Tra Medioevo e Umanesimo
Abbiamo visto una pluralità di forme di educazione: a quelle dei due ceti dominanti, clerici e milites, si è venuta aggiungendo quella degli artigiani delle città. Ci sono scuole cenobiali, vescovili, parrocchiali, dal primo livello dell'abbiccì fino alle università; c'è il tirocinio sportivo e guerriero con la caccia come mimesi principale dell'arte della guerra; c'è infine l'apprendistato di mestiere, senza separazione tra forme e sedi dell'apprendere e forme e sedi del lavorare.
Di questa molteplicità era cosciente l'autore del Facetus, uno degli "octo auctores", che distingueva tra chierici. laici e milites: «Se un fanciullo si sia spontaneamente messo a studiare come chierico..., è necessario che impari quale sia la dottrina della salvezza, per bene insegnarla quando sarà egli stesso prete. Se un fanciullo è laico..., se gli piacciono le lettere per far poi il chierico, o se, pur restando laico, vuol essere più colto, giudice o medico, professore, scrivano o poeta, negli anni teneri impari ad amare i libri. Ma se deve mirare alla vita delle armi, apprenda a guidare i cavalli coi cocchi e con le mani» (in G. Manacorda, 1913, li, 168). L'autore trascura l'apprendistato artigianale, che non ha la forma del luogo separato scuola, anche se al suo interno si apprendono i primi rudimenti del leggere, scrivere e far di conto, indispensabili per le attività commerciali e artigianali.
Nuovi ceti accedono all'istruzione intellettuale, prima riservata ai chierici. Anche i milites cominciano a maneggiare non solo la spada ma anche la penna, per scopi di poesia più che per scopi pratici; e così i laici delle città, destinati alle professioni che Cicerone diceva sordidae. L'istruzione non è più solo per i chierici o per i laici che vogliono esercitare le professioni liberali del professore (o dottore, cioè docente, come correttamente si diceva allora), del medico, del giurista, del notaio: è, tendenzialmente, di tutti.
Per inquadrare questo processo nel più ampio contesto sociale, si ricordi che questi sono i secoli in cui nascono le letterature in volgare (provenzale o lingua d'oc, francese o lingua d'oil, tedesco o italiano o altro), che non solo usano questo strumento linguistico al posto del latino o "grammatica", ma anche affrontano argomenti nuovi, di prosa e di poesia: novellistica, lirica d'amore o d'altro. Certo, chi scrive prose o poesie nei volgari è uomo colto, qualunque sia la sua provenienza sociale; e ciò presuppone l'esistenza sempre più numerosa di scuole. Ma di che scuole si tratta? Sono pubbliche o private? E che cosa insegnano, e come?
I magistri autorizzati dal magischola ad insegnare attraverso la concessione a pagamento della licentia docendi finivano spesso per insegnare per proprio conto. Nel Duecento le città vedono fiorire, accanto alle botteghe dei maestri artigiani, anche le "botteghe" (dobbiamo proprio chiamarle così) dei maestri di scuola. A Milano, sul finire del Duecento, Bonvesin da Riva annovera otto professori di grammatica, più altri che vengono da altre città, e oltre settanta maestri elementari (Magnalia Mediolani, 86); a Firenze Gióvanni Villani, prima della peste del 1348, trova 8-10.000 ragazzi nelle scuole di grammatica, 10001200 in quelle di abaco, e 550- 600 in quelle di grammatica e logica (Storie, XCIII ). Sono scuole private, ma spesso i Comuni se ne assumono le spese, in particolare dopo che, col calo demografico in seguito alla peste del 1348, i maestri non potrebbero più campare con le collette dei ragazzi superstiti, ma la città non può rinunciare a istruirli.
Questi maestri cittadini presentano diverse figure. Ora un doctor puerorum con un suo aiutante o proscholus, che lavorano individualmente; ora maestri che si associano in "cooperative" e stipendiano, dei loro dipendenti, diventando da maestri gestori di scuole; ora un'organizzazione corporativa come, a Firenze, l'Ars magistrorum grammaticae et abati et docentium legere et scribere pueros. E talvolta sono le corporazioni di mestiere, come l'Arte della lana a Firenze, ad assumere maestri per i figli dei loro soci. Alcuni di questi maestri avranno prestigio, come Convenevole da Prato, che insegnò al Petrarca fanciullo: ma, come nel mondo antico, la loro professione poteva spesso sembrare una res indignissima. Il Petrarca ci ripete quanto abbiamo sentito in Floro: rimprovera Zenobio de Strata perché vuol fare il maestro: «Insegnino ai fanciulli quelli che non possono far di meglio..., che hanno una mente alquanto tarda..., un ingegno senz'ali... Osservino le mani instabili, gli occhi vaganti e il mormorar confuso dei fanciulli coloro che amano quel lavoro e la polvere e lo strepito e le grida miste a lagrime di chi geme sotto la verga, coloro ai quali è dolce rimbambinirsi..., a cui piace comandare ai minori, aver sempre chi terrorizzare, chi tormentare, chi affliggere, a chi comandare, da chi essere odiati e temuti» (Familiares, XII, 3). E così, pur tra reminiscenze classiche, ci dà un quadro realistico della scuola, dove regna l'eterno sadismo pedagogico, che ci sarà confermato poi da Bernardino da Siena: «Dio non vuol fare col bastone, come il maestro alla scuola» (Predica, XIV).
