Perché studiare la Pedagogia oggi |
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Perché studiare la Pedagogia oggiFranco Blezza
Conferenza tenuta presso l'Università di Treviso nell'ambito delle attività della Società Dante Alighieri, 25 ottobre 2005 ------------------------------------------------------ Una necessità odierna Il tema di questa nostra conversazione ha la forma un'affermazione di principio, Essa riguarda la necessità di Pedagogia che si avverte oggi: la necessità di una competenza pedagogica nelle sedi più diverse, e presso i soggetti più diversi, che non si avvertiva alcuni decenni or sono. Una disciplina dall'etimo antico Dobbiamo scontare, in apertura, quelle riserve che potrebbero rimandare a considerazioni superficiali e non pienamente provvedute a proposito dell'etimo del termine "Pedagogia" e derivati. La riflessione su tutto ciò che è materia educativa è uno dei non molti campi di studio che non si denominano con un termine caratterizzato dal suffisso "-logia", pur essendo indubbiamente anche un "logos". Anzi il suffisso "-agogia" è probabilmente una sorta di hapax legomenon, in questo termine e in alcuni termini strettamente correlati, cui accenneremo più avanti (Andragogia, Geragogia). L'educazione è proiezione nel futuro Non si dà educazione, secondo la visione attuale di questa altissima prerogativa umana, se non previsionalmente, promozionalmente, in proiezione nel futuro. Queste caratteristiche sono fondative ed irrinunciabili nel "fare pedagogia", a qualunque livello. L'educazione va pensata, prima ancora che essere attuata, con riferimento organico all'evoluzione culturale, cioè ad un divenire sistematico, senza fine né fini; in particolare, tenendo conto organicamente della necessità del soggetto di essere attrezzato a vivere attivamente e positivamente tale divenire, e non a subirlo. Che questo lo impegni in modo profondo, e in modo sostanzialmente nuovo che non per il passato, lo comprendiamo facilmente quanto immediatamente: e questo ci porta direttamente nel vivo della tematica della presente conversazione. Qui sta il passaggio logico e concettuale fondamentale per comprendere il senso di quanto cercheremo di esporre oggi in questa sede. Non è necessario dare un giudizio sul tempo attuale in confronto col tempo passato, nel quale era effettivamente possibile educare diversamente; quello che è necessario, imprescindibile, fondamentale è riconoscere questo dato di fatto storico. Ciascuno di noi, da un punto di vista strettamente personale e soggettivo, può benissimo ritenere che la realtà nella quale era effettivamente possibile educare trasmettendo e replicando modelli che l'educatore a sua volta aveva ricevuto dai suoi educatori quando era educando fosse una realtà preferibile rispetto quella attuale. Nessuno può impedire un'opinione del genere, che non ha neppure senso criticare con strumenti strettamente pedagogici. Ciò non toglie che nessuno sia esonerato dal prendere atto che una educazione di quel tipo oggi non gli è più effettivamente praticabile; andrebbe poi aggiunto che essa, fosse anche praticabile, non sarebbe ciò di cui hanno bisogno gli educandi; ma di questo parleremo fra breve. Questa impraticabilità può essere vista, per lo meno, sotto due fondamentali riguardi. Ciascuno dei due sarebbe di per sé sufficiente, ma apparirà chiaro quanto sia opportuno considerarli entrambi. D'altra parte, i ritmi evolutivi sono diventati frenetici per molti motivi, e tra questi assume una rilevanza particolare il moltiplicarsi delle fonti che distribuiscono l'informazione e che ne consentono lo scambio interpersonale. Certo, anche questo dato di fatto è suscettibile di giudizi vari, in particolare chiunque può pensare che ciò abbia anche degli aspetti altamente negativi. Ciò non toglie che ci si debba prima di tutto porre realisticamente di fronte a questo dato di fatto; e, prima ancora di chiederci che cosa ci sia in questo di giusto o di sbagliato, di migliore o di peggiore, di preferibile o di deprecabile, dovremmo porci il problema dell'impiego che di tutta questa ricca e variata diffusione dell'informazione poi possono fare gli educandi, e semmai spostare il giudizio su questo piano, quello degli usi che di tale enorme ricchezza possono essere fatti o non fatti. Questo non ci consente solo di capire perché l'educazione per omologazione a modelli rigidi e prefissati non funzioni più oggi, non possa funzionare, ma integra anche una deontologia positiva. È doveroso tener conto nell'educazione di questo moltiplicarsi frenetico delle fonti di informazione e della loro interazione, nonché di tutta la rielaborazione che si verifica nella comunicazione tra persone, per poter operare oggi un buon lavoro educativo nei confronti dei nostri soggetti educandi; non