Per ragionare sui percorsi formativi nell’età dell’adolescenza(Domenico
Chiesa, 15 giugno 2004) ·
Il problema ·
Un punto da cui partire ·
Alcuni chiarimenti
sul rapporto tra istruzione (scuola), formazione professionale e lavoro
Scuola e formazione al lavoro. Istruzione e formazione professionale
Lavoro e cultura
tecnologica nei percorsi formativi.
·
La proposta dei due sistemi (dei licei e dell’istruzione/formazione
professionale) ·
Perché elevare l’obbligo dell’istruzione nei bienni di scuola
secondaria di secondo grado ·
Alcuni effetti diretti e indiretti
dell’elevamento dell’obbligo nei bienni unitari ·
La priorità da affrontare e approfondire con urgenza: quali
bienni? Come costruirli? ·
Per una nuova prospettiva della politica scolastica
Il problema 1.
La scelta che segna e orienta l’intero disegno di cambiamento contenuto
nella L.53/03, è quella che prospetta due sistemi di formazione per
il secondo ciclo. La decisione di costruire due sistemi di formazione
rappresenta una rottura profonda del filo conduttore che ha guidato
la politica scolastica italiana dall’inizio degli anni sessanta. È dunque urgente proprio sulla scuola
dopo i 14 anni rilanciare una discussione approfondita, laica, senza
preconcetti che aiuti la definizione di un
progetto di innovazione in grado di reggere una
prospettiva praticabile e alternativa a quella dell’attuale Governo;
una prospettiva che intercetti i reali bisogni di formazione e la migliore
cultura del fare scuola già presente nella nostra scuola e con essa
il consenso, il contributo e il protagonismo dei soggetti che la praticano. I
ragionamenti che seguono sono necessariamente schematici e hanno come
obiettivo la scomposizione e l’analisi del problema, in prima approssimazione
e in tutta la sua complessità, lasciando pienamente aperta la ricerca
della possibili soluzioni. L’attesa
è che lo schema di analisi qui proposto sollevi
un’animata e fruttuosa discussione. 2.
Attorno al problema di quale/i percorso/i formativo/i
per gli adolescenti si possono riscontrare almeno tre filoni
di ragionamenti e di prospettive: -
la proposta
contenuta nell’art. 2 della Legge 53/03 [1]
con le possibili variazioni sul tema del sistema
duale -
la “scuola di pensiero” che dagli anni sessanta percorre la ricerca
e la pratica della scuola (le “grandi” sperimentazioni degli anni sessanta,
i paralleli disegni di legge fini alla metà degli anni ottanta, il progetto
della commissione “Brocca” e le pratiche diffuse hanno assunto come
modello l’articolazione biennio-triennio ponendo ai due segmenti finalità
specifiche all’interno di un percorso coerente e progressivo in cui
si realizzi una graduale integrazione con la formazione professionale,
cercando di evitare la “canalizzazione” a 14 anni e quindi contrario
alla logica duale) -
il processo che da quasi un ventennio ha spostato via via il
baricentro dell’innovazione dall’impianto curricolare a quello dell’ingegneria
organizzativa (dalle sperimentazioni “assistite” fino ai progetti della
seconda metà degli anni novanta). Non mi pare possa essere considerata
una “terza via” e può sostenere indifferentemente le precedenti soluzioni. 3.
La tesi che si propone alla discussione e si cerca di argomentare
si basa sull’idea secondo cui i percorsi formativi che seguono la scuola
3-14 anni e che porteranno ad un diploma e/o ad una qualifica professionale
debbano prevedere il prolungamento dell’obbligo d’istruzione di almeno
due anni. È l’alternativa praticabile e non velleitaria al doppio sistema.
È
una proposta che assume la valutazione che il nostro sistema scolastico
sia da innovare non tanto attraverso la rivoluzione dell’impianto istituzionale/formale
(la scansione dei cicli) quanto nella qualità dei processi di
insegnamento/apprendimento realizzati in un percorso formativo
dai tre ai diciannove anni progressivo e in grado di corrispondere alle
esigenze formative proprie delle diverse fasce di età. La prosecuzione dell’obbligo all’istruzione
nel primo biennio della scuola secondaria di secondo grado rappresenterebbe
una tappa storica del processo che dall’inizio degli anni sessanta segna
lo sviluppo della scuola nella direzione del suo rilancio e della sua
rivalutazione come Istituzione costituzionale. È una scelta che, superando ma non
annullando quelle degli anni settanta-novanta, ridisegna la scuola come
uno dei fondamentali motori di democrazia, contrapponendosi allo strisciante
processo di descolarizzazione che si respira in alcuni atteggiamenti
sociali e politici. Il
significato del “diritto allo studio” è nel garantire un ciclo di studi
sufficiente (nella qualità e nel tempo) per il recupero degli svantaggi
sociali. Sarebbe
fondamentale affrontare e sviluppare due importanti problemi: quale
biennio? Quali percorsi seguono e si “innestano”
su tale biennio. Attorno
al primo problema cerco di abbozzare alcuni ragionamenti (superamento
del biennio “unico” prefigurato negli anni settanta, proposta di bienni
unitari già collocati nei percorsi della scuola secondaria e in grado
di essere “riconosciuti” dalla formazione professionale all’interno
di percorsi integrati che a tali bienni potranno seguire); il secondo
problema non troverà qui l’adeguato approfondimento: il problema della
formazione professionale e della sua riforma è uno dei grandi temi da
affrontare in un processo di innovazione del
sistema formativo e, paradossalmente, proprio la proposta di due sistemi
(o tre, se si pensa anche all’apprendistato) rappresenta un modo per
eluderlo. Sarà dunque necessario che tale problematica venga con forza
ripresa e affrontata nella dimensione opportuna, unitamente ai temi
dell’apprendistato e dell’alternanza. Un punto da cui partire Il punto da cui partire per costruire un ragionamento
argomentato è quello di provare a definire e a condividere i possibili
traguardi formativi da garantire ai ragazzi che lasciano il periodo
della loro vita dedicato centralmente alla formazione, per inserirsi
nel mondo adulto. Quale
bagaglio ciascuno deve aver costruito quando lascia il percorso della
formazione iniziale? Quale formazione di base deve essere posseduta
(costruita nell’infanzia e nell’adolescenza) per vivere pienamente la
propria cittadinanza? 1.
Si deve possedere in modo profondo, persistente e al più alto livello
di consapevolezza quegli strumenti culturali che permettano di leggere
la realtà che ci circonda nelle sue svariate sfaccettature (competenze
culturali). Una formazione culturale profonda, persistente e pervasiva
in grado di permettere l’autonomia nel continuare a fruire per tutta
la vita delle sollecitazioni culturali. 2.
Si deve anche aver sviluppato e valorizzato le proprie competenze culturali
in termini di competenze professionali in modo da potersi rapportare
con l’inserimento nell’attività di lavoro Non
interessa indagare in questa sede se tra le due forme di competenza
ci sia una differenza ”qualitativa”, certamente vi è una differenza
in “peso specifico”: le competenze culturali hanno un alto peso specifico,
di poco inferiore a quello del “fluido” in cui sono immerse, e la parte
che emerge è quindi relativamente piccola. Le competenze culturali sono
“profonde”, rappresentano il consolidamento di strumenti conoscitivi
e di abilità all’interno di mondi di significati culturali, con
una forte valenza storica e sono caratterizzate dai caratteri della
persistenza, trasversalità, trasferibilità essendo la base al sostegno
delle altre competenze. Le competenze culturali non sono raggiungibili
con procedure “automatiche”, sono il frutto di un lavoro di
insegnamento/apprendimento lungo e complesso che coinvolge più
ambiti disciplinari; sono parte perciò del tempo dell’istruzione che
è riflessione, approfondimento, esercizio, ritorno. Non ci sono scorciatoie
per costruire competenze culturali che siano profonde e persistenti. Il
problema che ne deriva è centrale per tutta la riflessione: attraverso
quali percorsi formativi tra i 14 e i 18/19 anni è
possibile garantire il raggiungimento dei due obiettivi individuati? Tra
le possibili strade mi pare stia emergendo una polarizzazione
tra due prospettive: 1.
