Relazione introduttiva al 36° Convegno Nazionale del CidiRoma, 16 marzo 2007
SCOMMETTERE SULLA SCUOLA di Sofia Toselli
Titolo banale, è vero, chiaro, però, in quel che vogliamo dire. Dobbiamo forse esplicitare i soggetti, coloro che devono scommettere sulla scuola: e cioè le forze politiche, il governo, gli enti locali, le regioni, il mondo produttivo, gli insegnanti, gli studenti, i genitori. Insomma, il Paese tutto Perché se non ricominciamo dalla scuola, scommettendo davvero tutti sulla scuola, sulla sua capacità di includere, di dare istruzione di qualità, di educare alla cittadinanza, di essere leva di sviluppo democratico e produttivo non andremo lontano. Forse serve anche esplicitare che cosa per noi voglia dire scommettere sulla scuola: - vuol dire mettere la scuola al centro del programma e dell'azione dei governi, concentrandovi idee, proposte, energie - investir vi risorse economiche consistenti - avviare politiche conseguenti anche nei territori - avere il coraggio di fare cambiamenti, quelli che servono, però, non quelli formali e appariscenti che non toccano la qualità e l'efficacia del fare scuola - vuol dire destinare alla scuola, al suo governo, alla sua gestione, direzione, all'insegnare gli uomini e le donne migliori.
Il perché sta nella sfida dura e complessa che la modernità ci pone e che ci dice che gli individui, perché non siano spazzati via dalla velocità dei cambiamenti in corso, dalle nuove tecnologie, dalle richieste del mondo del lavoro, devono possedere più conoscenze, più sapere, più competenze. Il perché sta in quello che da Delors in poi dice l'Europa: che il sapere diffuso farà la differenza, migliorerà la vita delle persone, risponderà al bisogno di coesione sociale, ma anche alla sfida della competitività internazionale.
Il perché sta, in Italia, in quei 6 milioni di adulti ancora analfabeti, in quei 15 milioni di semianalfabeti, negli altri 15 milioni a rischio di ripiombare, in poco tempo, in tale condizione (sono dati ULNA, ed è inutile ricordare i dati dell' OCSE-PISA, dello IALS). Inutile ricordare il numero dei nostri laureati ancora troppo scarso rispetto a quello degli altri paesi europei, così come è inutile richiamare l'ultimo rapporto ISTAT che ci consegna l'immagine di una paese fermo, tragicamente fermo , nella scala della mobilità sociale. Il perché sta nel bisogno di ritrovare senso e significato al nostro agire quotidiano recuperando, attraverso gli strumenti della conoscenza, la caduta etica e civile che sembra esserci nella nostra società. Il perché, infine, sta in una consapevole scelta di campo, in una idea precisa di società e di progresso che vede nel nesso istruzione-sviluppo-democrazia la scommessa più importante per il futuro. Insomma, come dicevamo al convegno dello scorso anno: acquisire un apprendimento solido e persistente è un fatto di straordinario valore, è un bene per il singolo e una risorsa per la collettività. E far studiare tutti, conviene davvero a tutti. I dati della Banca d'Italia in uno studio recente ci dicono che l'assenza prolungata di istruzione produce notevoli danni sociali e, conseguentemente, ripercussioni negative di carattere economico ben più onerose di quanto sia l'investimento per la scolarizzazione. (www.bancaditalia.it). Sostenere, perciò, che la scuola sia il principale strumento per la crescita civile, etica ed economica del nostro Paese non è solo una bella formula retorica E' la verità. Oggi abbiamo un obbligo di istruzione di 10 anni: " L'istruzione impartita per almeno 10 anni è obbligatoria " ( recita l'art. 1 al comma 622 della legge finanziaria 2007). Evento di straordinaria importanza per il Paese che chiama il Paese ad uno sforzo collettivo per una ulteriore crescita del livello di istruzione della popolazione, non dissimile da quella realizzata con l'attuazione della scuola media unica del '62. Il provvedimento, che coinvolge tutti i docenti, non solo quelli della scuola superiore avrà alla lunga un impatto sociale e culturale molto forte, perché non riguarderà soltanto i giovani quattordicenni fino ad oggi non interessati a proseguire gli studi, ma l'intera popolazione scolastica . Ma ci vuole poco a capire