L'educazione nel Basso Medioevo
Avevamo lasciato l'istruzione letteraria affidata a diverse iniziative: dello Stato per i laici in congruentissimis sedibus , e della Chiesa per i chierici nei conventi e nelle parrocchie, oltre a un qualche apprendistato artigianale. Col passaggio dell'impero (translatio imperii) ai Germani, viene meno l'iniziativa statale e prevale quella ecclesiastica, che si estende dalle sedi sue proprie alle sedi esterne e si dà ordinamenti e fini in contrasto con la rinuncia all'istruzione dei laici dichiarata in età carolingia. Avremo presto, oltre a scuole conventuali e parrocchiali, anche scuole laiche di nuovo tipo.
Nei conventi l'istruzione continua ad avere un qualche posto. A Montecassino troviamo prescritto che «tutti i monaci apprendano le lettere»: ma nel convento di Farfa in Sabina, stando alla testimonianza dell'abate Guidone, ritroviamo la presenza degli arredi scolastici accanto a quelli della vita materiale quotidiana: «I ragazzi abbiano nella scuola i libri, i rasoi con le scodelle e i catini per lavarsi la testa...». Libri, scodelle e catini: la scuola non è il luogo dell'istruzione, ma della vita diurna, dove i ragazzi possono radersi due volte alla settimana, parlare «quando sarà il tempo per farlo», e studiare le Scritture: così come i dormitori, sorvegliati nel continuo timore di lascivie, sono il luogo della vita notturna. Che poi l'istruzione non fosse ritenuta uno degli scopi principali è provato dalla testimonianza di san Pier Damiani , che si dichiara lieto di non aver trovato a Montecassino scuole per fanciulli.
Ma qualcosa si muove: nel 1041 il tedesco Wippone esorta l'imperatore Corrado a fare come in Italia dove, diceva con molta esagerazione, «tutta la gioventù è mandata a sudare nelle scuole» (in G. Manacorda 1913, i, p .134). E ormai nasce, soprattutto in Francia, un forte movimento di riforma della vita nei conventi: intorno al Mille, gli Statuta congregationis cluniacensis intendono ripristinare un costume di disciplina andato perduto, reintroducendo «almeno in parte. l'antico e santo lavoro delle mani». Spiegano che lo fanno perché «l'ozio aveva occupato tanta parte dei nostri che, eccetto i pochi che leggevano e i rari che scrivevano, gli altri o dormivano appoggiati alle pareti del chiostro, o dal sorgere al tramonto del sole.. ., se potevano farlo impunemente, passavano tutta la giornata in discorsi vani e oziosi e, ciò che è peggio, il più delle volte maliziosi» (ivi, XXXIX). Si comprende bene questo comportamento dei novizi, se si riflette che questa vita non era una loro scelta, ma un destino imposto loro dai genitori, attraverso una solenne "consegna" al convento, che li obbligava a restare per tutta la vita sotto la regola «con una fedeltà sempre maggiore» (Patrologia latina, X XXIX, In, 8). Comunque, risulta chiaro, quanto all'istruzione, che "pochi" apprendevano a leggere e "rari" a scrivere.
Come il clero regolare nei suoi conventi, anche il clero secolare nelle chiese delle città affronta ora nuovi compiti. Dal rifiuto di occuparsi dell'istruzione dei laici, annunciato a Lotario. all' inizio del IX secolo, la Chiesa passa gradualmente, nella carenza di ogni organico potere politico, a rivendicarla come compito proprio. Presso le chiese metropolitane o cattedrali, dove cioè risiede la cattedra vescovile, e anche nelle piccole pievi o parrocchie, era sopravvissuto un qualche residuo di istruzione, se non altro per educare via via nuove generazioni di preti per gli uffici sacri. Col crescere di questo impegno, il vescovo tende a delegare questa cura a uno scholasticus o magischola , il quale presto tende a delegare a sua volta questo compito a un sostituto o proscholus; e tocca loro concedere la cosiddetta licentìa docendi. Presto, per concederla, si richiede un compenso, e la professione dell'insegnante torna ad essere retribuita come le altre, sebbene per la morale cristiana ciò configuri un peccato di simonia. E si assiste a un seguito contraddittorio di interventi che, in un modo o nell'altro, aprono la via a un risveglio dell'istruzione.