Costruire due
percorsi formativi alternativi tra loro; uno “lungo” per il raggiungimento
di alcune professioni che all’inizio sia di sola istruzione
(liceale) e che in seguito (università e formazione superiore) si avvicini
alle professioni più alte; un secondo riferito agli altri lavori per
i quali l’istruzione e la formazione professionali rappresentano un
tutt’uno già dai quattordici anni. In questa prospettiva i percorsi
formativi dopo il primo ciclo configurano due
sistemi centrati ciascuno su principi educativi diversi (quello tipico
del liceo “gentiliano” e quello, tutto da costruire denominato “istruzione
e formazione professionale” che abbia la sua origine nel superamento
delle attuali esperienze degli istituti tecnici, degli istituti professionali
e della formazione professionale regionale) 2.
Costruire percorsi
formativi che prevedano un biennio iniziale (unitario) centrato sull’istruzione,
differenziato in riferimento ai grandi campi
del sapere ma unitario nella valenza formativa e percorsi successivi
diversificati in cui si realizzi, in diversa modalità, l’integrazione
tra istruzione e formazione professionale. In questa seconda prospettiva
si individuano come sotto-sistemi quello dell’istruzione
e quello della formazione professionale, che veicola i necessari contenuti
di istruzione ma non si pone come percorso ad esso equivalente e in
alternativa. La
prima impostazione è alla base della legge 53/03 anche se in essa
vengono aggiunti il percorso dell’apprendistato e quello dell’alternanza.
La seconda corrisponde alla proposta che in questa riflessione si vuole
sostenere, individuando un’altra traduzione, tra le possibili, del nuovo
Titolo V. Alcuni chiarimenti sul rapporto
tra istruzione (scuola), formazione professionale e lavoro Prima
di sviluppare i ragionamenti sulle due prospettive, mi pare utile inserire
alcune osservazioni e alcuni chiarimenti: 1.
Scuola e formazione al lavoro.
La fascia di età 14-18/19 contiene sempre meno
il lavoro. In questi anni la presenza del lavoro è significativa
solo se non separata dalla sua dimensione formativa; è da ritenere improponibile
ogni forma di lavoro non veicolata dalla dimensione formativa. È troppo
importante che la tappa della formazione culturale tra i 14 e i 18/19
anni non sia saltata o vissuta in modo non adeguato; non potrebbe essere
pienamente recuperata successivamente. Va inoltre
sottolineato che le possibilità reali di accesso alla formazione
per tutta la vita sono direttamente proporzionali alla qualità della
formazione culturale sotto i 18 anni: anche per la formazione piove
sempre sul bagnato. Rimane
pienamente valido il processo di avvicinamento
formativo all’età adulta: - Il periodo dell’istruzione (fino ai 16 anni) rappresenta,
per tutti, il “tempo della scuola”, della formazione culturale da consolidare
e rendere persistente e stabile, dell’acquisizione delle competenze
culturali di base in grado di sostenere la
capacità di apprendere per tutta la vita. Deve essere articolato in
fasce scolari in modo da corrispondere ai bisogni formativi che
caratterizzano le diverse età (3-6, 6-11, 11-14, 14-16/19) -
Il periodo appena successivo (16÷19 anni) costituisce il tempo del “confine”,
dell’intreccio e della contaminazione tra i sistemi formativi (scuola
formazione professionale, formazione sul lavoro). In particolare è importante
recuperare e far evolvere l’esperienza e l’elaborazione
realizzate negli istituti professionali e legate al curricolo
del terzo anno (qualifica) e dei due anni post-qualifica. -
Nella formazione per tutto l’arco della vita, nel “tempo del lavoro”,
la scuola deve rimanere un punto di riferimento significativo
sia a livello della riconversione professionale che dell’approfondimento
culturale. Sarà fondamentale intercettare l’esperienza e le competenze
di cui l’adulto è portatore e dalle quali deve partire il percorso d’approfondimento
culturale e professionale Quale
cultura serve aver acquisito per il lavoro?
Si potrebbe semplificare dicendo che “serve” quella cultura che
garantisce “occupabilità”, concetto recente che Luciano Gallino specifica
come «una caratteristica personale definibile come una somma variabile
di competenze formali, di fare pratico, di capacità di lavorare con
altri, di esperienza su terreno», la caratteristica
che «fa venir voglia a quel dato datore di lavoro di assumere subito
l’individuo che risulta possederla (…) mentre gli fa sembrare insensata
l’idea di licenziarlo/la quando è un suo dipendente».
La
cultura del lavoro è dunque quella capacità di dare operatività ad un
sistema di conoscenze, di ordinarle, di organizzarle all’interno di
un processo lavorativo. Un
dato determinante è che essa si è profondamente
trasformata com’è mutato il suo rapporto con la cultura scolastica. Le
modificazioni del mercato del lavoro, l’incremento di complessità e
di rapidità evolutiva delle professionalità, hanno fatto saltare un
equilibrio che continuava a reggere, giustificare e governare l’assetto
del sistema scolastico gentiliano tra i 14 e i 19 anni: una scuola libera,
senza apparenti legami con la dimensione lavorativa (formativa in quanto “oziosa”), una scuola vincolata al raggiungimento di livelli stretti di professionalità
e una scuola interna alla
dimensione lavorativa. Viene
a cadere la tesi che, assumendo la scuola come variabile dipendente
e passiva nella programmazione economica, vede il mercato del lavoro
come il riferimento meccanico per l’orientamento degli indirizzi professionalizzanti,
mentre l’area dei licei può rimanere completamente estranea alle dinamiche
e alle trasformazioni del mondo del lavoro, da intercettare solo nella
tappa formativa successiva. Il
rapporto scuola-lavoro diventa meno lineare, meno determinato e meno
determinabile, più complesso, interattivo, in grado di colloquiare con
entrambi i percorsi formativi. Il
mutamento produttivo, economico e sociale, l’evoluzione delle conoscenze
e in particolare del sapere tecnologico, sono talmente rapidi da produrre
profili professionali caratterizzati contemporaneamente da un’alta specializzazione
e da una rapida trasformazione e instabilità; è il concetto, ormai abusato,
di flessibilità. Ma come costruire
figure professionali flessibili e, contemporaneamente, ad alto livello
di specializzazione? Non
certo anticipando il momento della specializzazione:
i tempi lunghi di formazione specialistica e settoriale caratterizzavano
i profili professionali rigidi e duraturi tali da coprire l’intero periodo
della vita lavorativa. Crescono
le competenze trasversali e le abilità comunicative e di comprensione/interazione
all'interno di situazioni complesse e in forte, continua evoluzione. Il lavoro insomma, tende ad incorporare quantità sempre maggiori
di conoscenze/competenze culturali e non solo nelle fasce di professionalità medio-alte.