quali difficoltà dovranno essere superate per avviare, concretamente, in tutto il sistema scolastico, quei cambiamenti necessari a mettere le scuole in condizione di affrontare i nuovi compiti: responsabilizzare i dirigenti, motivare gli insegnanti, coinvolgere genitori e studenti. Sarà un compito che richiederà forte motivazione e impegno da parte della scuola, sicuramente, ma anche da parte della politica, del governo, dell'amministrazione, dei territori, che hanno il dovere di mettere a punto le misure necessarie ad affrontare e sostenere il nuovo impegno. Certo, cercare di guadagnare al biennio della scuola superiore - un biennio unitario, non unico - tutti i ragazzi, a fronte della possibilità per i più deboli di frequentare percorsi non scolastici - pur nell'ambito della lotta alla dispersione, pur in strutture accreditate - dovrebbe assumere per noi insegnanti il senso di un rinnovato impegno democratico, un valore aggiunto al nostro fare scuola quotidiano. E' difficile, lo so, ma noi sappiamo - ed è questo il senso del nostro lavoro - che una società migliore, più giusta, più solidale, più libera, più democratica, capace di dare senso e futuro ai nostri figli, passa innanzitutto attraverso gli strumenti della cultura, dell'istruzione, di un'alfabetizzazione diffusa tra tutti gli strati della popolazione
La dispersione Molti sostengono - e questo è il motivo per giustificare la necessità di spendere l'obbligo nella formazione professionale - che la scuola così com'è non riuscirà a trattenere tutti i ragazzi, proprio perché è la scuola che non li motiva, è la scuola che li disperde, è la scuola che li spinge fuori del sistema. E questo in parte è vero: oggi aumenta il fenomeno della dispersione, lo confermano i dati: ripetenze, abbandoni, promozioni che non corrispondono all'acquisizione degli strumenti culturali necessari per vivere, lavorare, continuare a studiare: quello che il Censis anni fa chiamava il fenomeno della dissipazione culturale. Tornano - se mai erano scomparsi - fenomeni di evasione scolastica ( abbiamo letto in questi giorni dei bambini di Avellino). Insomma migliaia di ragazzi e ragazze esclusi dal circuito della cultura. Mentre l'art. 3 della Costituzione affida alla Repubblica, e cioè alle scuole della Repubblica, il compito di rimuovere gli ostacoli che consentono la pari partecipazione delle persone alla vita sociale e politica del Paese. Non è sufficiente allora che la scuola sia pubblica, laica e accogliente per essere inclusiva. Queste sono condizioni necessarie ma non sufficienti a determinare il successo e la qualità. Dobbiamo perciò fermarci tutti e capire tutti insieme, con lucidità e coraggio, senza timori e reticenze, il perché di tanta educazione mancata.
Paradosso della modernità: a fronte di una aumentata richiesta educativa (aumentano gli alunni che frequentano la scuola), a fronte delle maggiori richieste che la società rivolge alla scuola, abbiamo un numero crescente di fallimenti scolastici e di insuccessi. E dobbiamo capire - non solo il perché di tanta educazione mancata - ma quanto tutto ciò sia imputabile alla scuola e quanto ad altre cause. E' solo questione di pratiche didattiche più o meno adeguate? Di scarse competenze e motivazione degli insegnanti? Io non credo! E' vero, talvolta la scuola non riesce a dare risposte a tutti i bisogni educativi degli alunni: né di quelli bravi né di quelli in difficoltà. Ma è vero o no che la scuola è rimasta sola ad affrontare, in condizioni sempre più difficili, gli effetti e la deriva di una società che non sapendo dare risposte al malessere dei giovani ha scaricato tutti i problemi agli insegnanti? E vero o no che aumentano ogni giorno le richieste e le domande che la società rivolge alla scuola, mentre cade nei giovani ogni principio di autorità (così ben descritto nel libro L'epoca delle passioni tristi ) e cade tutto intorno il rispetto per le istituzioni, per le regole, l'idea stessa che la cultura sia un valore e la scuola una grande opportunità! Ma la scuola puo' farsi carico di tutti i problemi del mondo? Li riflette, certo. Entrano nelle aule scolastiche e ci deve fare i conti. Ma non può rispondere di tutto.
