devono avere, e hanno per lo più, la caratteristica peculiare di essere autochiri : è un termine che ho inventato ma che rende credo abbastanza bene il valore specifico di questa circostanza. Non posso, come talvolta ci invitano a fare negli uffici postali, firmare con il nome di mia moglie; è un'abitudine tipica della burocrazia italiana, che però contravviene a un principio giuridico fondamentale: il sottoscrittore di un documento è la persona che si assume le responsabilità che derivano da quel documento e quindi il segno dev'essere autochiro , dev'essere tracciato con la sua mano stessa; altrimenti quel tipo di funzione scrittoria non esiste. Infine scrive chi ricopia o riporta il testo che viene scritto: per esempio il tipografo, il digitatore, il compositore scrivono un testo del quale può non interessare loro assolutamente niente, di cui magari non capiscono assolutamente nulla, però anche in quel caso stanno scrivendo. Dunque nello scrivere ci sono una varietà di significati e di figure che talvolta è bene distinguere. Quando parliamo di scrittura normalmente ci collochiamo in un punto intermedio fra l'operazione di scrivere materialmente e quella di concepire il testo (anche se materialmente non ne è l'esecutore): quando noi diciamo "sto scrivendo una tesi di laurea, sto scrivendo una tesi di dottorato, un lavoro da pubblicare", alludiamo normalmente alla concezione del testo: ne siamo autori e per lo più stiamo anche realizzando fisicamente il testo del quale siamo autori. In questa doppia posizione si possono distinguere due dimensioni nelle quali Platone aveva già visto molto chiaramente, cioè la dimensione del processo dello scrivere e la dimensione del prodotto dello scrivere. Il processo è l'insieme delle fasi attraverso cui passiamo dal non aver scritto nulla all'aver scritto qualche cosa, è un processo che richiede del tempo e che ha una serie di fasi che possono essere descritte, e approda a una fase finale che è il prodotto dello scrivere. Quando noi diciamo "ho finito, questo è il testo finito ", e lo consegniamo a qualcuno che lo sta aspettando per qualche motivo, in realtà stiamo dichiarando che la fase del processo è compiuta e che il testo è approdato alla sua forma di prodotto, alla sua forma finale. Era quella forma di prodotto che stava a cuore a Platone, ed era quella forma di prodotto l'oggetto nel quale Platone vedeva la proprietà della bebaiotes , cioè della stabilità testuale che costituisce un punto di non ritorno, di non mutevolezza del testo scritto. Ora immaginando il fondale così com'è descritto da Platone: possiamo vedere in questo paradigma tre o quattro proprietà che a me paiono di notevole interesse per definire il primo dei paradigmi che sto citando. Il primo è il tratto della pubblicità: Platone aveva visto con grande chiarezza che il testo scritto si stacca dal suo autore e rotola dappertutto, anche se è soltanto una lettera privata, può circolare, ha lo statuto fisico, ontologico, si potrebbe dire parlando un po' con il gergo filosofico, che le permette di circolare indipendentemente dal suo autore. Si rivolge così a destinatari che possono non essere presenti nello spazio e nel tempo: quindi il testo scritto non è ancorato al momento in cui viene prodotto, è un oggetto pantopico e pancronico; ciò che riferisce non è legato a un'epoca o a un sito preciso; può, come diceva Platone, rotolare dappertutto. In secondo luogo, una volta distinto tra processo e prodotto, si nota che la scrittura si svolge in un ambiente operativo totalmente diverso da quello in cui si svolge il parlato. Platone aveva intuito questo fatto sottolineando la differenza tra i discorsi che nascono dal di dentro (quelli parlati) e i discorsi che nascono dal di fuori (quelli scritti); il parlato per esempio ha una proprietà che la teoria linguistica ha battezzato evanescenza ( fading ): nel momento stesso in cui viene prodotto si dissolve, non c'è più, salvo che noi non lo registriamo; ma non registriamo tutto quello che viene detto o che diciamo al mondo. Per questo motivo il parlato non può essere annullato una volta che l'abbiamo prodotto mentre invece lo scritto sì: possiamo modificare illimitatamente la