Ogni area significativa di professionalità
presuppone sempre più un livello alto di formazione culturale. Proprio
la nuova tipologia della specializzazione legata alle nuove tecnologie
e il suo bisogno di flessibilità sono compatibili
unicamente con una base di formazione di ampio e consolidato respiro
culturale che solo ad un certo momento si orienti e si pieghi verso
lo specifico settore professionale. Coloro che non possiedono tale base
culturale sono destinati a subire la flessibilità che caratterizza il
lavoro. E'
il definirsi di un nuovo concetto di professionalità non più statico
(raggiungibile una volta per tutte nella vita
lavorativa) ma dinamico "attivo", professionalità come capacità
di dare ordinamento, organizzazione e operatività ad un insieme di conoscenze,
all'interno di un processo produttivo ampio, costruita su un bagaglio
di conoscenze (generale e specialistiche), sulla capacità di "astrarre"
sulle conoscenze, di "operativizzare", di apprendere autonomamente,
professionalità come cultura in atto, in azione, parafrasando Cartesio
professionalità come «cultura attiva». La ricaduta sulla scuola non può che essere significativa: la scuola assume, per tutti i suoi percorsi,
un ruolo centrale nel produrre quella formazione culturale forte intesa
come elemento base della futura professionalità, senza dover mortificare
il compito, che le è proprio, di costruire quella formazione culturale
comune necessaria ai bisogni di crescita e di identità di tutti i giovani
cittadini La
cultura stessa, nel suo valore autonomo diviene base della formazione
alle professioni; la formazione culturale generale e quella specifica
non più separate nel metodo e nella funzione.
Lo specialismo può avere cittadinanza nella scuola della formazione
culturale purché sia in grado di riprodurre, di svelare un abbozzo di
visione del mondo. Come rinforzo si può recuperare un concetto di Giancarlo
Lombardi (1993): «...la scuola prima ancora che fattore decisivo di
sviluppo economico, è il luogo di acquisizione
sistematica e critica della cultura, luogo in cui si promuove lo sviluppo
della persona umana. La scuola,
insomma, prima che risorsa economica, è una risorsa civile in
quanto sede dei processi di umanizzazione e socializzazione delle
nuove generazioni. È altrettanto vero che una scuola di qualità è condizione
indispensabile per lo sviluppo economico del Paese.» Alla
scuola secondaria superiore si ripropone, già
dai primi anni, il compito di costruire le basi culturali delle professioni,
vale a dire la formazione di base al lavoro, non di raggiungere professionalità
compiute. Ma
ciò può funzionare solo se accanto alla scuola vengono a trovarsi altri
momenti formativi in grado di completare il percorso di
avvicinamento alle professionalità compiute: è ancora il bisogno
di un vero sistema formativo integrato ad emergere. Innanzi
tutto è determinante che la formazione professionale,
attraverso una sua profonda riforma, sia messa in condizione di poter
sviluppare pienamente la sua vocazione istituzionale di diventare l'anello
di raccordo con il tempo del lavoro liberandosi dalla necessità di surrogare
e supplire a compiti propri della
scuola, per essere in grado di concentrarsi sugli interventi che le
sono specifici: dalla qualificazione
iniziale successiva all’obbligo, alle forme di professionalizzazione
e di perfezionamento successive al diploma, al sistema di rientri con
la scuola secondaria, alla riconversione e riqualificazione della forza-lavoro
in mobilità. Diventa inoltre importante che anche l'impresa si proponga
e venga riconosciuta come luogo di formazione,
proprio l'impresa che oggi sta enfatizzando il ruolo strategico dei
processi formativi come fonte primaria delle qualità delle risorse umane
deve risultare impegnata a raccogliere e potenziare lo sforzo educativo-formativo
della scuola e della formazione professionale per rendere reali le valenze
formative del lavoro quando è costruito sulla valorizzazione dell'esperienza
umana. 2.
Istruzione e formazione professionale.
In sede di analisi è possibile individuare
due funzioni/dimensioni della formazione: la prima si chiama istruzione
(senza aggettivi) la seconda si chiama formazione professionale. È fondamentale
che alla base e a premessa delle argomentazioni sul rapporto tra istruzione
e formazione professionale si pongano alcuni chiarimenti attorno al
significato che si vuole attribuire ai due concetti. Rappresentano
funzioni distinte anche se non separate, non sono mai pienamente in
alternativa, sono complementari e devono, nel corso della vita,
riconoscersi e integrarsi. Sostanzialmente
sono realizzate da soggetti e in ambienti anch’essi distinti che però
non devono essere separati. L’istruzione
è al centro delle funzioni della scuola come la formazione
professionale è al centro delle agenzie di formazione professionale
e dei percorsi formativi in ambiente di lavoro. L’approfondimento
del ragionamento può permettere di superare alcuni luoghi comuni: l’Istruzione
non si riduce alla trasmissione di conoscenze inerti e la Formazione
Professionale non si risolve nell’addestramento o in una forma minore
d’istruzione; sono esperienze formative diverse ma ugualmente essenziali
e non in alternativa. La
distinzione è nella natura, nell’identità, nella ragione sociale e istituzionale
e l’unione sta nella complementarità, nell’intreccio che caratterizza
le zone di confine. È su tali identità e complementarità che si basa la costruzione del sistema formativo integrato. Il concetto d’istruzione, senza aggettivi, corrisponde
a quello di formazione culturale (formazione di “conoscenze attive”);
rappresenta un processo unitario anche se assume forme diverse sulla
base dei diversi approcci conoscitivi (uso formativo dei saperi disciplinari),
sostiene la formazione professionale, comprende tutte le forme di conoscenza
(dichiarative, procedurali, “come si fa”, è costitutivo della cittadinanza.
La valenza educativa dell’istruzione è fondamentalmente
contenuta nella qualità della formazione culturale Attraverso
la formazione professionale [2] , l’aggettivo è necessario, si sviluppano
le competenze professionali partendo dalla cultura posseduta (è questa
la valenza pre-professionale della cultura); la formazione professionale
fa parte del “tempo del lavoro” e al lavoro è collegata; è centrata
sulla forma conoscitiva del “come si fa”; in essa
le conoscenze sono “dosate” e finalizzate; veicola certo anche istruzione
ma come necessità di integrazione, utilizza strumenti metodologici e
un impianto organizzativo specifici rappresenta il tempo/luogo di collegamento
tra istruzione e lavoro riducendo la discontinuità. In
ogni percorso di formazione (in particolare se rivolto a persone in
età evolutiva) si possono individuare tre piani di
intervento: la cura del sé, la formazione culturale, la formazione
per il lavoro. Proprio attraverso questi piani è possibile riflettere sulle due funzioni/dimensioni/sottosistemi
della formazione. Nel
percorso di istruzione la cura del sé è rivolta
trasversalmente ad ogni aspetto dell’identità che si sta costruendo.
Ogni attività didattica e curricolare è intrinsecamente coinvolta nella
cura del sé dello studente. Si pensi al ruolo che assume la letteratura
di formazione nell’età dell’adolescenza. La valenza del processo formativo
di sostenere adeguatamente la formazione delle identità individuali
si gioca nella qualità del fare scuola in cui la qualità della relazione
e l’intensità del protagonismo degli studenti sono interne e integrate
all’insegnamento/apprendimento. L’asse
centrale dell’istruzione è ovviamente la formazione culturale necessaria
per rendere possibile l’apprendimento per tutto il corso della vita.