Non c'è differenza di ordine sociale tra questi maestri e i maestri artigiani, falegnami, orafi, carpentieri, tintori o altro: nessuna differenza nel loro rapporto con gli allievi, che ripete quanto abbiamo visto e gli Statuti delle arti fiorentine. Ecco, nel 1221 a Genova, il contratto con cui un padre "consegua" il figlio come apprendista presso un notaio: «Io, Giovanni di Cogorno, mi impegno a fare stare con te mio figlio Enrichetto per i cinque anni prossimi venturi, a servirti e ad ascoltare il tuo insegnamento, e ad istruire come meglio saprà i tuoi scolari, e a scrivere le scritture che gli ordinerai di fare... e a insegnare i libri che tu gli avrai insegnato e il salterio appreso ai tuoi ordini» (in G. Manacorda, 1913, 1, p. 140). E si impegna a non farlo fuggire e a restituirlo se fuggirà.: e pagherà un prezzo, come a un maestro di ogni arte. In cambio, l'apprendista passerà ad insegnare a sua volta ad altri apprendisti, e poi a esercitare l'arte notarile. Così in un documento fiorentino del 1313, un ragazzo, Giovanni di Salimbene, viene collocato come apprendista per apprendere a «legere et scrivere omnes litteras et rationes», cioè grammatica e abaco, presso il maestro Betta. Questa volta non si tratta di un mestiere colto, ma di apprendere «ad standum in apothecis artifìcum», cioè a stare in una bottega di artigiano (ivi, p. 147).
Questa preparazione scolastica nel leggere, scrivere e far di conto è importante soprattutto nelle professioni mercantili - banchieri o commercianti .-, come appare chiaramente da un libro di memorie (un genere letterario nuovo), di Donato Velluti, del 1342, sull'istruzione impartita al figlio per farne un mercante: «Puosilo a scuola: avendo apparato a leggere..., in poco tempo fu buon grammatico; puosilo all'abaco, e diventò in pochissimo tempo buon abachista; poi nel levai e... in una bottega di lana il puosi alla cassa.... e avendoli plesso in mano il libro del dare e dell'avere, il tenea, guidava e governava come avesse quarant'anni» (ibidem).
Qui ", grammatico" significa la nuova capacità di scrivere in volgare, utile per il mestiere; e l'abaco è diverso dal computo medievale, che serviva per il calendario liturgico, è la moderna computisteria. Risulta inoltre la separazione delle due scuole della grammatica e dell'abaco; la frequenza di una scuola come una "consuetudine della città"; e l'uso del lavoro infantile che può oggi apparire una forma di sfruttamento, ma sulla quale ci sarebbe invece molto da riflettere. Ma risulta soprattutto che, se nell'apprendistato delle arti non esisteva un luogo separato "scuola", qui il luogo separato esiste, almeno per un tempo breve, al quale subentra presto il tempo di lavoro.
Lo stesso identico curriculum scolastico e di mestiere troviamo narrato di Giannozzo Manetti, mezzo secolo più tardi: ma il suo caso ci dice anche altro. Iniziato il lavoro di mercante, egli presto rifletté che non c'era da acquistare gloria per sé e la famiglia, e allora «giudicò non c'essere mezzo alcuno se none nello studio delle lettere; e per questo assolutamente determinò, posposta ogni altra cura, di darvisi, essendo già di anni venticinque». Un caso eccezionale, che fece di lui uno dei principali oratori e storici di quella Firenze del primo Umanesimo, che si avviava a diventare la capitale culturale d'Italia e d'Europa. Ma è chiaro che non c'erano più soltanto i conventi o le università a spezzare il pane della scienza e ad aprire le vie della cultura. Del resto, anche a Venezia troviamo un mercante intento anche a una cultura disinteressata. E Simon Valentinis, che nel testamento lasciava scritto: « I miei figli siano mandati alle scuole, finché sappiano ben parlare letterariamente e bene scrivere; quindi siano mandati ad apprendere l'abaco, perché imparino ad occuparsi di commercio; e, se fosse possibile che essi imparino gli autori e la logica e la filosofia, mi sarebbe caro. (dove, logica sta per filosofia, e filosofia sta per fisica o scienze naturali): «Ma non facciano i medici o i giuristi, ma solo i mercanti» (in G, Manacorda, 1, 149). Per lui la cultura doveva servire non per lasciare la mercatura, ma per essere colti pur restando mercanti, come il figlio di Donato Velluti.
La mercatura aveva le sue pratiche e i suoi nuovi testi, opera di autori toscani. Dopo le innovazioni che il pisano Fibonacci aveva derivato dall'aritmetica degli arabi nel suo Liberabaci del 1202 e nella sua Practica geometrica del 1220, con la numerazione decimale, il sistema posizionale e lo zero, nella prima metà del Quattrocento Francesco Balducci Pegolotti pubblicava la sua Pratica della mercatura, e nel 1492 Luca Pacioli, anche lui toscano, pubblicava a Venezia la Summa de arithmetica. Nasce una scienza nuova della borghesia mercantile.