è neppure possibile ipotizzare un buon agire educativo che prescindesse da questa realtà, ricca e fin eccessiva, difficile da padroneggiarsi. Semmai diremmo che oggi all'interno del compito educativo vi sia tra i primissimi punti quello di educare a padroneggiare e a farci strumento di tutto ciò, a non esserne passivi oggetti a non diventare strumento di chi può avere in mano il grosso di queste informazioni. Questo, si capisce, ci porta in dimensioni completamente diverse da quelle che trenta o cinquant'anni fa potevamo dare pacificamente per acquisite e presupposte all'atto educativo. … e l'educazione esplicita per tutta la vita. Ma vi è almeno una altro riguardo sotto il quale comprendere che oggi educare per replicazione, trasmissione, omologazione a modelli rigidi prefissati, come pure avveniva in tempi non lontani, non è praticamente effettuabile per ragioni di principio. Questo ci rimanda ad un altro dato di fatto, quello secondo il quale oggi l'educazione esplicita dura molto di più di quanto non durasse, o non si ritenesse che potesse durare, in un passato non lontano. Anche in questo caso, tutto un discorso andrebbe fatto sull'evidenza secondo la quale l'educazione, in realtà, non termina mai, dura tutta la vita umana, sia pure in forme e secondo modalità differenti. Quando si diceva che verso i 15-16 anni, o poco più di là, l'educazione del figlio e del soggetto in età dello sviluppo era terminata, e che sugli esiti di questa educazione (quali che fossero stati) non erano più possibili ulteriori azioni, in realtà si compiva un'operazione consolatoria: l'educazione è una caratteristica intrinseca dell'uomo in quanto tale, in Pedagogia diremmo in quanto "persona" , e semmai ciò che va richiesto è come cambi l'educazione terminate le età dello sviluppo. L'infanzia e la fanciullezza, da un'educazione negata a un'educazione imposta. Fino ad alcuni decenni fa, quella che era educazione esplicita, chiamata da tutti per tale, si riteneva invece senz'altro che avesse una durata relativamente breve rispetto all'intero corso dell'esistenza umana. Si parlava di una dozzina d'anni, poco più, poco meno. Essa non cominciava a zero anni, e nemmeno a tre; secondo alcuni, non iniziava neppure a cinque o sei anni bensì, gradualmente, dopo: anzi, una sorta di "parola d'ordine" riguardava l'obbligo di lasciare che i bambini (cioè i soggetti della prima e della seconda infanzia) fossero fondamentalmente lasciati giocare, senza regole e con fondamentale indulgenza nei confronti della loro esuberanza e senza strumenti né per poter sfruttare le loro risorse né per potersi esprimere appieno come da loro desiderio. Qui si collocava anche una sorta di Pedagogia "scolastica - non scolastica", nel senso di dare ai bambini una scuola che non avesse le caratteristiche di una scuola vera e propria, seguendo quel paradigma che si è a lungo chiamato della "scuola materna": L'aggettivo "materna" serviva ad escludere il carattere pienamente scolastico di un'istituzione , nella quale era proibito insegnare a leggere (nonché a scrivere), impiegare materiale educativo e didattico strutturato, parlare di maestri (al maschile-neutro) anziché di "educatrici" (senz'altro al femminile), di programmi didattici anziché di "orientamenti delle attività educative", di programmazione, nonché di regole, di strumenti razionali (anche nel disegnare, nel colorare, nel cantare,…), e così via. Operazioni di questo genere erano rinviate alla fascia d'età immediatamente successiva, la quale si chiama, propriamente, "fanciullezza". Una versione particolare del "mito del buon selvaggio" era pienamente applicata alla prima e alla seconda infanzia, anche con una considerevole gratificazione per l'educatore - non maestro, il quale poteva godere appieno di una interazione non normata e non disciplinata. Solo nella fanciullezza il soggetto veniva bruscamente richiamato ai suoi doveri di educando, e l'educatore a sua volta virava potentemente la sua azione in senso della trasmissione ed omologazione di modelli che lui per primo aveva ricevuto, e che si era impegnato a replicare. Solo a quel punto comparivano rigore, severità, norme, regole, esigenze, le richieste (o le pretese) di precisione, diligenza, accuratezza, ortografia, grammatica e via elencando, cercando di recuperare il più rapidamente possibile quanto in tal senso non era stato operato nelle due fasce d'età precedenti, e ubbidendo a principi e regole che l'educatore (ora chiamato "maestro") sentiva prima di tutto su se stesso, assieme al dovere di trasmetterli come stavano nell'educando. Solo a quel punto, insomma, comparivano quella disciplina e quella normatività senza delle quali non era possibile fare educazione come, del resto non è possibile neppure oggi, e non è stato e non sarà