La scuola prevede tempi lunghi il raggiungimento di competenze culturali
che solo secondariamente hanno finalità professionalizzanti: il concetto
di studio disinteressato (se non frainteso e confuso con il liceocentrismo) corrisponde bene alla definizione della cultura della
scuola. L’istruzione
è il tempo/luogo della consapevolezza in cui l'apprendimento spontaneo,
televisivo, “elettronico”, del senso comune, dell’esperienza concreta
incontra il sapere dei “vincoli” che caratterizza la cultura scolastica
costruita appunto sui vincoli-"discipline"; ed è questa una
lunga, lenta e fondamentale esperienza conoscitiva che tutti devono
poter incontrare e percorrere in modo compiuto in modo da poter consolidare
gli alfabeti e quelle competenze culturali (compreso il gusto della
competenza) che possono sorreggerli e renderli attivi, contenendo il
rischio di bassa persistenza che la strumentazione conoscitiva porta
con sé. Il
processo di innovazione deve garantire che
la cultura della scuola diventi, ad ogni livello e per ogni area disciplinare,
vera conoscenza
attiva in grado di intercettare la cultura dei bambini e dei
giovani e di giocare un forte ruolo nella costruzione della cultura
del lavoro e della cittadinanza; va invece superata la logica che continua
ad accettare la cultura scolastica come erudizione alla quale aggiungere
scampoli di “operatività”. Socializzazione,
apprendimento, funzione conoscitiva e poi ancora cognitivo, emotivo,
non sono elementi da contrapporre: c’è uno specifico scolastico che
li fa dialogare in un equilibrio continuamente ricostruito; uno specifico
dello stare a scuola non totalizzante ma significativo,
in cui il dilemma educazione-istruzione si risolve nell’apprendimento
come atto di socializzazione, nell’apprendimento situato in precisi
ambiti di relazioni sociali, emotive e di stimoli culturali. Spesso
evidenziando la differenza tra gli aspetti "teorici" e quelli
"operativi", tra l’approccio "deduttivo" e quello
"induttivo", tra quelli dell'"astrazione" e quelli
dell'"esperienza" si finisce per concepirli come percorsi
autosufficienti e separati che possono portare a risultati formativi
equivalenti. É un ragionamento
fuorviante, se non strumentale alla tesi della canalizzazione; la scuola
(principale responsabile dei percorsi di istruzione)
non è meno operativa ed esperienziale della formazione professionale
(semmai lo è la caricatura della scuola). L’esperienza
conoscitiva, l’esperienza di apprendere non è una delle tante funzioni
della scuola da affiancare ad altre o, talmente forte, da produrre l’esclusione
delle altre: rappresenta invece il nodo centrale dell’esperienza scolastica,
il nodo attorno al quale si costruiscono e si intrecciano
le altre dimensioni dello stare a scuola. Le
competenze culturali non possono essere pensate come estranee alla cultura
delle professioni. È
importante riflettere come le fondamentali basi culturali delle professioni
vengano costruite proprio all’interno di tutto il percorso
di istruzione (cosa c’è di più imprescindibile per qualsiasi lavoro
dell’acquisizione ad un alto livello delle competenze di letto-scrittura?). Sono competenze però sviluppate senza una stretta
finalità in riferimento ai singoli profili
professionali; è tale autonomia che ne garantisce la profondità, la
trasversalità la pervasività e la persistenza. La miopia di una loro
finalizzazione/dosatura intaccherebbe proprio queste
indispensabili caratteristiche. Rimane
il problema relativo al livello di professionalità
che la formazione scolastica può porsi come obiettivo. É
l’antica e sempre attuale questione del ruolo della scuola nel formare
alle professioni, al lavoro. Non è possibile, inoltre, affrontare il tema in modo
indifferenziato, come se avesse la stessa valenza e significato per
tutte le fasce di scolarità; è fondamentale ragionare sui livelli cui
il rapporto scuola-professione si colloca e all’interno dei quali assume
forme e dimensioni certo diverse a 14/16 anni rispetto a 16/19 anni. I
percorsi di formazione professionale sono costruiti attorno alla finalità
centrale di dare forma, contenuti alle competenze culturali in termini
di competenze professionali. È uno specifico che non appartiene all’istruzione:
presuppone una conoscenza non approssimativa del mercato del lavoro
nella sua evoluzione (in tempo reale) e la capacità di costruire, partendo
dal bilancio delle competenze culturali/professionali possedute, profili
professionali in grado di corrispondere alle reali esigenze del mondo
del lavoro. Per
formare un “riparatore di lavastoviglie” serve una profonda preparazione
culturale che comprenda la dimensione tecnologica
(necessariamente costruita con i tempi lunghi dell’istruzione) e una
specifica formazione professionale riferita alle tecnologie con cui
sono costruite oggi le lavastoviglie, realizzata in un corso altamente
qualificato. Le
competenze professionali prevedono certamente una
ulteriore acquisizione di conoscenze e competenze culturali.
In questo caso però esse sono finalizzate all’ambito professionale e
presuppongono le basi culturali che rendano
possibile tale acquisizione. Un esempio: lo studio dei numeri complessi
in riferimento alle competenze di elettrotecnica
prevede competenze matematiche acquisite precedentemente ovviamente
senza alcuna finalizzazione nei luoghi e con i tempi dell’istruzione. Per
la cura del sé vale un analogo ragionamento. L’inserimento in una attività lavorativa prevede il possesso di competenze sociali
e di relazione che proprio nella formazione professionale possono acquisire
il necessario spessore in particolare nelle fasi di interazione reale
con l’ambiente di lavoro (stage/tirocini, e relative riflessioni). Si può rilevare come istruzione e formazione professionale
siano distinte anche se si intrecciano e sono
da sole insufficienti, hanno bisogno di integrarsi. Prevedono il reciproco riconoscimento e forme
di co-progettazione delle zone di confine e di integrazione.
Prevedono nel contempo che ciascuna risulti
portatrice di una specifica e forte identità formativa. Istruzione
e formazione professionale si configurano dunque come due sottosistemi
integrati della formazione. Sarebbe
un errore non riconoscere tale distinzione per costruirne un’altra,
quella tra una forma di istruzione “pura” (il
liceo di Gentile) e l’istruzione/formazione professionale costruita
su diverso principio educativo (che finalizza e motiva l’istruzione
alla professione da costruire). Questa scelta diventa ancor più scorretta
se applicata già ai percorsi per i quattordicenni. Fino
ad una certa età la formazione coincide con l’Istruzione, dopo le due
forme interagiscono e si integrano e solo in
questa accezione non sono tra loro subordinate. 3.