Ancora nel 1079 Gregorio VII confermava ai vescovi l'obbligo di insegnare le arti letterarie nelle loro chiese (in G. Manacorda, 1913, I, p .70) ma non parla di laici: circa un secolo dopo, il Concilio di Tours del 1163 imponeva che nessun chierico, secolare o regolare, potesse uscire per insegnare scienze naturali o mondane (ivi, t, 193-194). Ma se lo si proibiva, significa che si cominciava a farlo, e la Chiesa si andrà sempre più aprendo a questi nuovi compiti. Un secolo più tardi, papa Alessandro ili, nel Concilio lateranense del 1179, imponeva a ogni chiesa cattedrale e anche alle chiese minori e ai monasteri di insegnare gratis «ai chierici e ad altri poveri»; e aggiungeva: «Per la licenza di insegnare non si esiga alcun pagamento.. ., né si impedisca l'insegnamento ad alcuno che sia idoneo e ne abbia ottenuto la licenza»: lasciava tuttavia libertà di insegnare extra muros civitatis (ivi, I, 70-74). Poi, nel nuovo Concilio lateranense del 1215, papa Innocenzo il ribadiva queste disposizioni; e nel 1219 Onorio III, lamentando la rarità dei maestri, consentiva «nonostante qualche consuetudine o statuto», che i chierici che si recassero fuori dal convento a studiare o a insegnare teologia «continuassero a percepire i proventi dei loro benefici, e se questi fossero insufficienti, ad avere più stipendio» (ivi, i, pp. 73-74). Così il rovesciamento è compiuto, i frati insegnano a tutti, e il pane della scienza si vendé senza scandalo di simonia. Così accanto alle scuole di pievi e conventi sorgono anche scuole cittadine, i cui maestri sono spesso gli stessi religiosi.
All'inizio del Duecento, sotto papa Innocenzo III, nacquero i nuovi ordini mendicanti, domenicani e francescani, che presentano una novità sensibile: sono rivolti non soltanto alla vita contemplativa, ma alla predicazione tra la gente, portando fuori del convento la parola di Dio. Le loro chiese e conventi non sono più isolati nella campagna ma , posti nel cuore stesso delle città, ne delineano anche i nuovi indirizzi urbanistici. Diversa l'ispirazione iniziale dei due ordini: teologica e inquisitoriale , fino a compiere sanguinose crociate interne contro gli "eretici" di Provenza, quella dell'ordine domenicano; filantropica e auspicante la povertà materiale e culturale, quella dell'ordine francescano. Ma se san Francesco raccomandava ai suoi frati di non curarsi se non sapevano leggere, poi l'uno e l'altro ordine insegneranno, fonderanno università, e avranno in san Tommaso e san Bonaventura i loro maggiori intellettuali.
Le loro sono le solite scuole di lettura e di scrittura, con la solita didattica dei conventi. San Bonaventura ci dirà: «I fanciulli, dapprima imparano a, b, c, d, e poi a pronunciare le sillabe ( sillabicare ), e poi che significhi parte del discorso, cioè un po' di grammatica» (ivi, il , p. 172). E fra' Salimbene da Parma: «Cento volte dicevano ad alta voce: Pater, Pater, Pater! E dopo un breve intervallo riprendevano lo stesso ritornello e cantavano: Pater, Pater, Pater !, a quel modo che sogliono fare i ragazzi che sono istruiti a scuola dai maestri di grammatica, quando, gridando a intervalli regolari, ripetono ciò che è stato detto dal maestro» (ivi, li, p. 170). Ripetizioni in coro, domande e risposte in forma di catechismo: «Perché sei scolaro? - Perché frequento la scuola e imparo le lettere - Quante sono le tue occupazioni? - Sei: al mattino alzarsi, subito vestirsi, pettinarsi i capelli, lavarsi le mani, adorare Iddio e andare volentieri a scuola - Che leggi? - Non leggo, ma ascolto - Che ascolti? - La tavola pitagorica, o Donato o, Alessandro o logica o musica» (ivi, il p. 52). L'antico autore latino Donato e il recente francescano Alessandro de Villadei , autore di un Dottrinale, sono i testi di grammatica, a cui si aggiungono la Janua , un nome dovuto all'incipit del trattatello : Janua sum rudibus primam cupientibus artem nec sine me quisquam rite peritus erit (Sono la porta per coloro che ambiscono alla prima arte, e senza di me nessuno sarà convenientemente istruito). Questi e altri simili erano i testi per la prima scuola.