scrittura mentre quando abbiamo detto una cosa, quella cosa non può essere più modificata. Un'altra proprietà rilevante dei testi scritti rispetto a quelli parlati è il fatto che i testi scritti tendono a ricadere entro una stretta gamma di tipi testuali, tendono cioè a tipizzarsi. Questo fatto ricorre in tutte le culture ed è uno degli aspetti più singolari nella storia della scrittura talmente fondamentale che l'utente, chiunque esso sia, anche un bambino, se ne accorge immediatamente in modo assai precoce. Per esempio se noi ci mettiamo a raccontare una favola a un bambino, lui capisce che la favola è composta di un certo numero di meccanismi che già conosce, e si aspetta che noi implementiamo questi meccanismi, non accetta che trasformiamo il meccanismo cammin facendo. I testi scritti sono ancora più tipizzati dei testi parlati, e questa è una percezione che ciascuno di noi ha nel momento in cui si mette a scrivere: la prima cosa che dobbiamo domandarci è in che tipo siamo, poniamo nel tipo lettera, e in quel caso dobbiamo scegliere tra lettera soggettiva e non soggettiva, nel tipo rapporto impersonale, nel qual caso il pronome io deve essere bandito, nel tipo narrazione, nel tipo x o y o z; cioè abbiamo una biblioteca, una libreria, come oggi si tende a dire di tipi nella mente che abbiamo acquisito attraverso la nostra tradizione culturale ed educativa, e ciascuno di questi tipi ha delle regole che costituiscono la sua grammatica. La tipizzazione della scrittura è un'esperienza che facciamo immediatamente quando ci accorgiamo che non possiamo scrivere una tesi di laurea come se fosse una lettera a un professore e viceversa quando ci accorgiamo che non possiamo scrivere una lettera a un amico o a un'amica magari affettuoso o affettuosa come se fosse una tesi di laurea: ci sono delle restrizioni di tipo che non ci permettono di passare dall'uno all'altro senza un buon motivo. Inoltre il testo scritto alla maniera di Platone ha due caratteristiche fondamentali ulteriori che si riferiscono al suo rapporto con l'autore e con il luogo in cui è emesso. Il testo scritto è cioè localizzato, ed è dotato di una proprietà che in mancanza di termini migliori ho provato a battezzare con un altro grecismo inventato, dicendo che si tratta di un testo dotato di despotía . Localizzato vuol dire che il testo scritto è prodotto in un sito determinato e spesso riconoscibile, quello che nelle lettere e nella maggior parte dei documenti viene segnalato con l'indicazione della città; questo dato in alcuni tipi di scrittura può essere fondamentale; per esempio in una lettera o in contratto una varietà di tipi di scrittura richiede che si localizzi la scrittura che stiamo elaborando. È abbastanza chiaro che i testi parlati sono ben più localizzati ancora perché non possono aver luogo se non in quel momento e in quel luogo; però anche i testi scritti possono essere localizzati; inoltre, che un testo scritto sia dotato di despotía significa che normalmente un testo scritto ha un autore o più autori individuale o collettivi che garantiscono alcune condizioni fondamentali che possono essere essenziali specialmente in alcuni ambiti come per esempio nel campo del diritto d'autore e della creazione letteraria o della scrittura giuridica. Intanto garantiscono che la scrittura sia autentica, cioè che la persona che ha prodotto quel testo sia io e non un altro; se si riflette, questo è il concetto che sta alla base del concetto tutto occidentale di autore. Quando leggiamo un'opera letteraria abbiamo bisogno di sapere chi è il suo autore, e saremmo delusi se scoprissimo a un certo momento che un'opera che abbiamo letto come prodotto da un autore che ci è per qualche motivo caro risalisse invece a un altro autore o a nessun autore definibile. E ci sono degli oneri perché l'autore di quell'opera è responsabile tanto dei vantaggi che possono nascerne, per esempio i diritti d'autore, quanto anche per gli svantaggi: se c'è una querela che si fa contro un testo, la si fa contro l'autore di quel testo che quindi deve essere riconoscibile. Despotía significa che la scrittura è autentica, è di quella persona o di quelle persone, ha un autore; in secondo luogo