Lavoro e cultura tecnologica nei
percorsi formativi. Sul rapporto scuola-lavoro si
giocano una serie di fraintendimenti e si costruiscono tanti luoghi
comuni. Quale rapporto deve avere la scuola con il lavoro? L’idea che
siccome la scuola è teoria, porta a pensare che sia sufficiente aggiungervi,
ogni tanto, pezzettini di pratica, scampoli
di operatività. Questa è la semplificazione/banalizzazione del rapporto che ci può essere a scuola tra
scuola e lavoro. Si devono invece percorrere strade molto diverse e
non far coincidere in modo riduttivo e approssimativo la cultura tecnologica
(una componente dell’istruzione senza aggettivi) con il percorso
di costruzione delle professioni. Fino
ad una certa età il rapporto tra scuola e lavoro per definizione è solo nel percorso interno al curricolo, nell’esperienza conoscitiva,
la scuola non può incontrare il lavoro reale, il lavoro non è sinonimo
di operare, costruire degli oggetti, il lavoro non è separabile dall’essere
interno ad un rapporto di lavoro. È fondamentale che la scuola impari
a incontrare la cultura del lavoro ma lo può
fare con i mezzi e gli strumenti che le sono propri, cioè quelli della
cultura. Il lavoro è storicamente luogo di produzione di
cultura. La tecnologia (nell’accezione
di cultura tecnologica) potrebbe essere una modalità
per intercettarla, ma la tecnologia per farlo deve essere assunta nella
scuola come vero sapere, come approccio originale alla conoscenza, come
linguaggio, fattore di cultura o di formazione generale e non come elemento
professionalizzante (in senso specialistico) da scongiurare nei licei
e da confinare negli istituti tecnici e professionali. L’insufficienza
della ricerca epistemologica relativamente alle
scienze tecnologiche, la trasformazione dei processi produttivi e l’incredibile
impatto delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione rendono
problematica la stessa sistemazione statutaria ma la sua traduzione
in curricolo. L’accezione
di scienza dei sistemi artificiali, ancorati nella loro dimensione storica,
è quella maggiormente significativa per ripensare
la valenza formativa che la tecnologia potrà assumere nel curricolo
verticale nei primi due anni del secondo ciclo. Scienze dell'artificiale è il nome con cui Herbert Simon definisce quell’insieme di conoscenze che hanno
come oggetto l’ampio ventaglio di attività
volte alla progettazione, alla costruzione e trasformazione di qualcosa
in vista di determinati obiettivi e di un migliore rapporto tra uomo
e natura. La
tecnologia possiede quindi uno specifico oggetto di studio, e utilizza
tutto il sapere disponibile: in questo senso intercetta e finalizza
molti altri approcci conoscitivi (in particolare le conoscenze delle
scienze sperimentali) attivando però un proprio specifico di ricerca. La
tecnologia si interessa di artefatti, di oggetti
e sistemi artificiali, di procedure; comprende nello studio i processi
produttivi e le Tecnologie della Informazione e della Comunicazione
ma non si esaurisce in essi. Il concetto di «sistema artificiale»
rappresentata la dimensione centrale dell’accezione di tecnologia da
utilizzare a scopi formativi: la tecnologia comprende allora sia lo
studio e la ricerca sui sistemi artificiali (similmente alle scienze
sperimentali) sia la costruzione/trasformazione
di sistemi artificiali (con procedure inverse a quelle delle scienze
sperimentali). Per la tecnologia la «realtà»
è rappresentata dai sistemi artificiali caratterizzati dai paradigmi
della finalizzazione, della strumentalità, della funzionalità, della
fattibilità efficiente, della verificabilità e dell'affidabilità a cui
si somma il problema dell’impatto con il sistema “naturale”. Proprio
il paradigma della fattibilità
efficiente segna la rivoluzione prodotta dal processo di
industrializzazione; ponendosi come un ulteriore vertice al triangolo
di Vitruvio (funzione, resistenza/stabilità e estetica) lo trasforma
nel tetraedro che caratterizza i sistemi produttivi e gli artefatti
industriali. I
modelli in tecnologia sono sistemi analoghi dei sistemi artificiali;
in buona parte sono sistemi analoghi con struttura lineare o ad albero:
il più generale e noto è diagramma di flusso, modello del ciclo produttivo.
L'organizzazione e il controllo dei processi, unitamente ai meccanismi
di retroazione e di anticipazione sono elementi centrali della struttura tecnologica. L’uso
e il governo/controllo di sistemi artificiali accanto ai processi per
la loro realizzazione, rappresentano un serbatoio di procedure conoscitive,
di vere e originali modalità di pensiero, di
metodi e di linguaggi che la scuola deve riuscire ad attivare nel suo
processo di rinnovamento. La proposta dei due sistemi (dei
licei e dell’istruzione/formazione professionale) La
proposta contenuta nella L.53/03 e sostenuta,
anche se in formulazioni diverse, in alcuni documenti presenti nel dibattito
dalla metà degli anni ’90, è sostanzialmente riconducibile all’idea
di rivalutare la formazione professionale come percorso formativo alternativo
a quello dell’istruzione almeno dai 13/14 anni in poi. Nel
testo della legge e in significativi documenti
della commissione presieduta da Giuseppe Bertagna è possibile ricavare
le giustificazioni culturali e pedagogiche. Ogni sistema si costruisce su principi educativi propri:
i licei (istruzione di natura “secondaria di II grado”, ma senza altri
aggettivi) centrati sul conoscere
e teorizzare, sul rapportarsi con le idee e con le relazioni intellettuali formali
tra le conoscenze, sulla cultura
alla seconda potenza (metagiudizio,
metacognizione, con risvolti su tutti gli aspetti
della personalità), l’istruzione e la formazione professionale (in
cui “professionale” è riferito anche a “istruzione”) centrate sul fare, sul produrre, sull’operare,
sul costruire intesi come
immettere le idee (le conoscenze) nella realtà,
mediante apposite operazioni di progettazione e di trasformazione che
diventano poi pratiche professionali esperte. Alla base di tale
separazione vi è un ragionamento esplicitato nel rapporto della commissione:
«Conoscere, e agire, costruire e produrre per
lo scopo principale di conoscere non è la stessa cosa che conoscere
per lo scopo principale di agire, costruire e produrre. Sono orientamenti
che si intrecciano, ma che non si confondono. L’istruzione desidera
soprattutto concentrarsi sul conoscere secondario: sul sapere. La formazione
sul produrre che implica conoscenze altrettanto secondarie: sul fare
sapendo sempre ciò che si fa e perché lo si
deve fare in un modo piuttosto che in un altro. Qualche giovane è più
attirato dalle dimensioni grammaticali e teoretiche del sapere; altri
da quelle pragmatiche ed operative del sapere di cui ha
bisogno qualsiasi fare umano. Qualcuno più dalla scienza, altri più
dalla tecnica. Prendere atto di queste diversità aiuta a non affrontare
la questione in maniera ideologica, ma rispettosa sia
dei suoi aspetti educativi, sia di quelli epistemologici. Si tratta
allora di affrontare senza i pregiudizi del passato il problema della
formazione in generale e della formazione professionale in particolare». Bertagna
e i componenti della commissione ministeriale
hanno sempre rifiutato di definire i due percorsi come due canali paralleli
(a tale scopo prevedono la possibilità dei passaggi) ma è difficile
non ammettere che il primo percorso è costruito sullo studio “disinteressato”
e finalizzato solo alla formazione culturale, mentre nel secondo sarà
difficile impedire che le conoscenze vengano “selezionate” e “dosate”
in riferimento alla formazione professionale da raggiungere e che, quindi,
i passaggi eventuali saranno solo dal primo verso il secondo percorso. Nei
documenti riferiti ai licei questi concetti vengono
rafforzati: il liceo «trova la sua causa finale nella theoria», «ovvero al conoscere fine a se stesso, in quanto formazione
della persona. Il suo fine specifico si colloca, dunque, nel “vedere
conoscitivo” e, sebbene sempre utilizzi (e debba utilizzare) téchne (…), lo fa per elaborare theoria o, comunque,
per mostrare come, senza tecniche, non sarebbe possibile accreditare
la certezza e l’affidabilità di qualsiasi conoscenza.» L’asse
e la forza culturali rimangono quelli del liceo classico con otto “piegature”.
Tutti i ragionamenti sviluppati dagli anni settanta ad oggi (compresi
quelli contenuti nel progetto della Commissione “Brocca”) sono cancellati. Ovviamente
per il sistema dell’istruzione e della formazione professionale non
è seguita l’elaborazione ministeriale essendo questo sistema, nella
lettera della legge 53, competenza esclusiva delle Regioni (a parte
i livelli essenziali di prestazione). La
formazione professionale (intrecciata alla istruzione
professionale) non viene quindi proposta come un percorso di risulta,
realizzato abbassando gli obiettivi del liceo, non un liceo di serie
B, bensì come percorso concepito su un principio educativo proprio.
La non subalternità è però solo apparente. La
subalternità è proprio nella tesi che regge
i due sistemi e che si basa su alcuni assunti che provo ad esplicitare: 1.
