Faccia a Faccia: istituti professionali
e riforma Intervista a Fabrizio Eva Intanto, mi racconta come funziona oggi l'istituto professionale, visto che non se ne sente mai parlare? Il problema di fondo è esattamente questo: gli istituti professionali di Stato sono i grandi dimenticati; quando si parla della riforma si parla esclusivamente dei licei, mentre il 74% della scuola italiana è fatta da tecnici e professionali. Il vero cuore della scuola sono questi ragazzi. L'istituto professionale è stato l'unico settore della scuola italiana che ha avuto una riforma complessiva e organica, il progetto 92. Di fatto, quindi, oggi tutti gli istituti professionali hanno lo stesso tipo di impianto: nel biennio si dedicano 22 ore alle materie culturali e 14 ore alle materie professionalizzanti, come si dice, mentre nel triennio successivo il rapporto si ribalta. Alla fine della terza, è previsto un esame di stato. È una scuola impegnativa, basti pensare che si fanno 40 ore, molte di più di quelle che si fanno in un tecnico o in un liceo. E pensare che gli studenti che vengono qui sono quelli che non hanno voglia di studiare, che non riescono a concentrarsi per più di 15 minuti di fila Istituto professionale uguale scuola di serie C? Sì, perché è così che viene considerato. Alla fine della terza media c'è una ripartizione tra i tipi di scuola quasi esclusivamente in base alla classe sociale di appartenenza: al liceo vanno i figli dei ricchi e di chi ha ambizioni "alte", ai tecnici vanno i figli dei professionisti di medio livello, e ai professionali va chi è uscito con sufficiente dalle medie, chi non ha voglia di studiare, chi non sa cosa fare, chi non se la sente di fare cinque anni Negli istituti professionali c'è il tasso di selezione, dispersione e abbandono scolastico più alto di tutto il sistema. Gli studenti semplicemente smettono di venire, e smettono perché quello che si fa a scuola non interessa. I casi difficili per noi sono la norma: in una classe normale di un istituto professionale un terzo degli studenti è "difficile" - quindi è per definizione "contro" -, un terzo fa la "valigia", come dico io, nel senso che non fa nulla se non gli viene espressamente richiesto, e poi ci sono quelli che hanno qualche capacità, ostaggi della situazione. Generalmente, quando uno al liceo non va bene passa ai tecnici, se non va bene ai tecnici, passa ai professionali. Vengono da noi e vanno bene; hanno già avuto un'impostazione, sono abituati a studiare con metodo e regolarità, anche se al tecnico o al liceo non era sufficiente, per noi, per il tipo di lavoro teorico che chiediamo, sì. Questo è positivo, significa per loro aver riconquistato il gusto del successo, la consapevolezza del proprio valore. Così questi studenti mantengono delle medie piuttosto alte e riescono anche ad andare all'università. Fanno magari fatica, ma vanno avanti. Quindi l'istituto professionale non ha una sua identità forte come scuola, non viene scelto con cognizione di causa, come strumento per realizzare un progetto preciso No, in genere è la scuola di risulta. Del resto, lo pensano anche molti degli insegnanti, o meglio sentono di essere in una scuola non considerata. Eppure, nello stesso tempo, è una scuola che anche agli insegnanti richiede molto più spirito di sacrificio. Bisogna mettersi sempre in gioco continuamente ed è veramente molto pesante, e i risultati spesso non sono comunque soddisfacenti. Si dice sempre che dobbiamo abbassare il livello. Dobbiamo negoziare. Per primi noi insegnanti ci siamo chiesti quali sono i nodi concettuali, quali sono le cose imprescindibili, che lo studente deve assolutamente sapere. E poi si sfronda. Non si riesce ad avere 30 minuti di attenzione. Dobbiamo arrivare al cuore del problema ed essere sicuri che questo sia stato colto. Il contorno se lo farà lo studente, sulla base delle proprie capacità, quando andrà a lavorare. Che rapporto c'è oggi con il mondo del lavoro? La legge che regola il rapporto tra gli istituti professionali e le aziende esiste da molti anni, ma fino ad alcuni anni fa non veniva applicata. Le classi terze e le classi quinte devono fare 15 giorni di stage in azienda. Durante questi 15 giorni, lo studente smette di venire a scuola e lavora da sei a otto ore. Lavora; verifica personalmente quali sono le condizioni di lavoro, quali sono le cose richieste, si confronta con il mondo reale, con un datore di lavoro reale che ha comportamenti normali. Una "normalità" spesso ben più dura della scuola, ma che ha un senso di utilità più evidente. La gran parte degli