possibile mai. Ne conseguiva un'azione pesante e impositiva che, come osservato, doveva durare abbastanza poco: una decina o una dozzina d'anni all'incirca, più o meno in corrispondenza al resto dello sviluppo psicofisico. Solo questo limitato lasso di tempo era considerato il dominio della educazione esplicita, piena, e considerata e dichiarata per tale. L'educazione oltre le età dello sviluppo A sviluppo psico-fisico completatosi, semmai, si riteneva che sopravvenissero altri processi. Anche qui, dati di fatto imprescindibili suggeriscono di orientarsi verso un approccio meno rigido: l'aumento della scolarità, ed anche il suo proseguire sotto altre forme praticamente lungo tutta l'esistenza lavorativa (ed anche oltre); lo spostamento in avanti delle età medie del matrimonio, o comunque della sistemazione autonoma rispetto alla famiglia d'origine, e della genitorialità sia maschile che femminile; l'accesso differito nel mondo del lavoro, e un accesso che rimane comunque caratterizzato da flessibilità anche quando il lavoro abbia trovato un suo assetto più continuativo e non precario; e così via. Sono fenomeni ed aspetti della realtà attuale che tutti noi conosciamo bene; fra l'altro, non solo questi momenti di viraggio nella vita vanno ben oltre le età dello sviluppo, ma essi si spostano mediamente sempre più in avanti, nonché si moltiplicano. Se così è stato, oggi questa immagine non ha più alcun dato di realtà a suo sostegno. Al contrario, tutto ci porta a pensarla in maniera sostanzialmente differente. Da un lato, vanno messe nel conto tutta una serie di occasioni di educazione propriamente detta che si presenteranno nell'arco di questi decenni, comportando dei mutamenti sostanziali sia nel modo di lavorare che nel modo di essere nella società del lavoratore, del cittadino, del familiare, insomma della persona; dall'altro l'immagine della vecchiaia come sostanziale perdita non è neppure più realistica, al contrario si tende a valorizzare la cosiddetta terza età come sede di nuove opportunità e nuove occasioni di interesse sociale, e che possono essere colte pienamente come occasioni di educazione vera e propria. Educare oggi è molto più difficile, se pur non meno gravoso ed impegnativo, che per il passato Per ragioni di fondo come queste affermiamo qui che oggi è necessario studiare la Pedagogia per tutti noi, in quanto soggetti sociali e culturali, cittadini, padri e madri, genitori e figli, componenti di famiglia e uomini di cultura, docenti e discenti, lavoratori di ogni tipo. Detto che l'investimento di coppia comportava un dispendio comunque essenziale di risorse umane da parte di entrambi i contraenti, sia pure in campi e domini diversi per largo tratto, va anche detto che questo investimento nel campo educativo era pesante, elevatissimo, estremamente dispendioso. Il trasmettere e replicare modelli educativi considerati validi a priori negli educandi richiedeva un impegno notevole da parte degli educatori. La presenza forte della figura genitoriale, sia pure prima prevalentemente di quella femminile e poi gradualmente anche di quella maschile, per l'educando era qualche cosa di irrinunciabile, e che tutti noi ricordiamo come un fattore forte e chiaro: tanto, che eravamo indotti ad attribuire ai nostri genitori, come del resto ai nostri maestri e a tutti quelli che avevano funzioni educative come adulti di riferimento per noi, caratteri di infallibilità, di potenza smisurata se non proprio di onnipotenza, di conoscenza sconfinata se non proprio di onniscienza, e via elencando. D'altra parte lo stesso educatore si faceva scrupoli a pensare che avrebbe potuto deludere siffatte aspettative: per esempio una preoccupazione che tutti gli educatori avevano a quel tempo era di non dimostrarsi mai fallibili nei confronti degli educandi, di non ammettere mai di essersi sbagliati, semmai di nascondere i propri limiti o perlomeno di saperli adeguatamente mascherare: e tutto questo era fatto in perfetta buona fede, in quanto si riteneva che se un educatore, un insegnante, una figura adulta comunque di riferimento, avesse ammesso di fronte agli educandi di essersi sbagliato, di non sapere, di non capire, ciò avrebbe fatto perdere loro qualche cosa di irrinunciabile, di essenziale, li avrebbe messi in crisi, li avrebbe fatti crescere insicuri e senza fondamenta adeguatamente salde. L'investimento umano nell'educazione familiare, e non solo familiare, nei confronti delle giovani generazioni lungo tutto l'evo otto-novecentesco e stato fortissimo. Esso richiedeva un dispendio estremamente elevato da parte di chiunque fosse educatore in senso esplicito. Il dispendio sul piano umano, del resto, era chiarissimo a chi educava, come l'esperienza dei presenti può facilmente testimoniare e corroborare. Dove sta