Oggi assistiamo a un accrescimento dell'area del disagio giovanile, delle difficoltà di apprendimento e di comportamento. Pensiamo al bullismo, fenomeno di cui oggi tanto si parla: ma quale lettura ancora attende? Di quale risposta ha bisogno? E da quanto tempo la scuola inascoltata ne denuncia il peso? E oggi i giornali, la televisione scoprono il bullismo: e si fa a gara e si fa presto a dire: la scuola! Raramente la famiglia, mai la politica. Una politica che da troppo tempo non ha più azioni, idee e spazio per i suoi giovani . Che da troppi anni non investe e non scommette con convinzione sulla scuola. Mentre alle vecchie povertà si aggiungono le nuove: regalo di una modernità senza anima che estende l'area del disagio giovanile ad una popolazione scolastica sempre più ampia, che raccoglie anche una moltitudine - destinata a crescere - di migranti. Altro fenomeno con cui la scuola deve fare i conti, verso cui la scuola si apre, per cui la scuola si rimette in discussione, di cui la scuola si fa carico. Ricchezza e opportunità - siamo d'accordo -, ma dove sono i mediatori culturali? Dove sono gli spazi e l'uso intelligente delle risorse umane e materiali, specie in quelle scuole dove il fenomeno è più evidente? Dove sono soprattutto le anagrafi che i territori avrebbero dovuto fare per censire la popolazione in età scolare? E poi l'integrazione dei diversamente abili : abbiamo la normativa più civile e avanzata d'Europa, ma da anni si riducono le risorse e si tagliano gli insegnanti di sostegno, mentre aumenta il numero dei ragazzi per classe. Ecco perché l'innalzamento dell'obbligo di istruzione se non è al tempo stesso l'occasione per rivedere tutto il funzionamento del sistema, (il suo impianto culturale e didattico, la sua proposta pedagogica, gli orari, il numero di alunni per classe, la politica degli organici) noi corriamo il rischio di perdere una grande opportunità: quella di far corrispondere ai due anni in più di istruzione migliori esiti di apprendimento per tutti i bambini e i ragazzi dai 3 ai 19. E avremo aggiunto ai vecchi problemi della scuola i nuovi. E al tempo stesso l'innalzamento dell'obbligo di istruzione deve essere l'occasione per dire una parola chiara e definitiva sui tanti centri di formazione professionale che pullulano nel nostro Paese, che vivono sulla pelle dei ragazzi, specie in alcune zone del mezzogiorno. L'occasione quindi per censire, verificare e -dove necessario- chiudere! Il governo perciò dovrà dispiegare tutto il peso di cui dispone per realizzare l'obiettivo primario dell'innalzamento dell'obbligo e - a partire da questo - del funzionamento complessivo del sistema scolastico e formativo. Certo, ora l'istruzione e la ricerca sono al secondo punto dei 12 stabiliti da Prodi dopo la crisi di governo. Ma solo la prossima Finanziaria ci potrà dimostrare se alle intenzioni corrisponderanno i fatti. E lo vedremo dalla capacità di ascolto che la politica saprà mettere in campo rispetto a ciò che la scuola potrà dire e suggerire. Vedremo quali luoghi di confronto saprà costituire e quanto incideranno sulle scelte future il pensiero e l'esperienza della scuola. Senza pensare che la scuola marcia con le logiche della politica, che riproduca gli stessi schemi: o nero o bianco, o riformisti o sinistra radicale! Le ragioni della scuola non subiscono i venti della politica: i nostri bambini, i nostri studenti guardano il mondo con altre lenti. Siamo convinti che alla scuola non serve la grande riforma ma importanti innovazioni, accompagnate da azioni conseguenti e coerenti. E serve coinvolgerla la scuola, farla sentire partecipe nell'azione di cambiamento per raccogliere - come esperienze, potenzialità umane, tradizione culturale - la sua parte migliore. Insomma da qualsiasi parte si voglia incominciare, in qualsiasi modo si vogliano aggredire i problemi (e sono oggi diventati tanti), questo è il momento. Bisogna starci nelle scuole per vederli. Bisogna starci nelle aule per capire i dubbi e le incertezze in cui oggi si