garantisce che il testo scritto sia chiuso, cioè completo e definitivo e che abbia raggiunto lo stato che Platone chiamava di stabilità, di bebaiotes : se io compro un romanzo mi aspetto che sia compiuto, non mi aspetto che il giorno dopo esca una seconda versione del romanzo in cui l'autore dica: "scusatemi le prime 13 pagine erano sbagliate, sostituitele con le prime 13 che trovate qui", ci aspettiamo che il testo abbia superato la fase della processualità e abbia raggiunto la fase del prodotto finale. Infine significa che le responsabilità relative a quel che si è scritto ricadano su una persona o alcune persone definite e riconoscibili. La normativa europea sul diritto d'autore definisce queste tematiche che nell'antichità erano assai meno chiare ma il concetto d'autore è per noi oggi fondamentale. È facile vedere che tutte queste conseguenze discendono dalla proprietà che Platone definisce stabilità: la scrittura è sì infinitamente correggibile ma questa correggibilità si applica nella fase del processo non nella fase del prodotto. Quando il testo diventa prodotto, quando è chiuso, si stabilizza e assume una forma che consideriamo invariabile, o come dicono più precisamente i filologi ne varietur . È facile vedere anche che la stampa ha enfatizzato tutte queste proprietà, cioè ha reso ancora più stabile questo stabile, dandogli anche una serie di contrassegni grafici importanti sui quali spesso si insiste anche oggi perché definiscono la scrittura; per esempio l'impaginazione, il bordo della pagina, la chiusura del testo con un titolo all'inizio e con alcuni elementi di paratesto alla fine; l'idea stessa di pagina, che è stata elaborata nel corso del tempo ed è tutt'altro che elementare, serve a darci l'idea del testo come di qualcosa di bloccato, chiuso, protetto da un bordo che soltanto in talune circostanze può essere violato, come un oggetto che ha raggiunto una sua completezza e una sua chiusura e su cui non si può più mettere mano senza disarticolarlo. Il paradigma digitale Cosa accade nel caso della scrittura digitale emblematicamente rappresentabile dalla scrittura con il calcolatore? Il testo digitale enfatizza a dismisura la fase processuale, cioè la fase di creazione del testo. Nello scrivere, chiunque adoperi risorse digitali sa, o capisce immediatamente, che può compiere una quantità di operazioni che prima erano o difficili o addirittura impossibili: può redigere, può scalettare, può modificare, tagliare, incollare, spostare, sintetizzare, spostare a grande distanza, montare un testo dentro l'altro e così via. Tutte queste operazioni sul display non lasciano alcuna traccia di sé; non notiamo nessuna ferita, nessuna cicatrice, nessuna cucitura delle operazioni che abbiamo compiuto e che fino a una attimo prima della scrittura digitale avrebbero lasciato tracce fisiche ben visibili: correzioni, montaggi, pezzetti aggiunti, cancellazioni eccetera. Sul display digitale il testo si riassesta da sé ad ogni modifica, cancellando (la maggior parte dei programmi lo fa) i passaggi che si sono attraversati per arrivare al prodotto finale. In questo modo l'idea stessa di un prodotto veramente finale, che era il concetto fondamentale del paradigma platonico, di un prodotto chiuso, ne varietur , di una scrittura oltre la quale non si può andare, si indebolisce fino a scomparire completamente. Il testo digitale non è mai ne varietur , come sa chiunque di noi scriva con il calcolatore; tutti sappiamo che possiamo rimettere sempre mano a quel testo e richiuderlo indefinitamente; ciò crea anche delle sindromi e delle sofferenze ben note a tutti noi ( in particolare coloro che hanno a che fare con laureandi o dottorandi sanno che molti giovani soffrono del fatto di non essere costretti mai da un fatto interno a chiudere il testo, perché quel testo può essere sempre ritoccato). Ciò dipende dal fatto che, una volta chiuso il testo, lo si può riaprire indefinitamente creando così un effetto speciale non da poco, se si considera che tocca uno dei fondamenti della riflessione platonica sulla scrittura. Il testo digitale infatti, essendo infinitamente riapribile, è un testo permanentemente e intrinsecamente instabile: non possiamo