Federalismo "scolastico" ed altri scenari
di Giancarlo
Cerini Il contestoIl Convegno dedicato a "Scuola ed Enti locali, insieme per il diritto
all'istruzione" organizzato dalla Provincia di Ascoli Piceno nei giorni
5-6-7 dicembre 2002 a San Benedetto del Tronto, con il concorso di una
rete di Ambiziosamente, i curatori
della manifestazione (che ha visto oltre 350 presenze, provenienti da
tutte le regioni italiane) si erano proposti di fare il punto sullo
stato di applicazione - in materia scolastica Inevitabile, allora, che durante la tre giorni sia stata percepita una forte tensione etico-politica, alla ricerca delle ragioni "forti" dello stare insieme di un paese e delle sue istituzioni, con una palpabile inquietudine per i toni "sopra le righe" che spesso hanno accompagnato le nuove idee in materia costituzionale (dal federalismo alla sussidiarietà, dalla libertà di iniziativa alla de-burocratizzazione degli apparati), presentate quasi sempre con una forte carica anti-istituzionale. Così, anche una parola ormai entrata nel lessico
quotidiano, come "federalismo", è stata utilizzata con molta parsimonia
e considerata in parallelo al concetto di "regionalismo", forse in sintonia
con il Presidente Ciampi, che ha preferito recentemente utilizzare tale
termine, da qualcuno considerato un passo indietro, da altri un segno
di maggiore attenzione alla tutela dell'integrità nazionale delle istituzioni.
Il convegno ha però accettato
la sfida del federalismo "futuribile" inteso come fattore di democrazia,
di espansione dei diritti e di pari opportunità tra parti distinte di
una nazione che si "alleano" per meglio perseguire le finalità comuni. E non poteva che essere così, vista anche la presenza
di autorevoli rappresentanti delle Magistrature del nostro Paese (Corte
Costituzionale, Consiglio di Stato, Corte dei Conti), oltre al ceto
politico più direttamente interessato ai nuovi scenari ed agli operatori
scolastici attenti alle possibili "ricadute" sulla vita quotidiana della
scuola delle evoluzioni istituzionali ancora in corso. Lo snodarsi narrativo
di molte relazioni (in particolare quella del consigliere A. Pajno)
ha fatto cogliere la lunga durata dei processi costituzionali, quasi
a garanzia del loro valore "duraturo", almeno dal 1948 al 2002. Verso un federalismo ragionevole?Si può portare a referto degli esiti del convegno una possibile convergenza, un filo conduttore comune, nella ricerca di un "federalismo ragionevole", cooperativo piuttosto che competitivo, capace di fare connessione piuttosto che accentuare divisione. È stato ricordato che solo due paesi, il Brasile ed il Belgio, hanno attuato "felicemente" un processo di distinzione federale da preesistenti forme statuali unitarie, come si vorrebbe ora in Italia. È stato evidente l'invito ad
evitare le fughe in avanti, che hanno spesso caratterizzato le scelte
politiche di questi anni in materia costituzionale
[1]
, ma anche in tema di riforme scolastiche, che ha
visto un rapido susseguirsi di nuovi oggetti, nuovi prodotti, nuovi
ritrovati, senza consolidarli (e consolidare una riforma vuol dire lavorare
in una prospettiva di 10-15 anni), creando una situazione di incertezza
che porta a lungo andare alla disillusione "riformatrice" ed al possibile
disimpegno rispetto alle innovazioni
[2]
. In questa prospettiva costruttiva
è stato importante mettere al centro del convegno di S. Benedetto oggetti
molto concreti, come quelli relativi alle prime ipotesi di gestione
del D.Lvo 112/1998 (con molte buone pratiche di integrazione storicamente
già attivate
[3]
) piuttosto che di attuazione del nuovo Titolo V (ove
le Regioni sono apparse più in ritardo, o meglio, in evidente imbarazzo).