studenti, anche i più refrattari, si comporta bene ed ha discreti giudizi. Perché prima non veniva applicata questa legge? Per molti anni, abbiamo fatto fatica a trovare aziende disponibili e così questi stage venivano sostituiti con approfondimenti teorici. Negli ultimi 5-6 anni c'è stato un cambiamento significativo. Ci sono stati anche una serie di accordi - la Bassanini-Treu per esempio- tra sindacati e datori di lavoro che hanno facilitato questo percorso, che hanno introdotto l'idea della formazione sul luogo di lavoro. Insomma, si è creato il clima giusto; da una parte lo stage viene visto dall'imprenditore come un dovere etico, e dall'altra si è reso conto che questo è un ottimo strumento per vedere direttamente all'opera dei giovani e scegliere futuri dipendenti, senza rischiare troppo. Il paradosso è che l'azienda sa che in realtà dal punto di vista strettamente professionale il ragazzo ha ancora tutto, o quasi, da imparare, ma ha potuto valutare lo studente, soprattutto la sua capacità di integrarsi, di inserirsi in certe dinamiche di rapporto, può fare una scelta a ragion veduta. Almeno un 5% degli studenti si conquista così il primo posto di lavoro. Alcuni studenti degli ultimi anni lavorano già il pomeriggio presso queste aziende. Un bilancio positivo quindi Sì, questo tipo di istituti ha elementi di grande dinamicità. Che cosa porta di nuovo la riforma Moratti? Nulla. Quella della Moratti semplicemente non è una riforma. Viene sbandierata la possibilità di passare da un istituto all'altro, ma questo avviene già. Si parla di percorsi flessibili, ma noi da anni, grazie all'autonomia scolastica, stiamo facendo recuperare anni. Tutto quello che viene così pomposamente annunciato è in realtà già previsto e fattibile. Piuttosto, spiace l'approccio retorico a questi temi: perché se è vero che i passaggi sono possibili, io finora ho sempre solo visto studenti che dal liceo passavano ai tecnici e poi dai tecnici ai professionali, non è mai accaduto il contrario e non è pensabile che accada. Il sistema, così com'è strutturato, consente una caduta dal liceo, al tecnico, al professionale. La novità della riforma Moratti è l'irrigidimento di questo sistema, la scelta dell'istituto da frequentare in base alla classe sociale di provenienza. Quindi nessuno studente dei professionali si è mai pentito della sua scelta, nessuno ha mai espresso il desiderio di passare ai tecnici o al liceo Pochissimi hanno aspirazioni verso l'alto. Io in 25 anni di insegnamento ho avuto 4 studenti che sono passati ai tecnici, nessuno che sia passato ai licei. Non è che si pentano della scelta, del tipo di scuola. Si pentono di essere a scuola, ecco qual è il punto. Il conflitto è spesso con i genitori, che magari li indirizzano verso un istituto professionale commerciale, mentre loro avrebbero voluto fare un percorso ancora più professionalizzante: l'estetista, il grafico Noi non riusciamo certo a soddisfare il loro desiderio di praticità. Cosa fare per dare più identità? Il collegamento con il mondo del lavoro dovrebbe essere un punto di forza, perché è un principio di realtà. Fin dalle prime classi. Il rapporto con il lavoro darebbe un senso di realtà; è come dire ai ragazzi: "vedete, quello che facciamo ha un corrispettivo, tenete presente che quando si lavora bisogna fare appello a tutte le qualità personali e quindi non ci si può più comportare come fate a scuola". A dire il vero io lo stage lo farei fare anche ai liceali. Punterei sull'autonomia. Perché in realtà l'autonomia la Moratti la vuole fino a un certo punto: è un'autonomia condizionata quella che ha in mente. E poi bisogna combattere questo pregiudizio nei confronti del sapere concreto, un pregiudizio molto radicato anche nella sinistra maggioritaria. Si spieghi meglio La
sinistra ha sempre visto, giustamente, nella cultura il mezzo della promozione
sociale. È vero, ma è solo parziale, in realtà è
anche saper fare, saper produrre materialmente che promuove. Su questo,
che è un argomento centrale, è mancata una riflessione seria.
Non siamo stati in grado di produrre un modello, di spingere per una riqualificazione
vera dell'istituto professionale, della scelta dell'istituto professionale
e dunque anche un adeguato cambiamento della sua struttura. In nome di
quella finzione per cui la nostra scuola dà uguale diritti e possibilità
a tutti, mentre non è così. L'amaro è vedere che
i figli degli operai non sono solo sempre meno consapevoli che la scuola
è un'occasione di riqualificazione sociale, ma che addirittura
la rifiutano in quanto tale. |