mai dire che si sia stabilizzato sotto forma di prodotto definitivo, la bebaiotes di cui parlava Platone, e su cui ho tanto insistito, è improvvisamente e immediatamente dissolta. In secondo luogo il testo digitale è immateriale non ha bisogno di un supporto di carta, non ha bisogno di acqua nera, come diceva il vecchio Platone, non fa volume, né massa, non si tocca, non si accumula, non ha neppure peso né odore: si vede su uno schermo, ma in realtà quel che vediamo non sono segni grafici ma solamente pixel elettronici; quindi un corrispondente analogico, improprio, della scrittura. Per conseguenza il testo digitale non porta traccia della mano del suo autore, uno dei concetti fondamentali dell'idea di scrivere, come ho cercato di mostrare, non mostra ductus ; perché non è il suo mestiere; non porta traccia della consistenza o del peso della mano che scrive; non porta traccia di colore d'inchiostro, di nulla di simile; tutti questi concetti sono inapplicabili; persino la pagina che vediamo sul display sembra una pagina ma in realtà non lo è: è una rappresentazione iconica di una pagina, perché in realtà si tratta di una superficie di cristallo. Questa proprietà del testo digitale è connessa al fatto che, a differenza del testo scritto rispondente al paradigma platonico, il testo digitale è un testo delocalizzato e adespota, cioè privo delle due fondamentali proprietà che ho illustrato prima, della localizzazione e della despotia . Un messaggio di posta elettronica è l'esempio più vistoso di testo delocalizzato: come sapete il messaggio e-mail può essere spedito e ricevuto in ogni parte del mondo senza portare nessuna traccia del sito da cui sta proveniendo: è quindi totalmente delocalizzato, possiamo rispedirlo, farlo circolare, forwardarlo illimitatamente ad altre persone senza che nessuno sappia dove siamo nel momento in cui l'abbiamo o scritto o forwardato. Quindi non esiste, per lo meno per l'utente comune, il modo di capire da dove questo messaggio ci stia arrivando. Analogamente questo messaggio è totalmente adespota: l'indirizzo elettronico del mittente può essere segnalato, ma in realtà nessuno può garantire che quel mittente sia esattamente la persona che ha scritto il testo e quindi il concetto stesso di responsabilità dell'autore, rispetto ai testi generati nel paradigma platonico, è totalmente cambiato. La posta elettronica, e in generale il testo digitale, esalta un'altra proprietà tipica della testualità, e cioè l'illimitata diffondibilità: il testo digitale una volta scritto può essere spedito immaterialmente cioè senza passaggio di massa e di materia, ma di piccolissimi, irrilevanti quantità di energia, a un numero illimitato di destinatari, ognuno dei quali può riaprire quel testo, integrarlo, modificarlo, elaborarlo, e farlo circolare così modificato presso un numero illimitato di altri destinatari. L'esempio più parlante di questo fenomeno, di questa illimitata espandibilità adespota e delocalizzata, è costituito dai chat groups che sono una simulazione di conversazione a più voci dove ciascuno aggiunge qualcosa di suo ma in cui non sappiamo se questo qualcosa risale effettivamente alla persona che sostiene o dichiara o esibisce di essere l'autore di quella porzione di testo oppure per esempio a un qualsiasi impostore. Questo problema è delicato; non tanto nel caso dei gruppi di conversazione quanto, per esempio, nelle transazioni per via telematica, nei contratti telematicamente generati; e sarà delicato in una pratica testuale molto particolare che è la denuncia dei redditi telematica, che si sta diffondendo anche in Italia di recente. Ci sono dei segnali che dicono "sì sono io" ma in realtà questi segnali sono a loro volta adespoti: la riferibilità di un testo al suo autore è con questo nuovo paradigma totalmente perduta. Il testo parlato ha una forte contestualità, è radicato, embricato nel contesto in cui viene prodotto, mentre invece il testo scritto è dotato di media contestualità e il testo digitale di nessuna contestualità; cioè in un testo elettronico, soprattutto di posta elettronica o assimilabile a quello, dobbiamo sempre costruire il contesto nel quale stiamo operando, e descriverlo al