Si tratta, comunque, di strumenti giuridici talmente recenti da dover
essere ancora messi alla prova, sia sotto il profilo strettamente amministrativo,
di raffronto e raccordo tra le fonti (come ha ben precisato Sergio Auriemma
[4]
), sia sotto il profilo politico-istituzionale (come
ha ampiamente argomentato Alessandro Pajno
[5]
). Un processo inedito e quindi incerto, a rischio, ma da governare con gli
strumenti della politica, di una buona politica, che è necessario ricostruire
alla luce del nuovo scenario "bipolare" che non può essere riassunto
solo dalla logica dello spoils-sistem: chi vince, vince tutto. chi perde,
perde tutto (anche nel campo della politica scolastica). Per costruire
questa "buona politica" servono certamente la cultura amministrativa
ed organizzativa, che richiama in prima persona responsabilità diffuse
e professionalità necessarie. L'operosa integrazione di energie e di
risorse è la metafora del "buon governo" offerta dal celebre ciclo pittorico
di Ambrogio Lorenzetti che affresca il Palazzo Pubblico di Siena. Appunto:
non basta "comandare", occorre "governare" (con il rispetto dei cittadini).
Ed oggi, questa metafora del buon governo dovrebbe sfociare nella richiesta
di un rigoroso rispetto delle istituzioni e delle regole costituzionali
(il dialogo politico, l'indipendenza della magistratura, libertà di
informazione, difesa del principio dell'unità nazionale)
[6]
. Questa è anche la sfida del federalismo "solidale", cooperativo, della
sussidiarietà che non può essere intesa in chiave di abbandono, di dismissione,
di rinuncia ad ogni intervento pubblico, come se il principio di sussidiarietà
fosse confondibile con il liberismo "compassionevole". Una sussidiarietà
ben intesa non significa sempre e comunque abbassare il livello di gestione
sempre più vicino al destinatario finale dei servizi o delle prestazioni;
in qualche caso occorre elevarlo ad una istituzione più forte e capace
di rispondere alle esigenze dei cittadini (a questo proposito, il costituzionalista
R. Bin ha utilizzato la metafora dell'ascensore). Non è dunque accettabile parlare dell'intervento dello Stato nel campo
dell'istruzione come di una "intrusione" o di un "monopolio" sgradevole,
perché ci sono precisi obblighi costituzionali cui occorre far fronte
per garantire il carattere pubblico dell'istruzione. Oggi, è vero, la
Repubblica si articola (anzi, nel nuovo Titolo V: è
costituita da) in una pluralità di soggetti: i Comuni, le Province,
le Città metropolitane, le Regioni e, buon ultimo, lo Stato. Dunque,
non c'è più nessun Stato di cui essere amici? Oggi lo Stato sembra rimpicciolirsi.
Stato moderno, stato "modesto", ci ricorda M. Crozier
[7]
, uno dei più attenti studiosi dell'evoluzione delle
pubbliche amministrazioni. Dalla scuola dello Stato alla scuola della
Repubblica è diventato uno "slogan" che si trova anche nelle pubblicazioni
ufficiali del Ministero dell'Istruzione
[8]
. Ma il passaggio non è dei più facili. Non è scontato
pensare al Sindaco né come semplice esponente dei cittadini (e degli
interessi) che lo hanno eletto, né come Ufficiale di Governo nel senso
di "organo" dello Stato (nelle classiche accezioni di "pubblico ufficiale"),
ma quasi come ad una sintesi di interessi nazionali/generali ("la fascia
tricolore") e di interessi locali/particolari ("il gonfalone"), come
nella tradizione anglosassone, che però non ci appartiene
[9]
. Da noi vige una doppia filiera, distinta tra organizzazione
(anche periferica) dello Stato ed organizzazione (autonoma) degli Enti
locali, ben visibile anche nel caso della pubblica istruzione. Il nuovo
articolo 118 della Costituzione propone un passaggio molto innovativo,
quando attribuisce ai Comuni la generalità delle funzioni amministrative,
salvo che non se ne debba assicurare l'esercizio unitario conferendole
a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato "sulla base dei principi
di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza". L'autonomia nel paese delle tre CostituzioniParlare del rapporto tra autonomia (anche della scuola) e federalismo
significa ricostruire la lunga storia dell'affermazione delle autonomie
locali, di quelle che oggi possono essere definite le potenziali virtù
civiche delle 20 regioni, delle 100 province, degli 8000 comuni (e delle
10.000 scuole autonome, aggiungiamo noi). Si tratta di
una evoluzione da Stato-ordinamento a Stato-comunità che sembra
far venir meno quella "sontuosità" delle istituzioni a cui eravamo abituati
dall'imprinting prefettizio cisalpino (e poi subalpino), e affievolisce
l'imperatività che segnava il rapporto asimmetrico tra potestà delle
istituzioni e diritti/interessi dei cittadini. In questo nuovo scenario la scuola cambia pelle: da temuto apparato ideologico
dello Stato, si sposta verso un'idea di servizio quasi di natura "privatistica",
quasi a giustificare la caduta dell'aggettivazione "Pubblica" dal frontone
del Ministero della (non più ?) Pubblica Istruzione. L'istruzione si
lega così ad una domanda soggettiva, di singoli utenti o fruitori, e
non più al protagonismo di cittadini associati. In questa ottica sembra
doversi interpretare il forte richiamo ai singolari diritti di libertà
e di scelta in materia di istruzione che pervade la proposta di nuova
riforma degli ordinamenti scolastica, fino alla scomparsa del concetto
di obbligo, visto come intrusivo ferrovecchio dell'ottocento, sostituito
dalla più dinamica dialettica tra diritto e dovere all'istruzione/formazione.