dibattono gli insegnanti. Oggi è difficile anche parlarne, per l'incertezza e l'instabilità del quadro politico, per la complessità delle questioni che emergono, a fronte di una categoria disorientata, spesso demotivata, che si percepisce sola e impotente. Sia chiaro: riteniamo che la discontinuità con il precedente governo sia stata segnata in maniera netta , moltissimo si è fatto dal punto di vista normativo. Oltre l'obbligo di istruzione, voglio ricordare (per citare solo i provvedimenti più direttamente avvertiti dalle scuole): la sospensione dei decreti relativi al secondo ciclo; la riforma degli esami di Stato; la nota alle scuole del 31 agosto. Quella nota che ridette ossigeno e fiducia agli insegnanti e che sinteticamente diceva: no tutor, no portfolio, no indicazioni nazionali. E ricordo: la difesa forte e reiterata della scuola pubblica, tornare a sentir parlare di autonomia della scuola e dei docenti, di curricolo, di corresponsabilità dell'azione didattica: tutte cose da noi apprezzate e da noi sottolineate positivamente. Poi però la circolare sulle iscrizioni ci tolse il sorriso: in materia di anticipo, di tempo scuola, di indicazioni nazionali quella circolare ripropone una scuola dalla quale volevamo in fretta allontanarci: una scuola con l'orario "spezzatino", ridimensionato alle sole 27 ore obbligatorie nella sc. elementare e a 29 nella scuola media, con il ripristino delle attività facoltative. E sugli anticipi mantiene i 4 mesi per la sc. elementare e i 2 mesi per l'infanzia. E tace sulle sezioni Primavera. E poi, la progressiva riduzione del tempo pieno , per una miope politica di riduzione degli organici che azzerando le compresenze, azzera una delle esperienze didattiche e pedagogiche più importanti e significative che la scuola ha prodotto, che le famiglie hanno richiesto, perché il tempo pieno è stato, ed è, un ambiente di vita e di apprendimento a misura di bambino. Già, la politica dei tagli. La scuola è disposta - e lo ha dimostrato - a fare la sua parte per risanare il Paese, per razionalizzare la spesa, per lottare contro gli sprechi ma vorrebbe vederli reinvestiti nella scuola quei risparmi! Avrebbe voluto vedere, per esempio, che in quella parte della finanziaria destinata allo sviluppo del Paese una voce forte di investimento fosse proprio la voce scuola ! Ma così non è. Tornando al quadro normativo, riteniamo importante, tra i provvedimenti contenuti nel cosiddetto pacchetto Bersani, quello sui poli tecnico-professionali postdiploma per promuovere la cultura scientifica e tecnica e - perché no - per creare un settore alternativo e competitivo all'Università; così come riteniamo importantissimo avere riportato gli istituti tecnici e professionali alle competenze dello Stato . Ma bisogna stare attenti a non fare, oggi, di questo settore dell'istruzione, un settore "vocazionale" rivolto esclusivamente al "fare" e al lavoro. Ricordiamoci che l'area più vasta della dispersione scolastica riguarda proprio il biennio dei tecnici e dei professionali. E allora diamo cuore e sostanza alle norme e andiamo al nocciolo del problema: costruiamo - a partire proprio dai tecnici e dai professionali - i nuovi bienni: - i quadri orari, non sono sostenibili le 40 ore in nessun biennio; - l'area comune e di indirizzo, senza gerarchizzare gli indirizzi, agevolando anzi i passaggi; e armonizzando pezzi di scuola diversi ( media e biennio ) pensati - molto tempo fa- per fini diversi e in tempi diversi; - riduciamo il numero di insegnanti per classe: non è funzionale alla crescita dei ragazzi e al miglioramento degli apprendimenti lo spezzettamento delle materie e degli insegnamenti; - riduciamo il numero di ragazzi per classe specie nei passaggi più critici: elementare/media ; media/biennio; - e rivediamo l'orario di cattedra: abbiamo consapevolezza di quali conseguenze negative abbia avuto nella scuola superiore in termini di continuità e di qualità della didattica un orario portato dal ministro Moratti a 18 ore, se non a 20 o 21? - costituiamo