nostro interlocutore o al nostro destinatario. Il testo parlato ha soltanto una fase processuale: salvo casi molto particolari, è difficile distinguere la fase processuale da quella dal prodotto, perché nel momento in cui parliamo stiamo processando il nostro testo. Nel testo scritto tradizionale le due fasi sono nettamente distinte, come Platone aveva chiaramente visto; la fase processuale è aperta, lunga e indefinitamente prolungabile, ma quando il testo approda alla chiusura non si può più toccare; la fase del prodotto è una fase chiusa. Il testo digitale ha invece una sola fase processuale illimitatamente aperta, non potendo per ragioni di principio essere mai dichiarato chiuso. Si tratta di un testo nel quale chi sta scrivendo, o anche persone sopraggiunte a scrivere, possono illimitatamente rimettere mano producendo delle modifiche. Per conseguenza il testo parlato non è interpolabile: nessuno può inserirsi nel mio discorso e dire delle cose spacciandole come dette da me, né io posso fare lo stesso con voi; il testo scritto è interpolabile solo nella fase processuale, cioè soltanto durante la lavorazione io posso inserirmi nel testo scritto e modificarlo; il testo digitale invece è interpolabile in ogni momento. Il testo orale non è archiviabile se non con supporti esterni: non possiamo conservarlo, e comunque per millenni non abbiamo potuto conservarlo in nessuna forma; il testo scritto è archiviabile in forma materiale; il testo digitale in forma che io chiamo qui, un po' esagerando, immateriale, ma in realtà un dischetto, un cd rom o altri archivi elettronici di maggiori dimensioni hanno una materialità tutta speciale, perché conservano microscopiche quantità di informazione magnetica e quindi non fanno massa. Il testo parlato ha un supporto immateriale: non abbiamo bisogno di attrezzi per parlare; il testo scritto ha un supporto materiale: possiamo immagazzinarlo sotto forma, per esempio, di carta; il testo digitale ha un supporto immateriale: noi possiamo scriverlo, ma non siamo tenuti a depositarlo sotto forma di carta o altra forma fisicamente riconoscibile. Il testo parlato ha una limitata diffondibilità; il testo scritto, come Platone aveva visto, ha una larga diffondibilità; il testo digitale una illimitata diffondibilità. Il testo parlato è fortemente localizzato, e poi ,via via, relativamente localizzato (testo scritto), non localizzato (testo digitale). Il testo parlato è autografo (bisognerebbe dire autofono): non può essere parlato se non dalla persona che lo sta parlando; il testo scritto è potenzialmente autografo; in taluni casi è o deve essere autochiro , cioè deve essere scritto proprio da quella mano e non da altra mano: l' autochiria è dunque la sua proprietà più marcata e determinante; il testo digitale non è autografo in nessun senso: nessuno può dire "riconosco il font del mio vecchio amico", mentre posso dire "riconosco la grafia di un mio vecchio amico". Quindi il testo digitale non è autografo in nessun senso, e fino a questo momento sembra non poterlo essere per ragioni di principio. Come vedete, i cambiamenti non sono da poco, e per il momento mi attengo soltanto ai cambiamenti di carattere superficiale, perché ci sono cambiamenti di carattere profondo attinenti per esempio ai meccanismi mentali, cognitivi, al modo di adoperare l'informazione, della conoscenza di cui ciascuna di queste testualità si serve ma di cui non dirò assolutamente nulla. Il paradigma multimediale Da qualche anno si impone sempre più chiaramente una terza forma di scrittura, che chiamo multimediale, e che, sfruttando ed enfatizzando alcune delle proprietà del testo digitale, sta producendo dei fenomeni che non stanno né nella prima né nella seconda delle categorie che ho illustrato fino a questo momento. Piuttosto che commentarlo voglio dare due esempi di testo multimediale: uno è la scrittura delle pagine internet, che sono una tipologia importante di scrittura: al tempo stesso testo scritto, immagine, suono, link, movimento; cioè una commistione di media in cui la scrittura offre spesso l'armatura complessiva dell'architettura ma non è assolutamente l'unico dei canali di cui ci si serve. Non sopporteremmo una