Ma allora potremmo anche aspettarci che questo diritto/dovere sarà, di
qui in avanti, tutto contenibile in un "buono scuola" (come quota-parte
"commerciabile" e "negoziabile" di un diritto civile e sociale). Ma dobbiamo ancora cogliere
le novità degli ultimi sviluppi costituzionali. Scorrono quasi in contemporanea
di fronte a noi tre Costituzioni: quella del 1948, quella appena riformata
del 2001, quella futuribile della "devoluzione". La costituzione dei padri fondatori (1948) ha un forte respiro "autonomistico",
con aperture su un'inedita idea di regionalismo, di decentramento e
autonomia, sopitosi però negli anni successivi, fino alla ripresa degli
anni settanta. Nella nostra legge fondamentale è presente una chiara
affermazione di principi e di diritti, che appaiono come scolpiti nelle
tavole della parte I del testo costituzionale. E' positivo che nessuna
parte politica immagini di sottoporre a revisioni la prima parte della
Costituzione vigente. Nel campo dell'istruzione questa è una garanzia
fondamentale: i primi articoli rappresentano una vera e propria piattaforma
"pedagogica" ancora capace di indicare prospettive di sviluppo alla
nostra scuola (oltre che alla società italiana), come ha più volte ricordato
Tullio De Mauro
[10]
. La riforma del 2001 (in particolare, del titolo V sugli assetti dei poteri locali) è il frutto di un regionalismo maturo, che suggella la compartecipazione delle Regioni alle scelte legislative, però attraverso un oggetto quasi misterioso come sono le "competenze concorrenti", che invitano alla connessione, ma che potrebbero aprire la strada a insanabili conflitti di competenze, se non si trovano le sedi e le ragioni della integrazione e della compensazione. Nella legge n. 3 del 18-10-2001 queste garanzie sono presenti, seppur alquanto deboli, come ad esempio la commissione bicamerale integrata. Nel nuovo testo si fa però apprezzare la forte presa di posizione costituzionale a favore delle autonomie scolastiche che sono "fatte salve" rispetto ad eventuali interventi debordanti degli enti locali, e la cui regolamentazione dovrebbe continuare a far parte della legislazione di carattere statale (ma su questo punto, gli esperti anche al convegno si sono mostrati piuttosto cauti). La riforma preannunciata dal voto del Senato sulla devolution (5 dicembre 2002) introduce un principio di "federalismo
a geometria variabile", nel senso che viene riconosciuto alle Regioni
la possibilità di "appropriarsi" autonomamente di "fette" di legislazione
esclusiva in alcuni settori limitati, ma strategici (la sanità, l'istruzione
e la polizia locale). Certo, resta in vigore tutto l'impianto della
costituzione appena riformata (a cui gli articoli sulla devolution
si aggiungono come commi ulteriori), con le garanzie fissate dalle "norme
generali" di pertinenza dello Stato, dai principi fondamentali da rispettare,
dai livelli essenziali delle prestazioni da tutelare. Tuttavia, il meccanismo
adombrato appare dirompente, per la possibile diversa "velocità" dei
processi di autonomia, dove le Regioni più forti sembrano anche quelle
più pronte a "staccarsi" dalle comuni fatiche della solidarietà nazionale.