una bella riserva di docenti per l'organico funzionale per coordinare le esperienze e le iniziative didattiche capaci di combattere la dispersione, di intercettare gli interessi e le attese di tutti. - facciamo una proposta intelligente agli insegnanti di formazione in servizio . Quella formazione che attende ancora un riconoscimento nei contratti di lavoro, perché lo studio, l'aggiornamento, la ricerca, la sperimentazione, la cura insomma della propria professione sia considerata un valore. Chiediamo per questo ai sindacati della scuola di tutelare e di far crescere questa dimensione. Trovando un modo o modi sapienti per ottimizzare , senza gerarchizzare, la funzione dei docenti. Diventare "bravi" insegnanti - bravi sul piano della didattica, sul piano dell'insegnare ad apprendere - non è un fatto automatico: richiede studio, ricerca, aggiornamento, impegno costanti, tanto impegno che deve trovare le strade per essere riconosciuto, valorizzato, retribuito. Perché va sicuramente riconosciuto, valorizzato, retribuito l'impegno di chi spende il suo tempo per migliorare l'organizzazione della scuola, per farla funzionare ogni giorno (lo staff del preside), ma va trovato il modo per riconoscere, valorizzare e retribuire l'impegno di quei docenti che hanno scelto, per esempio, di insegnare meglio la loro disciplina o di coordinare la ricerca e il lavoro dei dipartimenti disciplinari o degli ambiti disciplinari. - Alimentiamo la cultura dell'autonomia: quella vera però, quella che serve a garantire il successo e l'inclusione, a migliorare le pratiche didattiche, a conseguire risultati, i migliori risultati possibili, per tutti. Ci siamo chiesti mai perché l'autonomia, legge e regolamento dal '99, non è diventata ancora cultura diffusa nelle scuole? E' solo colpa dei cinque anni del ministro Moratti? Io non credo. Penso piuttosto che siano mancate le condizioni per esercitare davvero l'autonomia, che è -insieme- autonomia di ricerca e di sperimentazione e autonomia didattica e di organizzazione: ma dove sono gli spazi, i tempi, le modalità, gli incentivi che trasformano le scuole in laboratori di pensiero, di progetto, di pratiche e di azioni efficaci?
- Generalizziamo la scuola dell'infanzia , la scuola statale e comunale dell'infanzia, scommettendo anche sui nidi, se è vero che scommettere sull'educazione dei più piccoli vuol dire investire in una società più giusta, più libera, più felice. - Investiamo nel sistema di educazione permanente per gli adulti (valorizzato anche dalla recente legge Finanziaria), diamogli corpo per crescere e funzionare: perché se è vero che le colpe dei padri non ricadono sui figli, l'analfabetismo dei padri, il basso livello di istruzione, ricade - eccome - sui figli! - costruiamo un sistema nazionale di valutazione, un sistema però che sia capace di leggere luci e ombre della scuola, linee di tendenza, orientamenti capace di stare al passo con le ricerche internazionali, capace soprattutto di contribuire a scelte politiche di lungo respiro; - investiamo convintamene nella formazione iniziale dei docenti, stabilendo quale scuola vogliamo e poi quale debba essere il profilo professionale del futuro docente. Ma non affidiamo tale decisione solo all'Università, ascoltiamo anche la scuola! Non confiniamo le competenze di scuola sempre in un ambito di minorità. - e facciamo con coraggio una legge quadro per il diritto allo studio, oggi che per tanti giovani stare a scuola è tornato ad essere un lusso - Soprattutto riscriviamo - non ritocchiamo qua e là - il curricolo dai 3 ai 19 anni con particolare urgenza per la scuola di base dove vigono Indicazioni nazionali che quasi tutta la scuola ha rigettato. Ma non è sufficiente delegittimarle per allontanarle dalle nostre aule: i libri di testo, tantissimi libri di testo, le tengono in vita. Insomma, quello che voglio dire è che se si porrà mano a tutti gli elementi di quel complesso sistema che è la scuola, allora sarà possibile realizzare una scuola di qualità e veramente per tutti.