quindi la differenza sostanziale rispetto all'educare oggi, visto che l'educare oggi non richiede un impegno né maggiore né minore, ma altrettanto dispendioso, sul piano umano più essenziale? Che cos'era, un tempo, un buon educatore Ma, si osservava, la percossa sistematica non era l'ipotesi peggiore. Quante volte si sentiva prescrivere all'educando di agire o non agire in un determinato modo, con la sola motivazione che ciò faceva male all'educatore (ad esempio al genitore)? Quante volte il genitore stroncava un figlio con la semplice asserzione che il di lui comportamento "l'aveva fatto vergognare" di fronte a parenti o a conoscenti? Una percossa o financo una bastonata può fare molto meno male che sentirsi anche solo adombrata l'eventualità di aver mancato alle aspettative dei genitori, o di sentirsene condizionati in modo essenziale tanto la buona disposizione quanto l'apporto necessario di questi quando l'agire non fosse conforme a ciò che essi imponevano. Peggio ancora era quando questo coinvolgeva l'affetto delle persone più care, il quale andava "comprato" o barattato con la rinuncia a scelte proprie e con l'adesione supina ed acritica ai modelli che essi proponevano (o, meglio, imponevano). Ovviamente, non vi era alcuna consapevolezza negli educandi del fatto che questi modelli erano stati a loro volta oggetto di analoga imposizione oppressiva nei confronti dei loro educatori solo qualche decennio prima. D'altra parte, una critica a-temporale, non storicizzata, a qual modo di concepire ed attuare l'educazione non avrebbe alcun senso. Inviterei, quindi, a fissare piuttosto l'attenzione critica su un altro aspetto del problema educativo in quel contesto: solamente la certezza assoluta da parte dell'educatore di essere in possesso di ciò che era senza ombra di dubbio "il bene" (o "il Bene") dell'educando lo autorizzava sia materialmente che moralmente ad utilizzare qualunque strumento che egli ritenesse utile ed appropriato allo scopo. Qualunque cosa facesse, lo faceva "per il suo bene/Bene". L'educatore che poneva in essere atti violenti diceva spesso, e pensava più spesso, che questo faceva pur più male a lui stesso che non all'educando. Non va creduto che gli educatori di quell'epoca fossero tutti dei sadici, malati e che trovavano negli educandi delle età più tenere dei comodi oggetti di sfogo delle loro proprie frustrazioni personali; ce ne saranno stati indubbiamente alcuni, e (se è per quello) ce ne sono anche oggi, ma se il grosso degli educatori agiva così, e per la quasi totalità essi erano convinti che l'agire così fosse un buon agire, vanno ricercati tutt'altri motivi. Quel modo di intendere l'educazione, per quanto impegnativo esso fosse per l'educatore, per quanto esso richiedesse una presenza costante, assidua, dominante, fin opprimente da parte dell'educatore nei confronti dell'educando, dal punto di vista culturale era un modo assai facile di educare, facilissimo quanto il dire che cosa significasse educare, in che cosa consistesse l'educazione. Che cosa possono essere, oggi, un buon educatore e un buon educare Non ci sentiamo, quindi, obbligati a muovere neppure un cenno di critica a quel modo di intendere l'educazione, e neppure a chi educava in quel modo considerandolo un proprio dovere; non pensiamo neppure che questo abbia fondamentalmente senso se non viene collocato quel modo di educare nel suo contesto storico, sociale, culturale. Ciò di cui dobbiamo invece prendere atto è che quel modo di educare non è più praticabile oggi. Oggi il pensare ad una strada tracciata una volta per tutte al termine delle età dello sviluppo, e che fosse seguibile per tutto il restante corso dell'esistenza sia nel lavoro che nella cultura che nella società che in tutte le relazioni umane e relative sedi, non sarebbe neppure concepibile. Anche quando si fosse conseguita una posizione che consentisse di dare il meglio di sé in un certo momento nel campo del lavoro, della cultura, delle relazioni sociali, delle relazioni familiari, ciò non solo non ci esimerebbe da prendere in esame le eventualità del cambiamento futuro, virtuale e probabilmente imminente, ma ci comporterebbe al contrario la pesante responsabilità di predisporre una reazione costruttiva e positiva di fronte a quei cambiamenti che siamo certi interverranno in tutte queste sedi ed in altre, e dobbiamo attenderci che sia a scadenza breve. La virtù non è più nella costanza conservativa, presunta "affidabilità", ma nella flessibilità: è nella capacità di convertirsi, di aggiornarsi, e non solo nei settori in cui questo è più evidentemente urgente come sono i settori professionali o quelli culturali; bensì in tutti i settori di socialità e relazionalità umane, compresa la famiglia o, meglio e per certi aspetti, proprio a cominciare