L'assunzione di più forti prerogative legislative regionali potrà avvenire
anche senza il necessario consenso del Parlamento (come è previsto oggi
dalla legge 3/2001), ma con il semplice "via libera" di singole leggi
regionali appena "vidimate" dalla Corte Costituzionale. Nel campo dell'istruzione la legislazione esclusiva si limiterebbe ad alcuni settori molto specifici: l'organizzazione e la gestione delle scuole ed i programmi di interesse "locale". Ma c'è chi vede in questo nuovo articolato costituzionale una possibile erosione delle ancor fresche competenze che proprio in queste materie sono state da poco (con il Dpr n. 275 dell'8-3-1999) attribuite alle scuole autonome, in fatto di autonomia "organizzativa" e "didattica" e di potestà sul curricolo "locale", oggi nella misura del 15 %. Inoltre, il termine "gestione"
può assumere un significato più o meno esteso a seconda delle diverse
interpretazioni. Per alcuni si dovrebbe spingere fino alla gestione
del personale docente in appositi ruoli di pertinenza delle Regioni
[11]
, con connessi contratti di lavoro regionali (almeno
integrativi di quelli nazionali); per altri, questo evento dovrebbe
essere scongiurato, pena l'instaurarsi di un localismo inaccettabile
anche nel profilo culturale della scuola. Così pure la possibilità di
adottare diverse forme di gestione, partecipazione e governo delle istituzioni,
potrebbe portare ad una diversa configurazione di diritti civili fondamentali
a seconda dei territori di residenza. Per non parlare poi dei programmi
di studio e della possibilità di curvarli in chiave regionalistica o
localistica. Le garanzie nazionaliNei prossimi anni diventerà
decisivo poter disporre di "norme generali" sull'istruzione che delimitino
un'area essenziale di salvaguardia dell'unitarietà del sistema scolastico.
C'è una declaratoria ben precisa delle prerogative dello Stato nella
legge 59/1997
[12]
(non a caso definita del "federalismo amministrativo"),
ma anche nel primo testo costituzionale del 1948 si introduceva il concetto
di "norme generali" in materia di istruzione, già intuendo la necessaria
distinzione tra aspetti essenziali, fondamentali, dell'ordinamento scolastico
e normazione secondaria, di contesto, di dettaglio, meritevole di essere
delegificata e affidata a fonti più specifiche e transeunti. Oggi il problema non è semplicemente
accademico, ma di sostanza: a chi spetterà custodire e far rispettare
le norme generali? da dove dedurre queste norme? come verificare che
nelle leggi concorrenti regionali, nella tutela degli interessi territoriali,
non si oltrepassi questa "zona di rispetto"? Un'utile ricerca è anche quella attorno ai "livelli essenziali delle prestazioni
in materia di diritti civili e sociali"; in questo caso non siamo più
in presenza di una pura enunciazione, ma di una previsione di diritti
"strumentabili", azionabili", con l'aspettativa di una obbligazione
da parte di chi (l'istituzione) quel diritto deve tradurre in una concreta
e corrispondente azione. Acquista così nuova luce il diritto all'istruzione come diritto ad una
esperienza scolastica e formativa che consenta di raggiungere un risultato
positivo a tutti i cittadini. Invece, il passaggio da obbligo (scolastico)
a diritto (alla formazione) particolarmente visibile nel disegno di
legge di riforma dei cicli (n. 1306/2002) è stato spesso interpretato
come un arretramento rispetto al concetto precedente di obbligo scolastico:
dovremmo però - almeno in linea di principio - cercare una convergenza
di intenti tra il "non-uno-di-meno"
propugnato da De Mauro, il "no-child-left-behind"
(nessun bambino resti indietro) alla base della riforma scolastica degli
USA, il "diritto all'istruzione/formazione
per almeno 12 anni" (o fino al conseguimento di una qualifica) nel
disegno di legge "Moratti". Ma oltre ad una durata tendenzialmente omogenea
dei percorsi di studio, che non appare pienamente realizzata nel nuovo
progetto di riforma (chi sceglierà la filiera liceale uscirà dal percorso