Si giustificano attraverso un’interpretazione forzata dell’art. 117
del nuovo titolo V della costituzione. La configurazione dopo il primo
ciclo di due sistemi così separati è una scelta politica e non obbligata:
l’attuazione del nuovo titolo V è tutta da definire, le scelte costituzionalmente
legittime possono essere diverse da quella contenuta nella L.53. 2. La proposta di un liceo parossisticamente gentiliano
a fronte di un secondo percorso di formazione professionale (per quanto
“nobilitato”) esprime la convinzione che la nostra scuola secondaria
di secondo grado sia non-riformabile: funziona (nella versione purificata
del liceo classico di Gentile) per una parte della popolazione (per
la quale è insostituibile) e non è proponibile
per la rimanente. 3. La giustificazione del secondo sistema si regge
su due ragionamenti opposti e
tra loro contraddittori: a volte si propone come un canale realmente
alternativo a quello dei licei in quanto dotato
di uguale valenza formativa e quindi con la possibilità di attrarre
qualsiasi studente (non sarebbe quindi rivolto a quelli in difficoltà
bensì al 60% dei ragazzi), in altre occasioni si spiega la necessità
di anticipare a 13/14 anni il percorso di formazione professionale proprio per ridurre
la dispersione (e quindi dovrebbe intercettare quelli che la scuola
altrimenti boccerebbe). 4. Quanto contenuto già nella legge 53 e il dibattito
in corso fa pensare che a fronte di un sistema dei licei compatto e
rivolto alla formazione universitaria (finalizzato a garantire e proteggere
coloro che sono “tagliati” per la theoria), il secondo sistema
finisca per articolarsi in percorsi diversificati come qualità degli
obiettivi (percorso che porta al diploma, percorso di formazione professionale
che porta alla qualifica, percorso attuato nell’apprendistato…). Tanto valeva adottare la
proposta di ritoccare i licei, gli istituti tecnici (e magari anche
gli istituti professionali) puntando a costruire percorsi brevi (triennali)
di formazione professionale di qualità (e quindi necessitanti di forti
investimenti) rivolti ad intercettare i ragazzi in grave difficoltà.
Forse è quello che si sta preparando come possibile uscita. La prospettiva rappresenta a mio parere, al di là delle buone intenzioni, la rinuncia alla riforma della
scuola secondaria di secondo grado e del ruolo che avrebbe potuto svolgere
nell’emancipazione sociale. La proposta, nella filosofia originaria,
che certo troverà molte difficoltà ad essere perseguita, potrà solo
produrre un sistema di serie A (per coloro che hanno
maturato a 11/12 anni buoni risultati scolastici) e un sistema di serie
B (per i ragazzi in difficoltà scolastica). L’essere di serie A
o di serie B non dipenderà dalla volontà del legislatore ma dall’impatto
con la realtà e dalle dinamiche che effettivamente verranno a determinarsi.
Le tendenze nelle iscrizioni che già stanno emergendo ne sono un segnale. Meriterà anche analizzare gli effetti collaterali
che tale scelta produrrà a cascata sul primo ciclo e in modo particolarissimo
sul delicato terzo anno della scuola secondaria di primo grado. Perché elevare l’obbligo dell’istruzione
nei bienni di scuola secondaria di secondo grado Nell’età della prima adolescenza
(14-16) si ritrova il nodo storico, e non ancora risolto,
della scuola negli ultimi 30 anni vale a dire la definizione
della natura delle scelte e quindi del ventaglio delle proposte di percorsi
formativi da proporre ai ragazzi al termine della scuola di base. Dagli anni settanta si è continuamente
ripresentata l’oscillazione tra la proposta di percorsi onnicomprensivi
di scuola secondaria superiore che rimandassero la formazione professionale
oltre i diciotto anni per tutti e quella di percorsi paralleli di scuola
e formazione professionale già dai quattordici anni. Negli
ultimi anni si era operato attorno all’indirizzo di considerare il primo
biennio della scuola secondaria superiore come tassello conclusivo dell’obbligo
all’istruzione e i diciotto anni come l’età in cui portare a termine
il tempo dell’obbligo formativo. Il
biennio viene valutato, in questa impostazione,
come la fascia scolare, dotata di propria identità curricolare, che
rappresenta lo snodo non sostituibile per il compimento e lo sviluppo
di alcune funzioni centrali della scuola: -
In primo luogo nel biennio, attraverso la scelta dell'indirizzo, si
concretizza l'orientamento costruito durante la scuola di base.
E' la prima scelta che i ragazzi sono chiamati a fare e quindi svolge
un ruolo non marginale per la crescita della persona sia a livello culturale
sia a livello affettivo; l'esercizio di una scelta rappresenta una tappa
fondamentale del processo di orientamento e
corrisponde ad un bisogno che caratterizza l'età: mettersi alla prova
in quei campi del sapere che risultano più vicini alle attitudini e
alle competenze fino ad ora sviluppate. E' una scelta da sperimentare,
consolidare o modificare nei due anni e confermare consapevolmente al
termine del biennio. Si impara a governare
le scelte e ad assumersi responsabilità sulla propria vita e sul proprio
futuro. Ma, a questa età, è una scelta che
deve avvenire tra percorsi scolastici caratterizzati da una sostanziale
equivalenza formativa. -
In secondo luogo il biennio rappresenta la conclusione della formazione
di base che solo a tale età è possibile realizzare
attraverso lo sviluppo di livelli più maturi di competenza culturale
e di sicurezza necessari a sostenere l'apprendimento per tutta la vita
e un lavoro veramente umano. -
Infine si pongono le basi dei corsi quinquennali della scuola secondaria
superiore e per i primi percorsi di formazione professionale. La contrapposizione
rigida tra licei e formazione professionale, soprattutto nella fascia
del biennio non corrisponde né alle esigenze del mondo del lavoro, né
a quelle di formazione degli adolescenti. È
determinante considerare pienamente il biennio
come quel tassello dell'istruzione da garantire a tutti affinché non
si interrompa l'esperienza scolastica proprio nell'età in cui il consolidamento
culturale non è ancora pienamente realizzato. Il differenziare
precocemente i percorsi formativi metterebbe in discussione il ruolo
della scuola come luogo di "decondizionamento sociale". Una
scuola che rinunciasse a corrispondere ai bisogni di formazione culturale
alta per tutti e riscoprisse la vocazione alla selezione attraverso
una separazione precoce dei ragazzi in percorsi con valenza formativa
diversa, rappresenterebbe un passo indietro nello sviluppo della società
in senso democratico e una risposta miope, arretrata e insufficiente
anche alle richieste del mercato del lavoro, finendo proprio per ridurre
la formazione di molti cittadini alle esigenze contingenti del mondo
della produzione. In
questa logica la formazione professionale non può essere posta in alternativa all’istruzione prima della conclusione del biennio;
diventa invece un asse portante, una risorsa su cui investire del sistema
formativo integrato sia nel periodo del diritto/dovere alla formazione
(16-18) sia per tutto l’arco della vita.
E'
questa una difficile sfida per la scuola che si vince solo con la qualità:
ai ragazzi in difficoltà si deve poter proporre una scuola che, senza
rinunciare alla propria funzione, sia in grado di intercettare la loro
esperienza conoscitiva, evitando la suggestione di un percorso rinunciatario
che salti alcune tappe formative, in nome del rispetto di
ipotetiche e precoci "vocazioni" al lavoro. Le scuole hanno già costruito esperienze di grande significato; si può partire proprio dalla loro valorizzazione
e sviluppo. Non
è compito di questa riflessione sviluppare le possibili articolazioni
del sistema formativo per la fascia di 14-19. Solo
alcuni riferimenti generali e schematici. Il
processo di innovazione potrebbe essere riferito
a costruire percorsi di istruzione secondaria superiore definiti attorno
a significative aree di sapere a cui si collegano in prospettiva ampie
aree di professionalità (es.: area “economica” à professionalità in ambito economico-amministrativo…) Le
aree/indirizzi potrebbero essere: Artistico, Classico, Economico, Linguistico,
Musicale, Politecnico, Scientifico, Scienze sociali (…). Ovviamente
alcune aree potrebbero essere presenti nello stesso Polo-Istituto di
Istruzione Superiore. Ogni
indirizzo è caratterizzato da un primo biennio (nel tempo dell’obbligo
dell’istruzione) con forte impianto unitario: unitarietà orizzontale
(garanzia dell’equivalenza formativa con i bienni degli altri indirizzi)
e coerenza curricolare interna all’indirizzo (verticale e orizzontale) I
bienni unitari avrebbero come finalità l’orientamento
attraverso la pratica di una
scelta, la conclusione della formazione di base, la costruzione delle
basi dei percorsi quinquennali e per i
percorsi di formazione professionale iniziale. Il biennio viene
dunque progettato come fascia scolare dotata di propria identità curricolare
ma interna al progetto verticale e progressivo 3-19. Si
potrebbe pensare ad un curricolo di 33 ore (es. 30 sulle discipline
e 3 ore di area di progetto) senza la soluzione dell’opzionalità (già
contenuta nella scelta dell’indirizzo).