da essa. La necessità odierna di studiare la Pedagogia … Per tutti questi motivi, che sono peraltro evidenti all'esperienza e alla sensibilità di ciascuno, ed ancora per altri motivi che potremo ulteriormente prendere in esame ma ce ne asteniamo perché il tempo disponibile comincia a volgere al termine, si capisce bene come educare oggi sia enormemente più complesso, più culturalmente fondato, che non per il passato, e che possa di conseguenza richiedere delle competenze specifiche che in altri tempi non erano richieste, in quanto non considerate necessarie, e non considerate necessarie correttamente e fondatamente. Se prendiamo come valido esempio l'Università, come sede della formazione più elevata ma sempre tenendo presente la portata generale di questa esemplificazione, fino a non molti decenni or sono all'Università la Pedagogia era studiata quasi esclusivamente dagli studenti dei Magisteri. Erano queste delle particolari Facoltà, che non esistono più, ma che erano state create in Italia nel 1935 per dare uno sbocco universitario anche ai maestri i quali, diversamente, si vedevano preclusa questa via in quanto studiavano un anno di meno della quasi totalità dei loro colleghi frequentanti le scuole superiori. Queste Facoltà formavano inizialmente Direttori Didattici, Ispettori Scolastici, Insegnanti di Scuola Media, costituendo quasi un completamento di un circuito chiuso tra i primi gradi della scuola e l'Università stessa. Al di fuori dei Magisteri si trovavano pochissimi esempi di insegnamenti pedagogici, per lo più legati a situazioni personali e locali assolutamente particolari, e comunque in Facoltà affini ai Magisteri come in particolare Lettere e Filosofia, per lo più riconducendovisi l'insegnamento della Pedagogia ad una sorta di Dépendance degli insegnamenti filosofici. Oggi, l'insegnamento pedagogico è presente all'Università non solo in tutti i settori delle Scienze Umane, Sociali e della Cultura (Psicologia, Sociologia, Scienze Politiche, Economia e Commercio, Servizio Sociale,......) ma comincia ad avere una sua non trascurabile importanza anche in altri settori, come ad esempio nei corsi di laurea in Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, nei corsi di laurea della Facoltà di Medicina e Chirurgia, ed ancora non si sono neppure avvicinati i limiti di questo dominio, in ampliamento evidente quanto necessario. Si diceva in apertura dell'alta istanza, avanzata da autorità culturali in città, perché a Treviso vi sia una cattedra piena di Pedagogia, anche se non vi sono corsi di laurea specifici. Bene, seguendo indirizzi razionalmente consolidati, ciò potrebbe avvenire già oggi nei corsi di laurea attivati in questa sede dalle Facoltà di Economia e Commercio, o di Lingue e Letterature Straniere; né si può escludere che ciò possa avvenire relativamente ad altre Facoltà in un futuro non lontano e che già si delinea. Ma insegnamenti universitari pedagogici a Treviso e provincia già oggi esistono, nei vari corsi di laurea e di laurea specialistica attivati nel Capoluogo, a Conegliano e a Castelfranco dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Padova. Si tratta di presenze apprezzabili e degne di menzione: ma, allo stato attuale, esse presentano tutti i limiti di ogni corso tenuto da personale esterno all'Università, reclutato con contratti annuali o con affidamenti gratuiti o a basso costo nei quali vi è certo il meglio dell'esplicazione di qualità da parte di soggetti onorati dalla collaborazione all'Università, ma che fanno mancare all'Università e al territorio un rapporto organico di direzione, di ricerca, di scientificità. Se ne può avere un'ulteriore immagine esemplare considerando quanto di specificamente pedagogico era assente nei libri di testo antologici o storici, ad esempio, di Letteratura o di Filosofia in quanto considerato non pienamente pertinente o secondario o non rilevante per indirizzi culturali generali, mentre oggi torna ad essere sviluppato, sia pure anche qui in misura ancora inadeguata, e scritti sull'educazione compaiono là dove decenni or sono nessuno si sarebbe sognato di includerne o di cercarne. Ma non è solo un problema di Università e Scuola, cioè di quella parte della formazione che è maggiormente centrata sui saperi, anche se in quelle sedi si è cominciato a dare una risposta positiva precedentemente che non in altre, e i primi risultati sono meglio leggibili ancorché inadeguati. L'enorme ampliarsi e diversificarsi dei campi nei quali è indicata la competenza pedagogica Si pensi a quanto si sia ampliato l'insegnamento della Pedagogia (come quello di altre Scienze Umane, Sociali e della Cultura) nelle Scuole Superiori, in più indirizzi, oppure a quella comparsa che la Pedagogia ha già fatto nel campo della formazione professionale, della