Ma che cos'era successo, perché si avessero questi mutamenti? Il mondo cambiava, la vita economica era in ripresa, nelle città i ceti artigianali e mercantili esigevano più attenti processi di addestramento e di istruzione. Alcuni centri di studio sembrano nascere, o continuare a sopravvivere, nell'ambito delle artes liberales , come medicina e architettura, che già nell'età classica avevano goduto di una loro dignità. Già prima del Mille opera la scuola medica salernitana che, giovandosi dell'eredità greco-romana e degli apporti della medicina araba, ebbe fama in tutta Europa e anticipò le facoltà di medicina delle università.
Nelle attività artigianali, i servi ministeriales che avevano esercitato il loro mestiere nelle corti e nei conventi, tendono a trasferirsi in città, dove s'incontrano con gli artigiani cittadini: insieme elaborano i modi della loro convivenza, redigendo i loro statuti, spesso sanciti dal potere pubblico. Da questi statuti apprendiamo non i metodi del lavoro e la loro trasmissione didattica, che il "segreto dell'arte" impedisce di divulgare, ma il rapporto di apprendistato e la carriera, che dal livello di discepolo o apprendista, attraverso la prova consistente nell'esecuzione di un "capolavoro", sale a quello di socio e maestro. Questo apprendistato artigianale avviene sempre sul lavoro e non in un luogo separato, come invece avviene, sia nella scuola per l'istruzione letteraria, sia nel tirocinio militare per la preparazione alla guerra.
Tra gli statuti corporativi i più circostanziati sono quelli raccolti a Parigi dal prevosto Etienne Boileau nel Livre des métiers del 1282. In Italia dopo alcuni precedenti risalenti al 1275, abbiamo nel 1317 gli Statura et ordinamenta artium et artifichum civitatis Florentiae, redatti in latino da un pubblico notaio e poi tradotti in italiano (sermone vulga Vi si distinguono chiaramente i vari livelli, magistri, sotii, discipuli, e al disotto i semplici operatores o laboratores o laborantes giornalieri, qui operam dant per diem (ivi, ili, II) e i rapporti personali. Anche quì si aveva una "consegna" dei genitori ai maestri dell'arte, e si conveniva che «nessun fattore o discepolo... postosi con qualcuno che faccia parte dell'arte per un periodo stabilito, possa o debba, prima dello scadere del tempo, porsi a stare con qualcun altro di quest'arte: rea debba e sia tenuto, e vi sia efficacemente costretto dai consoli, compiere coi suo maestro... tutto il periodo della sua postura» (111, 1). Altre disposizioni riguardavano il numero massimo dei discepoli e la durata dell'apprendistato; e in caso di contestazione si dava sempre valore alla parola dei maestro .
Questo rapporto tra. apprendista e maestro ripete in gran parte quello che si stabilisce tra gli oblati e il convento: naturalmente non senza sensibili differenze.
Ma intanto ci conviene tornare all'educazione dei nobili o milites, uomini di spada, di fronte ai clerici , uomini di penna. Come i monaci e i servi ministeriales, anche i nobili tendono a lasciare i castelli e ad inurbarsi, alzando nelle città i loro palazzi e torri fortificate. Ma il loro destino resta la milizia, la loro istruzione un tirocinio di guerra, i loro sport una mimesi di guerra.