Certo il quadro normativo sarà sicuramente completato - ce lo auguriamo - nei prossimi anni. I mmediatamente vanno affrontate le due questioni che sono - e non da oggi - il principale motivo di crisi e di malessere della scuola:
Sul primo punto, qual è la proposta culturale, pedagogica, didattica che viene assegnata oggi alla scuola? Quali finalità, traguardi, conoscenze irrinunciabili sono indicate agli insegnanti? Qual è insomma il loro mandato culturale? Certo oggi servono non programmi prescrittivi e rigidi, che cadono dall'alto, ma Indicazioni sobrie, essenziali (poche cose fatte in profondità si diceva una volta), elaborate tenuto conto di alcuni criteri: quello della scientificità, della sostenibilità, del valore formativo delle conoscenze che si scelgono, della loro gradualità e ciclicità, della rivedibilità. Solidamente poggiate su quella dimensione laica chiaramente indicata dalla Costituzione, e che dovrebbe essere la normale e ordinaria dimensione che attraversa il pensiero moderno, che fa parte del modo di sentire e di vedere le cose di ogni persona, credente o non credente. Che fa parte o dovrebbe far parte di una politica nuova che guarda ai diritti delle persone e li tutela, così come guarda alla coesione sociale e la persegue. Certo, lo so, per costruire Indicazioni così ci vuole tempo, ragionamento, studio e confronto, e il tempo sembra non esserci. A settembre prossimo si parte con l'innalzamento dell'obbligo di istruzione. L'obiettivo però si potrebbe raggiungere gradualmente, per tappe successive: per la scuola l'importante sarebbe la direzione di marcia, sapere che una commissione di esperti - un'unica commissione di esperti - ci sta lavorando, con un mandato chiaro e trasparente, a cominciare dal sapere chi è che ci sta lavorando. E' un passaggio importante per la scuola, forse il più importante e delicato, quello del suo impianto culturale. Come non vedere la crisi di identità il disorientamento che da lungo tempo vive la scuola italiana: l'enciclopedia messa a punto da Gentile mostra da molto tempo tutta la sua inadeguatezza. Le più recenti acquisizioni in tutti i campi del sapere, gli orizzonti aperti dalle nuove tecnologie, le nuove frontiere toccate dalle scienze, ma anche dalla matematica, dalla musica, da tutte le arti hanno messo definitivamente in crisi l'idea di un sapere scolastico autoreferenziale, ordinato gerarchicamente. Oggi si ragiona di nuove scansioni disciplinari, dell'intreccio fra i vecchi quadri conoscitivi e i nuovi, di una nuova idea di cultura. Oggi, il disorientamento è determinato dalle spinte contraddittorie che vengono dalla società: da una parte la richiesta di conoscenze stabili, persistenti, capaci di durare tutta la vita; dall'altra l'impossibilità di dare forma duratura e permanente a niente; il paradosso della società della conoscenza che non conserva le conoscenze apprese. "La società liquida" di cui ci parla Bauman che come l'acqua non si ferma mai e come l'acqua non ha, non prende forma. Il paradosso, infine di un mondo globalizzato che esalta il frammento, la propria individualità, il suo microcosmo e lo difende, ergendo recinti e steccati. Un mondo così alimenta il dubbio, l'incertezza, la paura e disegna i tratti della fragilità e della vulnerabilità sui volti dei nostri ragazzi. In un mondo così come stabilire qual è la cultura di cui il nostro Paese ha bisogno? Da dove ripartire? Come capire che cosa ha senso insegnare, se ha senso insegnare . (e questo è il senso della tavola rotonda che abbiamo nel pomeriggio). La domanda che la scuola da anni si pone è sempre la stessa: è quella da cui partì la commissione dei saggi del ministro Berlinguer e per cui lavorò la commissione di esperti del ministro De Mauro: che cosa ha senso insegnare ai bambini e ai ragazzi di oggi? Questo è il centro del problema, ieri come oggi. Per questo continuiamo a chiedere l'applicazione dell'art. 8 del dpr 