gestione delle risorse umane, dei sevizi, della formazione alla coppia e alla famiglia, nella formazione alla genitorialità, nello Sport, e via elencando, anche se in questi campi (come del resto nello stesso campo universitario) il più di quanto è minimamente necessario rimane ancora da attuare. Non si tratta più solo, né principalmente, di aiutare quelli che consideriamo casi cosiddetti "speciali", cioè oggetto della cosiddetta Pedagogia speciale, come l'avere in famiglia un elemento o più che presentano problemi di Handicap, di diversa abilità, oppure ad esempio di disadattamento o di devianza. È necessario capire che anche rivestire ruoli familiari, al pari di quelli educativi e contestualmente ai medesimi, comporta difficoltà enormemente maggiori, e qualitativamente diverse, che non per il passato. L'aiuto pedagogico è necessario nel costruire la genitorialità e la familiarità, e prima di queste nel costituire la Partnership , oggi: anche tutto ciò costituisce un buon esempio di campo d'applicazione professionale per un Pedagogista. Altri esempi si possono trovare, nell'esperienza di ciascuno, quando si considerino problemi seri come ad esempio quello di educare alla scelta, e quindi a sostituire alle certezze un tempo dispensate con l'educazione uno stato ben più impegnativo di incertezza continua ma anche di profonda responsabilizzazione; oppure la laboriosa ricerca di un continuo equilibrio tra il rispetto delle libertà degli educandi e la necessità di farli vivere entro contesti di regole, affinché correttamente essi pervengano alla autonomia come aspetto della loro maturità attraverso una eteronomia che è, evidentemente, tutta da costruire su basi nuove che non per il passato. Lo stesso nuovo ruolo della scuola nella vita umana, essendo terminate da decenni le certezze che si costruivano attorno alla conquista del cosiddetto "pezzo di carta", è un grosso problema, per affrontare positivamente il quale l'aiuto pedagogico sarebbe necessario quanto, frequentemente, esso non viene effettivamente richiesto, e fin negato. Se si vuole un altro ordine d'esempi, anch'esso facilmente sviluppabile alla luce dell'esperienza di ciascuno, si pensi a quanta pseudo-cultura educativa (non pedagogica) si sviluppa attorno alla realizzazione da parte dei genitori nei figli non di quelle che sono le attitudini, le aspirazioni, le potenzialità dei figli stessi, bensì di quelli che sono state i desideri e le aspirazioni dei genitori quando avevano l'età dei loro figli. La persona umana è sempre fine, e mai strumento. Fra l'altro, casi come questi sono tra quelli che esemplificano bene come una persona, nella fattispecie il figlio, venga troppo spesso trattata non come fine ma come mezzo. Ora, uno dei cardini della Pedagogia d'oggi (e non solo di quella d'oggi, del resto) è che la persona umana non debba considerarsi mai mezzo nei riguardi di alcun fine, per nobile ed altisonante che esso possa essere, ma sia sempre e comunque fine a sé stessa. Si trovano sempre dei fini reboanti e accattivanti per strumentalizzare altre persone, in particolare persone più deboli e maggiormente esposte come lo sono i figli nei confronti di genitori, oppure gli allievi nei confronti degli insegnanti; ma a questo, ed in ogni caso consimile, va risposto un chiaro no, in quanto una nobiltà reale o presunta di fini non giustificherebbe mai e in nessun caso la strumentalizzazione di altre persone, l'asservimento dell'uomo ad essi. Noi, semmai, dobbiamo aiutare i nostri educandi a realizzare i fini che si sono proposti, dopo esserseli scelti personalmente e nella massima libertà possibile; ma i fini nostri personali non li possiamo né li dobbiamo mai sovrapporre ad altre persone, compresi nostri educandi o, meglio, a cominciare da essi. Inoltre, non dobbiamo mai dimenticare che nell'educazione va data la necessaria attenzione all'impegno, alla dedizione, al sacrificio che il perseguimento di qualunque obiettivo comporta, ma i cui dispendi relativi si accettano e si giustificano solo perché le scelte di tali fini sono le scelte del soggetto stesso, e non scelte etero-dirette. Anche a scuola può succedere che la persona-allievo venga trattato come mezzo anziché come fine: non di rado, ciò avviene in modo abilmente dissimulato. È il caso di quando, ad esempio, si preferisca accordare agli allievi una promozione incondizionata, comoda per tutti a cominciare dal docente e dal dirigente che possono sentirsene assolti da qualunque mancanza, anziché lavorare ad una promozione condizionata, ed eventuale, che impegna preventivamente e prima di tutto l'insegnante, singolo oppure come corpo docente esteso al Dirigente e ad altre figure scolastiche. Oppure si considerino i casi, assai frequenti, nei quali gli allievi vengono considerati