Affidati, dopo le cure materne, a un adulto, i nobili adolescenti si educavano attraverso giochi gagliardi con palle, bastoni, lanci di pietre, il primo maneggio delle armi e soprattutto l'equitazione e la caccia. A quindici anni si era paggio o scudiero, a venti si diveniva cavaliere attraverso una solenne cerimonia, nella quale si riceveva l'ulti ma, simbolica, battitura. Una formazione ben diversa da quella dei conventi, delle scuole dell'alfabeto e dell'apprendistato artigianale; e traspare anche dalle testimonianze di sovrani, come l'Ars venandi cum avibus di Federico il di Sicilia o le Siete partidas di Alfonso il saggio di Castiglia, il cui V capitolo riguarda il re, e spiega che «una delle cose che più giova è la caccia». Ma c'è anche un loro avvicinarsi alla cultura: basti pensare alla letteratura occitanica, cortese, cioè delle corti, che ha come autori e protagonisti dei nobili cavalieri, tra i quali il nostro Sordello mantovano, e come argomenti la nobiltà, le armi e gli amori.
Intanto sono nate le università, sulla cui origine si è molto discusso: scuole conventuali, scuole cattedrali, scuole dei maestri liberi, scuole del potere politico? Certo è che, dato il progressivo derogare dei decreti papali dalle "antiche consuetudini" teologiche verso le nuove consuetudini mercantili, è lecito pensare che ci sia un confluire di di verse esperienze.
Già si è detto della Scuola medica di Salerno, che non ebbe propriamente lo status giuridico di università. Ma Bologna nasce sul finire del secolo XI per l'iniziativa di un maestro privato di diritto, Pepone, a cui seguì il più famoso Irnerio. Poi sarà il potere politico a suscitarle o riconoscerle: Filippo il Bello a Parigi per la Sorbona nel 1210, Federico II a Napoli nel 1224, Alfonso il Savio per Salamanca, e poi Vienna, Praga, Cracovia. Ormai le università sono un affare di Stato: danno prestigio e traffici alle città, ma anche fastidi, sì che, ad esempio, Firenze preferì lasciarne l'onere e l'onore alla vicina Pisa, riservando a sé uno Studio, prestigioso ma senza facoltà di rilasciare titoli di va lore universale. E Padova nasce nel 1222 da una scissione degli studenti di Bologna.
Ma perché "università"? Forse perché, come le corporazioni d'arte e mestiere, raggruppavano tutti (universi) gli addetti? O perché i titoli di dottore, cioè la licentia docendi, da esse rilasciati avevano valore universale? Alfonso il Savio distingue lo «studio generale», con tutti gli insegnamenti, stabiliti da imperatori, re o papi, e gli «studi particolari o privati».
Nei primi "studi" si "leggeva" diritto civile e, dopo la compilazione delle Decretali a opera. di Graziano nel 1140, seguì il diritto ecclesiastico, onde si parlò di dottori dell'uno e dell'altro diritto ( utriusque iuris ). Poi, sulle orme delle scuole conventuali, seguì la teologia, quindi la medicina. E a quelli si affiancavano le "arti liberali", un livello superiore dell'antico trivio e quadrivio, che veniva considerato propedeutico a ogni altro studio. Non si poteva infatti studiare nulla senza la preparazione strumentale nella grammatica e nelle sue sorelle del trivio, né trascurare gli insegnamenti concreti del quadrivio, culminanti nella "filosofia" del mondo fisico e morale. Così il quadro quasi canonico delle quattro facoltà è ormai delimitato: arti liberali, diritto, medicina, teologia: con qualche variante . Ne troviamo traccia in Dante, all'inizio del canto XI del Paradiso:
Chi dietro a Tura e chi ad aforismi
Sen giva, e chi seguendo sacerdozio...
diritto, medicina, teologia, dunque: mancano le propedeutiche arti liberali. In Italia si svilupperà poi l'Ars dictandi, o arte notarile, che insegnava a stendere i documenti pubblici: siamo il paese della politica (o della burocrazia).