pagina internet fatta solo di testo scritto; anzi consideriamo modesti i siti dove si apre e c'è una paginata di testo scritto vogliamo qualche cosa di più, in cui la scrittura è soltanto una componente. Quindi la scrittura non è più la modalità privilegiata del testo scritto, ma diventa una modalità insieme ad altre; è multimediale e al tempo stesso cambiano taluni presupposti della scrittura; è una scrittura destrutturata: in internet non possiamo leggere un testo che sia più lungo di 10-15 righe; una delle prime cose che deve imparare il web writer è appunto l'abilità di scrivere in 4 righe un pacchetto di notizie dal quale poi, cliccando in maniera appropriata, si possa passare a un altro testo, che è di 12 righe, dove il discorso finisce. Un livello di 36 righe, o peggio ancora di 50 pagine, sarebbe in quel caso insopportabile. Il testo scritto deve associarsi a immagini; l'immagine deve avere una certa interrelazione con questo testo; i modelli di scrittura quindi si vanno integrando con altri canali, e al tempo stesso destrutturando nel loro intrinseco. Ci sono però altre forme più semplici, e se volete tecnologicamente più primitive e secondo me, non particolarmente apprezzabili, di questa scrittura multimediale; sono da un lato le scritte sui muri, un fenomeno che considero detestabile ma che senza alcun dubbio rivela il trasformarsi del concetto generale di scrittura che anche persone poco alfabete stanno elaborando nella loro mente: la convivenza di scrittura, immagine, interazione con altri media (per esempio il mondo musicale, giovanile, il mondo politico), in cui la scrittura può essere un elemento di inquadratura di questa complessa organizzazione, ma non è più assolutamente la pista fondamentale attraverso cui il messaggio passa. In un testo interessante, curato da Paola Desideri e altri, che si intitola I segni sui muri , ci sono fotografie e discussioni piuttosto notevoli: per esempio sul fatto che anche lo zainetto dei bambini e degli adolescenti sia diventato un veicolo multimediale di scrittura, immagini, rappresentazioni; non sono particolarmente versato, non avendo più figli piccoli, ma rimango meravigliato dalle argomentazioni che questo libro contiene, perché si vede che anche un preadolesecente, come un tempo si diceva, elabora una propria idea di multimedialità per cui lo zainetto non è un contenitore ma è un portatore di messaggi, e questi messaggi sono in parte scritti, in parte disegnati, in parte richiamano il contenuto dello zainetto; c'è insomma un'interazione di codici straordinariamente complessa che mi lascia immaginare che la scrittura tenda, a diversi livelli (da internet alla scrittura sui muri e alla scrittura infantile sugli zainetti) naturalmente verso una multimedialità di qualunque forma, talvolta povera ed elementare, persino ripugnante, come considero la scrittura sui muri, ma comunque rivelatrice di una necessità di associare il testo scritto a qualche altra cosa. Anche qui sarebbe facile trovare delle analogie nella storia; quindi probabilmente siamo soltanto innanzi a uno dei tanti pendoli della cultura. Ma in questo caso il rintocco del pendolo è più imponente e, secondo me, anche più inquietante perché il motore di questo pendolo non è più soltanto l'evoluzione della penna o della tecnica di scrittura, ma è l'evoluzione della telematica, dell'informatica, entità cioè enormemente più potenti e più rilevanti. Concludo dicendo che, qualunque operazione di scrittura facciamo, ci collochiamo inevitabilmente in uno di questi modelli; secondo me può essere utile riflettere un po' su questi paradigmi per vedere in quale siamo, in quale potrebbe essere più interessante spostarci, a quali orizzonti o traguardi ulteriori si possa eventualmente tendere nello sviluppo di una tematica, quella della scrittura, che sembrava sistemata per sempre e che invece rivela ogni momento straordinarie possibilità di innovazione. (Conferenza tenuta a Venezia il 5 giugno 2000. Il testo è stato lievemente ritoccato per la lettura). Questa pagina è stata pubblicata nel giugno 2000 . Dal sito: http://www.italianoscritto.com/interventi/testi/simone.htm
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