Le stagioni della politica scolastica: i nuovi cicli, tra Luigi e Letizia

 


Riforme in “stand by” 1

 

    Dopo una primavera fredda (nel senso di una accoglienza poco più che tiepida delle proposte di attuazione della riforma dei cicli, predisposte dal Ministro De Mauro), dopo la gelata estiva (con la sospensione dell’avvio della scuola di base settennale disegnata nella legge 30/2000 e di alcuni decreti correlati - sulla formazione dei docenti della scuola di base, i nuovi orari per le superiori, lo sviluppo qualitativo della scuola dell’infanzia) ci si interroga, ora, sulla temperatura della prossima stagione delle riforme. Sarà un autunno “caldo”, come sembrano preconizzare talune dichiarazioni estive sul rapporto pubblico-privato, sulla revisione delle molte riforme degli scorsi anni ? o prevarrà la ricerca di uno spirito “bipartisan” almeno sulle grandi scelte da compiere, in merito all’assetto generale del nostro sistema formativo ? Ci riferiamo, in particolare, al destino del “riordino dei cicli” (oggetto di forti polemiche non solo elettorali) per affrontare il quale è stata recentemente nominata una commissione di 6 esperti (presieduta dal prof. Giuseppe Bertagna), che ha il compito di procedere ad un lavoro di approfondimento e di scavo tra le diverse ipotesi in discussione, per consentire al Ministro Letizia Moratti di uscire allo scoperto con una propria proposta sufficientemente validata. Senza interferire con i lavori del gruppo di esperti (i cui esiti saranno resi pubblici nel tardo autunno) è utile affrontare i “nodi” delle questioni, a partire dall’unico documento ufficiale che oggi abbiamo a disposizione, cioè le comunicazioni del Ministro della P.I. alle Commissioni P.I. di Camera e Senato nel luglio 2001.

 

Le posizioni in campo

 

    La delineazione di un percorso formativo unitario dai 3 ai 18 anni, potenzialmente rivolto a tutti i cittadini, anche se con progressive articolazioni e differenziazioni, rappresenta un’idea non facile da accantonare. L’ipotesi è corroborata da documenti europei (valga per tutti “Insegnare e apprendere nella società della conoscenza” del 1996) che hanno stimolato nuove idee in merito ad una formazione lungo tutto l’arco della vita. E’ in gioco non solo la configurazione di un nuovo ordinamento scolastico, ma piuttosto la prospettiva di un sistema di formazione molto esteso, da integrare (dalla formazione di base all’istruzione superiore, dalla formazione professionale all’educazione degli adulti). L’idea, contenuta “in nuce” negli accordi con le parti sociali dell’autunno 1996 (Accordo per il lavoro), ha poi avuto diverse realizzazioni normative, dall’estensione dell’obbligo scolastico fino ai 15 anni (Legge 9/99) all’istituzione dell’obbligo  formativo fino ai 18 anni (Legge 144/99), per trovare una sistemazione ampia nella legge di riordino dei cicli e nella riforma dei curricoli universitari. Come è noto, mentre la riforma universitaria (il cosiddetto 3+2) è in fase di attuazione, l’attuazione della legge 30/2000 è sospesa. 

    Tuttavia, l’esigenza di una riforma d’insieme dell’intero sistema scolastico (e non di semplici ritocchi) appare una priorità anche per il nuovo Esecutivo (stando alle dichiarazioni parlamentari del Ministro), anzi la riforma viene rimotivata con una “diagnosi” ancora più severa dei punti di crisi e di improduttività dell’attuale assetto. E’ possibile che ad una sostanziale analogia nelle diagnosi (bassi livelli culturali, scarsa produttività negli esiti terminali, sottovalutazione delle qualificazioni tecnico-scientifiche-professionali) corrispondano ipotesi e soluzioni molto diverse. Un punto di condivisione sembra però riguardare l’esigenza di anticipare l’uscita dal sistema scolastico a 18 anni, per un indispensabile raccordo con il termine dell’obbligo formativo, una opportuna comparabilità con i modelli europei ed un più funzionale rapporto con l’istruzione superiore (non solo di tipo universitario) ed il mercato del lavoro.

 

Oltre la legge 30/2000 ?