a 19 anni, chi la filiera professionale a 18 anni, chi opterà per una
qualifica addestrativi potrebbe uscire anche a 17 anni), il problema
è in quali condizioni si resta a scuola (o nella formazione) e quali
sono i risultati finali. Oggi il 97% dei quindicenni è a scuola, ma
sulla qualità degli esiti formativi ci sono ragionevoli dubbi. Oltre alla durata
degli studi c'è dunque un problema di standard di apprendimento e non
bastano gli otto anni di scuola garantiti dalla Costituzione, come ci
ricordavano i ragazzi di Barbiana nel lontano 1967. Dovremmo chiederci se per garantire
questi traguardi sia sufficiente l'intelaiatura dell'art. 8 del Regolamento
dell'autonomia, che affida al ministro pro-tempore la stesura di finalità,
obiettivi specifici, standard di funzionamento, verifiche degli apprendimenti,
interventi di natura compensativa. Se questi sono punti di riferimento
validi erga omnes si dovrà
realizzare il concorso della comunità scientifica e professionale alla
loro elaborazione. Infatti, per scrivere con piena legittimità programmi
(o meglio, curricoli o indirizzi nazionali) occorre una voce autorevole
e condivisa che sia espressione permanente della ricerca, della comunità
scientifica e professionale, e quindi in grado di ergersi al di sopra
delle parti e delle scelte contingenti. Affiora oggi una preoccupazione
circa un eccesso di deleghe, anche in materia di norme generali (e qui
si affaccia anche un problema di correttezza costituzionale) in materia
di istruzione. Appunto: chi ha titolo a scrivere le norme generali?
con quali garanzie? Si ricorda che nel 1973, all'atto di concedere un'ampia
delega all'esecutivo per scrivere i decreti delegati (emanati effettivamente
nel 1974) fu prevista una commissione di redazione rappresentativa di
tutte le correnti politiche, culturali e professionali del paese e della
scuola. I decreti delegati furono scritti a più mani da un folto gruppo
(di circa 60 esperti e politici): saranno stati gli effetti del consociativismo
tipico della prima Repubblica, ma si ricorda altresì che quei decreti
hanno retto per oltre 25 anni la vita della scuola, mentre oggi le riforme
(quando vanno in porto) sembrano durare lo spazio di un mattino. Una
riforma, in effetti, è tale se è a prova di almeno una generazione. Il federalismo che verrà.Mai come in questo momento occorre saldare una visione di sistema, la
comprensione delle nuove tendenze istituzionali con l'azione locale,
la capacità di essere operativi, di gestire i nuovi spazi giuridici,
amministrativi, organizzativi che si sono aperti con le innovazioni
legislative di questi anni. La "vision" da sola non basta, non è sufficiente
censire le "idee in movimento" per poterle esorcizzare. Esse si presentano
a doppia valenza, quasi polarizzate: federalismo/regionalismo, autonomia/decentramento,
sussidiarietà/responsabilità, libertà di inziativa/solidarietà. Occorre
mettere alla prova queste polarità, provare ad integrarle attraverso
nuove alleanze e nuove sinergie, nuove responsabilità nel nostro caso
tra scuole autonome, enti locali, amministrazione scolastica:
-
le scuole, oggi dotate di una
autonomia con copertura costituzionale
[13]
;
-
l'Amministrazione scolastica,
con le sue funzioni serventi delle scuole, di promozione, di animazione,
ma anche di indirizzo nazionale, di gestione locale
[14]
;
-
le Regioni, le province, i
comuni, con le competenze già attribuite dal decreto 112/98 e dal Titolo
V
[15]
. Occorre assicurare un ruolo di garanzia (sui livelli essenziali delle
prestazioni): il coordinamento dell'istruzione pubblica è una delle
prerogative fondanti dello Stato. Chi e come si garantiscono i livelli
essenziali delle prestazioni ? Cosa fa lo Stato e con quali strutture
ed organi agisce (al centro ed in periferia)? A volte emerge una malintesa
interpretazione dell'autonomia scolastica, quasi immaginando che le
10.000 scuole italiane siano 10.000 aziende private, 10.000 punti di
servizio, senza bandiere, ciascuna con il proprio "marchio" (logo).