Al
biennio seguono (nello stesso Polo-Istituto) percorsi che conducono
a risultati formativi compiuti: a. percorsi sostanzialmente
di istruzione con un taglio che rinnovi significativamente gli impianti
degli attuali trienni (dei licei e degli istituti tecnici) b. percorsi di
intreccio (a diversi possibili livelli) con la formazione professionale Questi
percorsi rappresentano la base
per il terzo livello della formazione (università, istruzione tecnica
superiore) Lo
sviluppo dell’impianto curricolare deve tener conto dell’età dei ragazzi
(in particolare l’ultimo anno va progettato rispettando i bisogni formativi
specifici) La
logica esposta permetterebbe: - il recupero degli aspetti
positivi e funzionanti del nostro sistema scolastico da anni soggetto
di innovazione (biennio + diverse tipologie di triennio) e il superamento
degli aspetti negativi (innovazione radicale di alcune criticità). È
cioè un processo di innovazione “ecologico” - l’integrazione non duale della istruzione con la formazione professionale - il rispetto e l’attuazione del titolo V - il potenziamento della scuola come sede di ricerca didattico-disciplinare Alcuni effetti diretti e indiretti dell’elevamento dell’obbligo nei
bienni unitari
Cosa
significa prospettare un ciclo che contenga bienni unitari di
istruzione? Quali conseguenze comporta
sull’intero sistema di formazione il permanere di tutti i ragazzi della
fascia di età dai 14 ai 16 anni in bienni di istruzione? -
A quattordici anni la separazione avviene solo in
riferimento alle grandi aree di sapere (che caratterizzano l’indirizzo)
e non sulla base delle aspettative di studio maturate: questo secondo
livello della scelta verrà effettuato dopo i 16 anni alla conclusione
dell’obbligo di istruzione e quindi non determina ancora i criteri della
separazione tra gli studenti. -
Molto importanti sono gli aspetti positivi
che ne derivano: questa è la condizione per lo sviluppo dell’orientamento
nella specifica fascia di età, per dare spessore alla formazione di
base e per rendere possibile, nel periodo successivo, i percorsi di
formazione professionale. Al
di là della retorica
è la condizione necessaria per garantire il diritto allo studio e la
qualità della formazione professionale iniziale. -
L’obbligatorietà che comprenda i bienni unitari
rinnova radicalmente il progetto curricolare verticale. L’intero percorso
scolastico precedente ne sarebbe coinvolto: si pensi a quale respiro
per i curricoli di storia, di matematica, e via via di tutte le altre
discipline. Sarebbe finalmente possibile costruire curricoli verticali
e progressivi in grado di rispettare i tempi e i modi di crescita di
ciascuno e praticare una individualizzazione dell’insegnamento/ apprendimento meno
fittizia. -
È chiaro però che questi risultati sono possibili solo in
presenza di un miglioramento sostanziale della qualità dell’istruzione.
Tenere
insieme tutti i ragazzi in percorsi differenziati
nella tipologia dell’indirizzo ma equivalenti a livello formativo comporta
un incremento degli investimenti: le differenze di motivazione e di
aspettative verso lo studio presenti in questa fascia di età, non sono
facili da governare; solo la qualità dell’impianto curricolare, degli
spazi, dell’uso del tempo che produca maggiore protagonismo e coinvolgimento
dei soggetti è in grado di trasformare le differenze da problema a ricchezza
formativa. -
Viceversa la separazione sulla base delle diverse prospettive di studio
rappresenterebbe una semplificazione certo utile (anzi necessaria) per
una scuola con bassi investimenti e che non si ponga
obiettivi di emancipazione e mobilità sociale. La priorità da affrontare e approfondire
con urgenza: quali bienni? Come costruirli? Se
il biennio unitario assume la centralità fin qui sollecitata e auspicata
allora proprio la sua profonda riforma diventa l’asse di riferimento
per l’intero processo di innovazione del sistema
formativo. Alla
base del ragionamento si pone da un lato l’importanza del biennio come
fascia scolare dotata di propria identità curricolare e dall’altro la
centralità dell’investimento sulla qualità della scuola (la riduzione
della dispersione è strettamente legata alla qualità del fare scuola) Le
effettive possibilità di riuscita si basano sulla capacità di valutazione
e assunzione delle difficoltà e degli ostacoli da affrontare nel realizzare
percorsi di studio rivolti al “non uno di meno”
che, cioè, non abbassino il livello dei risultati e riescano ad intercettare
la maggior parte dei ragazzi della fascia di età: -
La condivisione di estendere l’obbligo di istruzione
nel biennio della scuola secondaria di secondo grado deve ulteriormente
essere rafforzata ed estesa. Servono approfondimenti che ne
evidenzino la valenza civile e sociale e un lungo lavoro di ricerca
attorno alla fattibilità. -
La proposta di biennio unitario (elemento e snodo coerente all’interno
del percorso di formazione 3-19) non è riconducibile a quelle su cui
si era operato negli anni settanta e ottanta. Il ritardo nella
riflessione è perciò da recuperare e va collocato all’interno del più
ampio dibattito che tiene dentro le problematiche dell’intero periodo
scolare dagli 11 ai 16 anni, che, indubbiamente, è quello più complesso
e difficile. -
L’innovazione del percorso di istruzione deve
essere profondo. Gli attuali bienni non rappresentano un modello adeguato;
né l’impianto del ginnasio, né quello dei bienni degli istituti tecnici
e professionali sono in grado di corrispondere
ai bisogni formativi della fascia di età. Però non si parte
da zero. La scuola ha realizzato negli ultimi decenni esperienze, buone
pratiche e innovazioni di alto livello, ha
costruito competenze fondamentali per l’innovazione; partendo da esse
e avendo individuato i punti di criticità, soprattutto quelli che producono
gli alti tassi di dispersione scolastica in questa fascia di età si
può riuscire a rilanciare il processo cambiamento del biennio. Diventa
dunque fondamentale che si avvii, già dal prossimo settembre, un processo
rivolto a promuovere (nell’autonomia delle scuole e delle loro reti,
con il sostegno degli Enti Locali) iniziative diffuse rivolte al miglioramento
della qualità/centralità del biennio da affiancare ad una rinnovata
riflessione sul suo significato formativo che coinvolga al più alto
livello la scuola, l’Università, i centri di ricerca, l’associazionismo
professionale e disciplinare. In
una prima approssimazione i campi di lavoro potrebbero essere: 1.
I risultati,
anche in termini di competenze, da raggiungere alla conclusione del
biennio e in riferimento al rapporto con la formazione professionale
(modalità del riconoscimento di crediti formativi) […] 2.
Il curricolo.
Assumendo la riflessione sugli obiettivi formativi da costruire/raggiungere
nei due anni si deve lavorare sull’impianto curricolare in grado di
sorreggerli (il lavoro dei dipartimenti
in particolare attorno allo sviluppo della dimensione laboratoriale
di tutte le discipline e con attenzione per quelle che maggiormente
sono rilevanti nella dispersione). Particolare importanza ha il rapporto
che si viene a definire tra le discipline comuni e quelle che caratterizzano
l’indirizzo: è determinante che non siano segnate da una diversa valenza culturale
e formativa generale; è un problema che va riproposto fortemente non
avendo trovato adeguate e coerenti soluzioni nelle esperienze passate [3] […] 3.