275/99. Per stabilire le finalità, le conoscenze irrinunciabili, i traguardi. Per questo continuiamo a chiedere una commissione di esperti che in una visione d'insieme, in raccordo con le scuole, tenendo conto dei vari punti di vista, si assuma il compito e la responsabilità di stabilire che cosa oggi ha senso insegnare. Quali sono i nuovi principi ordinatori della cultura, non può deciderlo la singola scuola con tutta l'autonomia del mondo. La trama delle conoscenze, i contenuti irrinunciabili, il che cosa non si possa non insegnare, non possono stabilirlo da soli gli insegnanti, ma neppure pochi esperti in tempi contratti. La scuola le domande se le fa ogni giorno, chiedendosi per esempio: quali sono i punti irrinunciabili di un insegnamento capace di dare prospettiva critica, autonomia di giudizio? come scegliere i percorsi della conoscenza sulla base del loro significato sociale o della presunta valenza formativa? quali percorsi della conoscenza mettono a fuoco il rapporto tra presente e passato, senza che la contemporaneità diventi un'aggiunta del programma? E come insegnarla - la contemporaneità - senza essere accusati di faziosità? quali priorità porsi di fronte ai processi di crescente immigrazione e alla conseguente necessità di trovare nuove forme di alfabetizzazione? come comporre, costruire un percorso di educazione alla cittadinanza che abbia senso e significato per i ragazzi? E chiediamo all'amministrazione che sta definendo le competenze da certificare all'uscita del biennio e della scuola media: come si costruiscono le nuove Indicazioni? A partire dalle competenze trasversali e dai traguardi culturali, come si afferma in un recente documento, o dalla trama delle conoscenze che la scuola non può non insegnare? Dire che la scuola deve abituare al dubbio e all'incertezza, a praticare interessi e curiosità, a collegare l'esperienza alla riflessione, a risolvere problemi, a imparare ad imparare, è scontato. Meno scontato è dire attraverso quali percorsi della conoscenza si arrivi a questi traguardi. Cioè capire che cosa sia "utile" dal punto di vista formativo. E se è utile e significativo scrivere e parlare correttamente, risolvere un'equazione, saper ascoltare un brano di Beethoven lo è per tutti, e va insegnato a tutti, indipendentemente dal lavoro che faranno. Ci preoccupa l'ansia di certificazione che si sta registrando e che rischia di allontanare le scuole dai grandi temi: le pratiche efficaci di insegnamento e apprendimento, la valutazione, la mediazione didattica. E se cresce il bisogno, pur necessario, di certificare, di rendere conto, di verificare: vogliamo chiederci prima che cosa sia davvero possibile certificare? Sul secondo punto, gli insegnanti Il momento è difficile, il malessere degli insegnanti si taglia a fette. Aumentano le cronache di malascuola: insegnanti fannulloni e nullafacenti, insegnanti che attentano all'integrità degli alunni. Una pesante campagna mediatica volta a delegittimare gli insegnanti, e quindi, la scuola pubblica senza alcuna possibilità di replica da parte degli insegnanti, se non il proprio lavoro quotidiano. Già, il proprio lavoro quotidiano: ma quello non fa notizia. Pubblicazioni e ricerche internazionali mirano a dimostrare che in Italia gli insegnanti sono troppi e inadeguati al compito. Senza un briciolo di considerazione sugli effetti negativi, ancora persistenti, di quel ritardo storico dell'Italia nel processo di alfabetizzazione, che pure ha visto molti degli insegnanti tuttora in servizio, silenziosi quanto decisivi protagonisti di quel grande balzo in avanti nei processi di alfabetizzazione registrato dagli anni sessanta in poi. E li vede tuttora protagonisti di un'azione educativa, oggi ancora più difficile e complicata, di guida e di sostegno alle giovani generazioni. Certo, ogni generalizzazione è sbagliata: perciò non ci nascondiamo le zone d'ombra, le inadempienze, le posizioni di