Quello della carta intestata sta diventando un problema non semplicemente
tipografico! Certamente non è più tempo
di grandi ed uniformi apparati burocratici. Ci stiamo spostando verso
il binomio scuola-territorio, verso la scuola della comunità, verso
il sistema formativo integrato. Però non abbiamo deciso con la legge
59/1997 di regionalizzare, provincializzare o municipalizzare la scuola.
Allo Stato spetta sicuramente garantire i livelli essenziali;
alle politiche locali, territoriali, sussidiarie, la capacità di tradurre
i livelli essenziali in livelli ottimali,
come ci ricordano le indicazioni europee sulle politiche pubbliche. Poteremmo usare un'immagine cara agli psicologi
dell'apprendimento e parlare di un'area potenziale di sviluppo (area
prossimale). Si può andare molto più avanti nell'apprendimento se si
usufruisce di adeguati supporti, esempi, buone pratiche, tutoraggio,
scambi, ecc. Questo può essere il ruolo del sistema degli enti locali,
della legislazione concorrente regionale; il valore aggiunto da mettere
nell'attuazione dei trasferimenti di competenze previsti dal decreto
112/1998. Il pilotaggio locale del sistema
formativo allargato funziona se sa evitare le politiche asfittiche,
se risponde non solo ad una domanda del territorio, ma ad una domanda
di sviluppo; l'interazione avviene su più direzioni. L'ente locale avrà
una sua offerta formativa, un POF di territorio, come la scuola. C'è
quasi un ritmo fisiologico. Da un lato ci sono le domande del territorio,
del mercato, dello sviluppo, della ricchezza. Oggi sono i territori
ad essere competitivi
[16]
, con tutta la ricchezza del loro ecosistema formativo.
Un anno in più di formazione per una generazione di un paese comporta
un aumento del 3% del reddito loro prodotto, della ricchezza. Ma dobbiamo
rispondere anche ad un'altra domanda, più disinteressata, che ci chiede
di formare persone e cittadini. In questo secondo caso lavoriamo sui
tempi lunghi, sulle conoscenze durature, sulla riflessività, sui saperi
procedurali, che sono propri di una istituzione che non può inseguire
tutte le conoscenze, ma che li deve selezionare, appunto dialogando
con il territorio, la memoria, l'identità. Ecco che tornano in gioco
la comunità, il territorio, per dare valore e "senso" all'incontro con
i saperi. Ci sono dei diritti delle persone, dei diritti di cittadinanza, delle responsabilità sociali nei confronti dei più deboli, che non possono subire limitazioni dovuti alla dimensione territoriale (su questo dovrà vigilare con attenzione la Corte costituzionale). Ci sono poi le esigenze di
un rapporto con il territorio, di una fisicità delle strutture scolastiche
(pensiamo all'edilizia, alla sicurezza, al dimensionamento, alla qualità
degli apprendimenti veicolati dalla struttura scolastica; una certa
geografia degli insediamenti scolastici può costituire la premessa per
una certa idea di riforma (pensiamo oggi alla rete degli istituti comprensivi
o agli istituti secondari pluri-indirizzo). Inoltre, occorre governare un'offerta formativa che si è diversificata
(in istruzione/formazione), per far fronte a nuove sfide (come l'estensione
dell'obbligo scolastico): anche perché la scuola ha avuto l'impressione
di essere lasciata sola di fronte ad imprese impegnative. La scuola dell'autonomia non
è una scelta autarchica; attorno a sé occorrono servizi, alleanze, supporti.
Non vogliamo essere nostalgici dei CIS
[17]
, di strutture di presidio amministrativo (come rischiano
di ritornare ad essere i Centri Servizi Amministrativi con la riforma
del Dpr n. 347 del 6-11-2000), ma di servizi a disposizione delle scuole
in rete, in modo che la rete (naturale) delle scuole si trasformi in
una rete sociale (intenzionalmente progettata e costruita). Non bastano più i modelli di
ingegneria istituzionale, occorre uno stile a rete che è diverso dall'approccio
burocratico-amministrativo: nella rete contano soprattutto la pertinenza
delle risposte, lo stile di lavoro, la capacità di ascolto, le persone
e la loro professionalità. Dai grandi sistemi burocratici
ad una rete di istituzioni pubbliche autorevoli: questo potrebbe essere
il risultato auspicabile di un federalismo "sostenibile" ed utile per
i cittadini (anche nel campo della scuola).