a scuola solo come numeri necessari a far tornare organici, strutture, condizioni di lavoro comode per i lavoratori, ma per il resto lasciati a loro stessi in quanto non integrano né fini rilevanti, né fini purchessiano. Anche questo e un discorso che potrebbe richiederci una conversazione a parte, ma un seppur minimo cenno è necessario per rimarcare un aspetto problematico di ordine pedagogico generale che ci rimanda direttamente ai cambiamenti nei paradigmi educativi degli ultimi decenni, che sono oggetto di questa conversazione. Il ricorso alla Pedagogia, e il ricorso al Pedagogista La stessa pubblicistica scientifica e divulgativa di Medici, Psicologi, Sociologi, Assistenti Sociali, fin dei Giuristi che pure oppongono le resistenze più forti, riporta con una frequenza crescente il ricorso a risorse specificamente pedagogiche. Dall'altro lato si sta facendo strada la figura professionale del Pedagogista. Anch'essa incontra forti difficoltà e resistenze, anche se di ordine diverso, ma la sua affermazione è crescente e ha di fronte a sé prospettive comprensibilmente aperte. Pedagogisti di professione già esistono nel nostro mondo del lavoro, anche se sono (sì e no) dell'ordine del migliaio in tutta Italia; già esercitano; integrano figure libero-professionali ed anche e figure di lavoro dipendente, nella sanità e negli enti locali, nei servizi sociali ed in alcuni ministeri; essi inoltre operano nel volontariato, nella cooperazione, e in altri settori sociali. Ciò che maggiormente è di ostacolo all'affermazione anche della figura professionale del Pedagogista si deve alla mancanza di una normativa che conferisca a questa professione un riconoscimento giuridico, come invece si è da tempo attuato per altre professioni consimili: non ci si riferisce solo a professioni dalla storia recente come ad esempio quelle dello Psicologo, dell'Assistente Sociale, o del Commercialista; ma anche (o prima di tutto) a professioni antiche al pari di quella del Pedagogista, come lo sono le professioni sanitarie e le professioni dell'area giuridica (risalenti, tutte, a due millenni e mezzo fa, alle radici della civiltà occidentale). Semmai, si può osservare che le difficoltà che incontrano oggi in Italia i Pedagogisti sono assolutamente analoghe a quelle che incontravano trent'anni fa gli Psicologi e quarant'anni fa gli Assistenti Sociali; va inoltre osservato, a questo specifico riguardo, come sia diverso il modo di reagire a queste difficoltà, in quanto i Pedagogisti sono meno assertivi e più dubitativi, sono ipotetici e per nulla dogmatici, sono interlocutorii e senza definitività, meno pratici e più applicativi (nel senso di una mediazione continua tra la teoria e la prassi): ma questo e un altro discorso che meriterebbe una conversazione a parte, anche se un'idea di come agisca il Pedagogista oggi ce la possiamo già fare avendo chiaro quale sia il nuovo ruolo della Pedagogia oggi. Un'esperienza trevigiana di educazione nella terza età Un segnale importante in tal senso è stato lanciato qui a Treviso proprio dalla Dante Alighieri, nella persona del presidente professor Brunello che ancora ringrazio, il quale ha voluto finalmente che tra i vari settori culturali che portavano contributi alle attività meritorie di questo sodalizio vi fosse finalmente, a partire dall'anno scorso, anche la Pedagogia. Comprendiamo tutti meglio quanto importante sarebbe che un congruo ed organico sviluppo della Pedagogia ai massimi livelli non fosse estraneo alla città di Treviso, una città che nel suo sviluppo economico "da manuale" degli ultimi decenni non è stata per nulla aiutata a darsi un analogo sviluppo sociale e culturale, e le contraddizioni derivanti da questo sempre più pesante squilibrio sono evidenti e denunciate ormai da tutti; più difficile è che si capisca quanto la correzione di tale contraddizioni richieda, assieme ad altri, il contributo essenziale della Pedagogia, se non si sviluppa prima una cultura pedagogica adeguata. Il che, se si vuole, integra un ulteriore esempio di un principio generale che tutti noi abbiamo enunciato più e più volte nella nostra vita, secondo il quale una adeguata evoluzione nella ricerca applicativa e nelle ricadute pratiche postula prima, e necessariamente, una adeguata ricerca di base o generale. Questo vale in Pedagogia come vale nelle materie scientifiche, nelle materie tecniche ed in ogni campo del sapere. In questo senso, l'esperienza è stata arricchente e preziosa anche per il loro relatore; potremmo dir meglio: prima di tutto per lui. Una riflessione su questo punto può ben concludere questa conversazione: se parliamo di educazione in senso proprio, e non di altri interventi umani che pure possono somigliarvi, non dimentichiamo che essa è sempre bi-direzionale ed anche, in certi