comodo presenti in questa come in altre categorie. Casi isolati a fronte di quasi un milione di insegnanti che ogni giorno, nonostante tutto, con motivazione, responsabilità e competenza mandano avanti, nell'indifferenza e nell'incuria generale, il più strategico, delicato e complesso sistema organizzato che l'Italia abbia. E' spregiudicata irresponsabilità allora la campagna mediatica che si è avviata contro la scuola. E' irritante davvero. Ma a chi giova questo sconsiderato effetto moltiplicativo che sfrutta la possibilità di servirsi di mezzi alla scuola non accessibili? A chi serve il qualunquismo di chi parla della scuola come di un fenomeno di degenerazione sociale e culturale, con l'approssimazione superba e acritica di chi pensa che la scuola è di tutti e dunque tutti ne devono e ne possono parlare? E dove era il mondo della politica, che nemmeno sottovoce ha tentato di contrastare quell'attacco violento, per difendere gli insegnanti - la maggioranza certamente - che da quelle cronache vengono così volgarmente delegittimati? Il Ministro Fioroni da solo - e gli va riconosciuto tutto il merito - è intervenuto, là dove ha potuto, a difesa degli insegnanti. E infine, dove siamo noi, insegnanti consapevoli, democratici, responsabili, vincolati indissolubilmente all'etica della nostra professione? Abbiamo maturato anticorpi tali che ci proteggono dalla delegittimazione e dalla ipocrisia di chi usa singoli casi per esprimere un'idea di scuola che non ci piace e non possiamo condividere? Dal sospetto di chi non crede più nella funzione democratica di una scuola pubblica, laica e pluralista? E di chi usa il singolo caso per ventilare - nemmeno troppo nascostamente - ipotesi di chiamata diretta degli insegnanti, di liberalizzazione incondizionata del nostro sistema scolastico? E' utile questa nostra rassegnazione, è socialmente produttiva l'idea che sarà l'esempio del nostro lavoro a far giustizia dell'informazione tendenziosa, che sarà la nostra serietà a prevalere sulla delegittimazione? Io credo di no, che non sia sufficiente. Credo che occorrano delle risposte altrettanto penetranti, altrettanto potenti. Ma per fornire queste risposte abbiamo bisogno della politica. Abbiamo bisogno di scelte coraggiose che indichino la direzione del cambiamento verso la valorizzazione della nostra professione, della centralità della nostra funzione Cominciamo noi ad avere più consapevolezza dell'importanza straordinaria del lavoro che svolgiamo. Cominciamo noi a scommettere sul lavoro che facciamo per chiedere - tutti insieme e con forza - alla politica, al governo, alle istituzioni, ai territori che serve ricominciare dalla scuola, serve scommettere sulla scuola. Certamente per rilanciare una scuola in difficoltà, per ricondurla a essere elemento strategico per la democrazia occorre un motivo forte intorno a cui si possa stringere l'intera comunità : sostenere un grande progetto sociale e civile per il Paese, dove la scuola diventa il perno della ricostruzione etica, culturale e produttiva.
Etica, innanzitutto, quell'etica senza aggettivi che imprime direzione al cammino, che restituisce senso e significato al nostro darci da fare quotidiano. Un'etica in grado di alimentarla la cultura e capace di ridisegnare - per questa strada - profili di cittadinanza coerenti con lo sviluppo di società più civili, più giuste, più democratiche. Utopia questa? Forse E allora ai politici, agli amministratori, ai colleghi, a tutte le persone che a vario titolo incontriamo nella vita e che ci dicono che spesso il Cidi cammina sui binari dell'utopia voglio dedicare il pensiero di uno scrittore latino americano Eduardo Galeano:
" L'utopia sta all'orizzonte, mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi e l'orizzonte si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A che cosa serve l'utopia? A questo: serve a camminare!"
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