[1]
G. Cerini, La svolta federalista, in "Notizie della
Scuola", inserto al n. 23 del 16-31 luglio 2002, Tecnodid, Napoli,
utilizza la metafora del "paese dalle tre costituzioni" per rappresentare
una situazione di transizione ai diversi assetti costituzionali, dalla
prima Costituzione del 1948 a quella riformata con la legge 3/2001
(Titolo V) fino alla proposta di "devoluzione" (dicembre 2002).
[2]
Un esame delle politiche di
riforma degli ultimi anni è compiuta con la consueta pacatezza e con
dovizia di documentazione da M. Reguzzoni, Riforma
della scuola in Italia, Angeli, Milano, 2000. Una ricostruzione
più irruenta degli ultimi tormenti riformistici (ma anche la difesa
delle motivazioni che ne stavano alla base) è invece dovuta alla penna
di uno dei protagonisti L. Berlinguer, La scuola nuova, Laterza, Bari,
2001. Opportuno, a questo punto, almeno per cogliere coerenze ed incoerenze
tra "pensato" ed "agito" rileggersi le ipotesi "a priori" formulate
nel lontano 1995 dallo "studioso" T. De Mauro, Idee
per il governo. La scuola, Laterza, Bari, 1995.
[3]
D. Ragazzini, Enti locali,
regionalizzazione e politiche educative in D. Ragazzini-P. Causarano-M.G.
Boeri, Rimuovere gli ostacoli. Politiche educative e culturali degli
Enti locali dopo la regionalizzazione, Giunti, Firenze, 1999.
[4]
L'intervento di S. Auriemma,
Le regole di attività nel sistema
istruzione è riportato integralmente nell'inserto a "Notizie della
Scuola", n. 7, 1-15 dicembre 2002, Tecnodid, Napoli.
[5]
A. Pajno, Federalismo scolastico, in "Il Mulino",
n. 3, maggio-giugno, 2002.
[6]
Nella rigorosa difesa dei principi
della legalità costituzionale si distinguono giovani studiosi che
vengono riscoprendo le virtù della Repubblica alla luce della cultura
democratica italiana e anglosassone. Tra gli altri M. Viroli di cui
si apprezzano gli editoriali su "La Stampa" (cfr. M. Viroli, Passione di patria, in "La Stampa", 2 gennaio 2003). Vedi anche: N.
Bobbio-M. Viroli, Dialogo intorno
alla repubblica, Laterza, Bari, 2001.
[7]
M. Crozier, Stato moderno, stato modesto, EL, Roma,
1988.
[8]
MIUR, Una scuola per crescere. Ragioni e sfide del cambiamento, Ist. Poligrafico
e Zecca dello Stato, Roma, 2002.
[9]
L. Vandelli, Devolution e altre storie, Il Mulino, Bologna,
2002.
[10]
T. De Mauro, Scuola secondo Costituzione, in "Insegnare",
n. 9, settembre 2000, B. Mondadori, Milano.
[11]
L. Ribolzi, "Professionalità", in "Voci della scuola
duemiladue", Tecnodid, Napoli, 2002.
[12]
L'articolo 1 della legge n.
59 del 15 marzo 1997, al comma 3, lettera q) così indica le funzioni
ed i compiti sicuramente attribuiti allo Stato: "istruzione universitaria,
ordinamenti scolastici, programmi scolastici, organizzazione generale
dell'istruzione scolastica e stato giuridico del personale".
[13]
G. Cerini-D. Cristanini (a
cura di), A scuola di autonomia.
Dal Pei al Pof, Tecnodid, Napoli, 2000.
[14]
F.Butera (a cura di), Il libro verde della Pubblica Istruzione,
Angeli, Milano, 1999.
[15]
G. Franchi-L. Barberio Corsetti,
Governare la scuola. Guida al
nuovo modello di gestione, La Nuova Italia, Firenze, 2000.
[16]
G.De Rita-A. Bonomi, Manifesto per lo sviluppo locale. Dall'azione
di comunità ai Patti territoriali, Bollati-Boringhieri, Torino,
1998.
[17]
MPI-CFI-G.Cerini (a cura di),
I servizi territoriali per i
docenti, Tecnodid, Napoli, 2001. |