casi, pluri-direzionale. L'educazione è sempre reciproca, educazione oggi è reciprocità Il nostro discorso si è articolato sulla contrapposizione tra l'educazione di una-due generazioni fa e l'educazione come si sta trasformando oggi: si è trattato di una scelta realistica e necessaria, trovandoci in un momento di profonda trasformazione socio-culturale, tanto profonda da farci pensare che siamo di fronte ad un nuovo Evo. Ebbene, rimaniamo a questo confronto, e vediamone un aspetto essenziale in chiusura: un tempo si poteva anche credere, o figurarsi, che l'educazione fosse un processo che vedeva da una parte l'educatore e dall'altra parte l'educando, e un flusso uni-direzionale dal primo nei confronti del secondo. Certo, anche oggi possiamo dire che vi sono dei casi in cui, tra due figure che interloquiscono educativamente, una incarna maggiormente le fattispecie dell'educatore e l'altra quelle dell'educando; ma ciò non toglie che il processo è sempre reciproco. Ciascuno di noi educa nel momento in cui viene educato e per il fatto stesso di essere educato e viceversa: l'educazione è questo, è sempre un processo reciproco. Possono cambiare tante cose nei due interlocutori educativi: per esempio, non e detto che tutti e due abbiano pari consapevolezza di educare, non e detto che tutti e due abbiano pari progettualità, o pari intenzionalità, educative. Quando interloquiscono un adulto e un bambino, certo il bambino non è né consapevole di educare l'adulto né ha intenzione di agire in tal senso per il fatto di esserne educato, né meno che meno si dà alcuna progettualità educativa; ciò non toglie che egli educa l'adulto contestualmente al suo esserne educato. Nessuno di noi, per quanto ritenga di aver dato educativamente ai propri figli, può dire di non esserne stato parimenti educato. Nessun docente, per quanto abbia trasfuso ai suoi discenti nell'educazione didattica, può dire di non averne ricevuto analogamente tanto e tanto di essenziale. Certo, ad esempio un insegnante ha intenzione di educare, ed inoltre progetta, studia, programma il proprio atto educativo, mentre gli allievi non fanno nulla del genere. Ma il buon maestro sa perfettamente quanto i propri allievi gli abbiano dato. Né si tratta di una scoperta d'oggi, al contrario osservazioni di questo genere ci riportano a quella cultura classica dalla quale non dovremmo mai prescindere. Si pensi ai dialoghi di Socrate e di Platone, ad esempio: non lezioni magistrali uni-direzionali, ma dialoghi; non orientati a trasmettere qualcosa dal docente al discepolo, bensì dichiaratamente impostati affinché il maestro aiuti il discepolo a porre in atto, a mettere alla luce, quelle idee che si sono sviluppate dentro il discente stesso. Proprio Socrate metaforizzava questa perizia con l'arte professionale della propria madre Fenarete, l'arte delle levatrici o "maieutica", l'arte (la tecnica) di chi aiuta la genitrice a dare alla luce l'uomo che essa ha fatto crescere al proprio interno, quando ne sia giunto il momento opportuno, il che può comportare anche dolore ed impegno, ed è comprensibile che richieda l'aiuto di persona qualificata, la quale abbia già esperienza di merito che peraltro (così la pensava Socrate) fosse ormai giunta al periodo della sterilità. Comunque, non si trattava di trasmettere le idee di uno (il docente, il maestro, l'educatore) all'altro (il discepolo, l'allievo, l'educando); bensì, di far nascere e poi crescere le idee di ciascuno. Si potrebbe continuare a lungo con le esemplificazioni in tal senso, e non soffermandosi solo sul periodo classico greco o latino, ma estendendo l'analisi anche ad evi successivi. Il frangente storico, così difficile e così umanamente significativo Apprezziamo tutto il positivo di questo difficile frangente storico, relazionale e culturale. Certo siamo coinvolti in modo più essenziale e siamo costretti a rimetterci continuamente in discussione, a rivedere convincimenti pur radicati e a cambiare noi stessi anche per poter dare il meglio ai nostri interlocutori educativi. Essi, i nostri educandi, ne hanno bisogno; questo l'abbiamo compreso tutti. Ci resta da comprendere fino in fondo quanto ne abbiamo bisogno anche noi. La Pedagogia odierna ci offre, finalmente, gli strumenti concettuali per interpretare questo processo evolutivo come altamente umano, per viverlo come tale e soprattutto per parteciparne e per agirvi, da persone consapevoli, che non intendono lasciarsene trascinare ma intendono farsene uno strumento umano in sommo grado. ------------------------------------------------- Alcune letture consigliate L'autore ha preferito conservare nel lavoro scritto quanto più fosse possibile dello stile discorsivo che ha caratterizzato la conferenza.
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