 

    Questa opzione implica comunque l’esigenza di ridefinire gli assetti dell’intero sistema scolastico, trovando un punto di cesura su cui intervenire per “assorbire” la minore durata del percorso scolastico. Nella legge 30/2000 tale punto era stato trovato nel compattamento “settennale” di scuola elementare e scuola media nel ciclo di base, ricollegandosi a modelli europei simili, ad una tradizione pedagogica sperimentale italiana (seppur minoritaria), ad una ipotesi di “elevamento” culturale e professionale del profilo del maestro elementare. La rapida diffusione degli istituti verticali, nonché la riforma dei curricoli universitari per la formazione degli insegnanti di base (con un comune e più impegnativo percorso) sembravano dar ragione della “naturalezza” di questa ipotesi. La riforma dei cicli, su questo punto, è stata invece considerata alquanto “giacobina” e quasi uno strappo alle nostre migliori tradizioni pedagogiche. Si sono manifestate molte resistenze ed ostilità. L’accusa di un metodo troppo sbrigativo ed incurante delle diverse posizioni in campo si è accumulata con il peso negativo degli inconvenienti connessi alle fasi di avvio della riforma: l’onda anomala (per il sovrapporsi –temporaneo- di due leve di età), la indisponibilità di strutture idonee e funzionali (con un processo di completa “verticalizzazione” ancora tutto da imbastire), le incognite della gestione del personale in esubero (con messaggi non sempre rassicuranti per gli insegnanti).

    Ma sulle difficoltà della riforma ha pesato negativamente soprattutto una pregiudiziale, per così dire, di carattere emotivo e psicologico: la percezione che la scuola di base comportasse la messa in discussione presso gli insegnanti di professionalità e di identità acquisite, solide, socialmente riconoscibili. In particolare, per i colleghi della scuola media, la scuola di base è stata vissuta come una smentita al loro status, l’ombra di un “declassamento” al ciclo primario. Naturalmente sono affiorate resistenze anche assai meno nobili. Il disagio è stato a lungo sottovalutato, anche nelle ipotesi di articolazione del settennio (pensato troppo con il “know-how” della scuola primaria) e nei modelli professionali proposti ai docenti.

    Non a caso in Spagna l’iniziale istituzione di una escuela generale basica (di 8 anni, seguita da 4 anni di scuola secondaria) è stata sostituita da un sistema più articolato (6+4+2) anche per far fronte a questa percezione: i docenti si sono sentiti rassicurati, anzi, promossi verso l’alto, dall’essere collocati in una scuola secondaria, sia pure intermedia e dell’obbligo. Questi fattori di rassicurazione del personale (e dei genitori) non potranno essere trascurati da chi si propone di intervenire sullo scacchiere delle riforme (e non necessariamente la ricerca del “consenso” corrisponde a soluzioni minimaliste o di basso profilo).

    E’ prevedibile che il dibattito dei prossimi mesi si focalizzi su alcune alternative possibili: ritornare alle certezze dei segmenti scolastici a forte identità, ma anche nettamente distinti, nei loro pregi e difetti (la scuola materna, quella elementare, quella media, quella superiore, ecc.); oppure accettare la sfida di un ripensamento complessivo dell’intero percorso di istruzione e formazione, magari per far fronte all’impegno (che sembra condiviso) di un uscita dal sistema scolastico a 18 anni.

    I punti caldi del dibattito graviteranno certamente attorno alla configurazione del ciclo di base (differenziato ? unitario ? da integrare gradualmente ?) ed alle scelte in uscita dall’obbligo (a quale età completare l’obbligo ? in quali strutture –scolastiche e formative- spendere l’obbligo ? quanta “canalizzazione” introdurre nel sistema ?). Questioni non semplici che richiederanno un atteggiamento di forte sensibilità e disponibilità ad uscire da posizioni “di bandiera”.

 

L’istituto comprensivo: laboratorio per il curricolo verticale

 

    Le necessarie mediazioni (ed è conveniente pensare alle riforme della scuola con animo “bipartisan”) dovrebbero scaturire da una migliore capacità di leggere le dinamiche reali in atto nelle scuole, per accompagnarle e potenziarle. Ad esempio, sul versante della formazione di base, nell’attesa che le scelte politiche e culturali si traducano in progetti di legge (è ormai certo un processo di revisione legislativa della legge 30/2000) ed in soluzioni operative sarebbe saggio far “scendere in campo” i 3200 istituti comprensivi oggi funzionanti (pari al 43 % del totale delle scuole di base). Se è vero che le riforme più efficaci sono quelle che scaturiscono dai processi reali, dalle motivazioni delle persone, dagli incentivi a migliorare le condizioni di lavoro e di insegnamento, allora il pianeta istituti comprensivi si presenta come un laboratorio di indubbio valore. Non è solo in questione un modello di ingegneria istituzionale, ma soprattutto un’ipotesi di legame con il territorio, di arricchimento delle professionalità, di studio e innovazione curricolare.