Nell'università il rapporto dottori-scolari, che solevano raggrupparsi per "nazioni", restò a lungo un rapporto privato, come nelle corporazioni, solo con molto potere per gli scolari. Erano infatti loro che, confluendo da diverse regioni d'Europa verso le università più prestigiose, sceglievano il loro insegnante e lo pagavano. Qualcuno di loro si incaricava di raccogliere le "collette", ma con scarsa regolarità, tanto che a Bologna Odofredo , successore di Irnerio, se ne lamentava: «I cattivi scolari non vogliano pagare, non sono buoni pagatori» (in G. Manacorda , 1, pp. 230-231). Ed erano anche irrequieti, e non solo dentro le università, ma anche nelle città, dove coi loro scherzi e prepotenze provocavano conflitti con la popolazione e con le forze dell'ordine. Erano i "goliardi", clerici vagantes che già Gregorio IX aveva autorizzato a uscire dai conventi per studiare e insegnare. E, discendenti ideali di quelli che Pietro il venerabile ci aveva mostrato oziare appoggiati ai muri del chiostro a raccontarsi barzellette oscene, solevano infastidire le donne e andare nelle taverne a ubriacarsi e cantare i loro canti goliardici:
La nostra setta accoglie gli onesti ed i furfanti, gli zoppi e macilenti, i forti ed aitanti, quei che fioriscon giovani e languon per vecchiezza, i frigidi e gli ardenti nell'amorosa ebbrezza... Il nostro ordine vieta d'uscir presto dal letto; e appena alzati andiamo in un fresco angoletto ; lì ci facciam portare il vino e le galline, e solo vi temiamo del gioco le rovine
( Trad. L. Vertova ).
E fino ai nostri giorni si canta « Gaudeamus igitur , iuvenes durra sumus ..» Godiamo, orsù, finché siam giovani...
E così li descrive Guido Faba , maestro di Ars dictandi. In un modello di lettera De monacho ad monachum vagabundum lo rimprovera di aver fatto «una specie di oratorio nuovo, ove i monaci diventano dei leccatores e, trasformatisi in istrioni, cantano salmi nei postriboli e le orazioni nelle osterie, e giocano ai dadi con le meretrici». Cosa antica: abbiamo sentito l'imperatore Valentiniano minacciare di pene corporali e di esilio gli studenti che confluivano a Roma.
A metà del sec. XII, gli studenti dello studio di Bologna ricorrono presso Federico i Barbarossa per sottrarsi alla giurisdizione cittadina, e il Barbarossa , con una sua Authentica del 1158, riconosce il loro diritto a tribunali speciali, della Chiesa o dei loro maestri. E li dipinge come degli studiosi perfetti «che a causa dei loro studi vanno peregrinando... Chi non avrebbe pena di loro? Per amor di scienza fatti esuli e di ricchi poveri, essi consumano se stessi, espongono la loro vita a tutti i pericoli, e spesso subiscono senza motivo violenze fisiche da parte di uomini vilissimi (il che è appena da sopportare)». Che ci sia nel Barbarossa l'intenzione di proteggere quelli della "nazione teutonica" e di deprimere le autonomie comunali di quella Bologna che non sarà mai troppo tenera con gli imperatori tedeschi? E poi quell' accenno alla gente vilissima, cioè i borghesi, da cui nessun cavaliere, fattosi studente, può tollerare offesa!
Così tra conflitti con i professori e con i cittadini vivevano questi clerici vagantes , alla ricerca dei migliori professori. Le "lezioni" erano propriamente letture e commenti dei testi: il professore "professava" il suo programma all'inizio dell'anno: si avevano poi ripetizioni e dispute, e prove d'esami . Dante ce ne dà un esempio nei canti XXIV, XXV e XXVI del Paradiso, quando si fa esaminare da san Pietro, san Jacopo e san Giovanni sulle tre virtù teologali, fede, speranza e carità.