    Approfittando del contesto “verticale”, gli istituti comprensivi possono ormai realizzare una ricerca più mirata sul curricolo, da articolare per obiettivi formativi e competenze, secondo quanto affermato dal Regolamento per l’autonomia organizzativa e didattica (Dpr 275/99). E’ una scelta che implica:

-         la selezione e scelta di contenuti e temi essenziali, attorno ai quali avviare una progressiva strutturazione delle conoscenze;

-         l’individuazione di abilità strumentali (gli automatismi) e procedurali, che consentano poi di sviluppare progressivamente strategie di controllo del proprio apprendimento;

-         la messa in luce di atteggiamenti, motivazioni, orientamenti che invitano i ragazzi a diventare progressivamente responsabili della propria “voglia di apprendere”.

  Tutto questo rende necessario far pesare di più le caratteristiche degli allievi (le loro diversità, i loro stili, le loro potenzialità). In questa prospettiva l’articolazione lunga del curricolo consente di accompagnare l’alunno lungo il percorso formativo, innestando la progressiva differenziazione dei compiti di apprendimento su una più solida base conoscitiva. In questa ottica l’istituto comprensivo consente di analizzare la dinamica tra aspetti “primari” (contestualità e integrazione) e aspetti “secondari” (distanziamento e differenziazione) dell’insegnamento, offrendo un contributo decisivo utile a diradare l’impressione che un percorso formativo di base possa essere associata all’idea di una elementarizzazione della proposta formativa, ad un impoverimento del livello culturale oggi in qualche modo presidiato dall’attuale scuola media (scuola secondaria di I° grado).

 

Incentivare la cultura della formazione di base

 

    Non è però sufficiente attendere con fiducia che gli istituti comprensivi maturino i loro frutti a beneficio dell’innovazione dell’intera scuola italiana. Occorre incentivare questo processo, se lo si ritiene significativo, proponendosi di generalizzare “in verticale” la configurazione delle scuole di base italiane (del resto, questa è una scelta che è demandata, ormai, ai poteri locali).

    Lo Stato dovrebbe segnalare questa opportunità ai decisori locali, spesso animati da logiche dal respiro molto più corto, e mettere in campo significativi incentivi per gli istituti comprensivi:

 

a)     un organico funzionale di istituto, non più separato per ordini e gradi scolastici, ma con una logica unitaria: il “posto in più” di cui un istituto potrebbe usufruire sarebbe, evidentemente, orientato a sostenere la progettualità integrata (laboratori, anni ponte, esperienze di team, ecc.); ogni scuola dovrebbe avere la massima libertà nel cercare e trovare gli assetti curricolari più appropriati (percorso ottennale integrato, oppure articolato per bienni, focalizzato sullo snodo 5^ elementare-1^ media, o altre possibili soluzioni);

b)     un’attività di ricerca assistita sul curricolo verticale, con corredo di formazione e consulenza. Questioni “calde” come il curricolo di storia, che sono state oggetto di profonde discussioni, potrebbero trovare punti di compensazione, ricerca, attuazione proprio nelle buone pratiche dell’istituto comprensivo; l’insegnamento della storia, nella sua accezione sistematica, intesa cioè come “sistemazione” cronologica di fatti ed eventi e ricostruzione di quadri di civiltà, potrebbe essere collocata nell’ultima parte del percorso di base, per liberare energie –nei primi anni- per un approccio più attento agli aspetti narrativi, al gusto per le domande da rivolgere al passato, al primo incontro con oggetti, documenti, rappresentazioni;

c)      un partnariato più intenso con gli enti locali, rendendo cogenti quei patti educativi territoriali (previsti dalla legge istitutiva dei comprensivi, la n. 97/1994) che oggi sono invece lasciati alla libera discrezione dei contraenti. Lo Stato, ad esempio, potrebbe accreditare finanziamenti aggiuntivi pari almeno a quelli messi a disposizione dai Comuni, così incentivando e riconoscendo una più fattiva collaborazione delle comunità locali allo sviluppo della scuola.

 

Giancarlo Cerini

In corso di pubblicazione sulla rivista del Cidi di Milano "Form/azione"

 

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