Il protagonismo
degli studenti. Si deve operare per la costruzione di un mondo di significati
condivisi; sta cambiando profondamente il modo di concepire e vivere
l’adolescenza ed è reale il rischio di ridurre sotto una soglia minima
il mondo di significati condivisi rendendo difficoltosa la comunicazione
tra le generazioni che convivono a scuola. La scuola rappresenta, può rappresentare, un
luogo in cui agli adolescenti viene offerto
un ruolo attivo che non deve essere ridotto alla sola “socializzazione”,
è invece proprio l’avventura culturale e le forme di “protagonismo”
che ad essa si possono collegare a rappresentare la centralità dell’esperienza
scolastica. Schematicamente si possono individuare tre forme di protagonismo
scolastico da garantire a tutti gli studenti: lo spazio di
autonomia, la partecipazione al governo della scuola e la partecipazione
attiva al rapporto insegnamento/apprendimento. Il ruolo della scuola diventa sempre di più
determinante nel garantire all’adolescente di poter essere
protagonista consapevole della propria crescita. […] 4.
Il
“clima” in cui avviene l’insegnamento/apprendimento. Il tempo, gli spazi e loro progettazione/ organizzazione/gestione
[…] 5.
Il lavoro nei
team insegnanti. In particolare il consiglio di classe
e i dipartimenti […] Per una nuova prospettiva della
politica scolastica Il senso del ragionamento sviluppato
in queste pagine può essere riassunto nei seguenti punti:
1.
La scuola ha bisogno che sia riattivato e ulteriormente sostenuto un processo profondo
e condiviso di innovazione all’interno di una prospettiva alta che non
può non basarsi sul mandato che le deriva dalla Costituzione. Un processo
innovativo che deve svilupparsi da un dibattito ampio nel Paese, che
deve individuare i punti critici su cui intensificare il cambiamento,
che deve poter disporre delle risorse necessarie
verso cui orientarsi in modo condiviso, che deve vedere protagonisti
attivi e responsabili i soggetti della scuola. Il
nuovo titolo V deve essere assunto nelle sue potenzialità: i tre soggetti
istituzionali (Stato, Regioni/Province/Comuni e Scuole), che a diverso
titolo hanno un mandato costituzionale sulla formazione, devono esprimere
al massimo le loro possibilità di azione all’interno
dello sviluppo del sistema formativo nazionale e territoriale. 2.
Gli elementi centrali di tale processo possono essere: -Garantire
che la scuola dell’infanzia non venga ridotta
dalla dimensione di vera scuola a momento assistenziale e marginale.
(Significa arginare gli anticipi e soprattutto
impedire che venga vanificato il valore pedagogico
degli orientamenti del 1991 e dei campi di esperienza) -Garantire
a tutte le scuole la possibilità di affermare
il tempo scuola come “tempo disteso”, risultato di un progetto pedagogico-didattico
coerente e non come schizofrenica giustapposizione/assemblaggio di frammenti
formativi. (In particolare confermare e rafforzare
la reale praticabilità del modello “tempo pieno” come pratica virtuosa
in grado di tenere insieme il bisogno sociale e la qualità del
processo formativo. Significa adottare forme di organizzazione
del lavoro che sostengano la piena corresponsabilità). -Garantire
la ricchezza e coerenza del curricolo verticale. (Sostenere la filosofia
e le pratiche degli istituti comprensivi, impedendo che vengano
messe in atto forme di separazione e personalizzazione precoce dei percorsi
formativi, impedendo che l’attivazione di forme organizzative superate
e semplificatrici riducano la qualità dell’insegnamento/apprendimento,
impedendo che forme di valutazione possano segnare già dai primi anni
di scuola il destino dei ragazzi). -Garantire
a tutti tra i 14 e i 16 anni percorsi pieni
di istruzione. (In particolare ai ragazzi in difficoltà scolastica a
13-14 anni non si deve proporre meno istruzione
ma percorsi di istruzione, senza aggettivi,
di maggiore qualità in grado di intercettarli e di seguirli nel loro
individuali e irrepetibili stili di apprendimento Anche per questa fascia
scolare il rinnovamento dell’impianto culturale e curricolare diventa
determinante: garantire pari opportunità a 16 anni ). -Garantire
a tutti tra i 16 e i 18/19 anni percorsi formativi.
(Si deve costruire un sistema integrato in grado di sostenere la formazione
culturale adeguata e la sua valorizzazione in termini di competenze
professionali) 3. La riforma
(che deve risultare significativa e rilevante)
e l’obbligatorietà dei bienni della scuola secondaria superiore rappresentano
lo snodo di innovazione centrale e fondamentale per il significato e
per la ricaduta che può avere sull’intero sistema (la riforma dei
bienni indurrà innovazione sia nell’intero primo ciclo e sia nei percorsi
formativi successivi). Diventa dunque prioritario e determinante
che, attorno ad una prospettiva significativa, il mondo della scuola
e quello della politica riescano ad avviare un’azione
in cui la costruzione di un progetto riformatore per la scuola non risulti
separato dal concreto fare scuola, che riesca, anzi, a far sì che gli
assi portanti di tale progetto diventino contemporaneamente le indicazioni
di lavoro per le scuole per valorizzarne pienamente l’autonomia organizzativa
e didattica e come pratiche per
riprendere e rilanciare il processo di innovazione che serve per una
scuola democratica. [1] […] g) il secondo
ciclo, finalizzato alla crescita educativa, culturale e professionale
dei giovani attraverso il sapere, il fare e l'agire, e la riflessione
critica su di essi, è finalizzato a sviluppare l'autonoma capacità di giudizio
e l'esercizio della responsabilità personale e sociale; in tale ambito,
viene anche curato lo sviluppo delle conoscenze relative all'uso delle
nuove tecnologie; il secondo ciclo è costituito dal sistema dei licei
e dal sistema dell'istruzione e della formazione professionale; dal
compimento del quindicesimo anno di età i diplomi e le qualifiche
si possono conseguire in alternanza scuola-lavoro o attraverso l'apprendistato;
il sistema dei licei comprende i licei artistico, classico, economico,
linguistico, musicale e coreutico, scientifico, tecnologico, delle
scienze umane; i licei artistico, economico e tecnologico si articolano
in indirizzi per corrispondere ai diversi fabbisogni formativi; i
licei hanno durata quinquennale; l'attività didattica si sviluppa
in due periodi biennali e in un quinto anno che prioritariamente completa
il percorso disciplinare e prevede altresì l'approfondimento delle
conoscenze e delle abilità caratterizzanti il profilo educativo, culturale
e professionale del corso di studi; i licei si concludono con un esame
di Stato il cui superamento rappresenta titolo necessario per l'accesso
all'università e all'alta formazione artistica, musicale e coreutica;
l'ammissione al quinto anno dà accesso all'istruzione e formazione
tecnica superiore) h) ferma restando la competenza regionale in materia di formazione
e istruzione professionale, i percorsi del sistema dell'istruzione
e della formazione professionale realizzano profili educativi, culturali
e professionali, ai quali conseguono titoli e qualifiche professionali
di differente livello, valevoli su tutto il territorio nazionale se
rispondenti ai livelli essenziali di prestazione di cui alla lettera
c); le modalità di accertamento di tale rispondenza,
anche ai fini della spendibilità dei predetti titoli e qualifiche
nell'Unione europea, sono definite con il regolamento di cui all'articolo
7, comma 1, lettera c); i titoli e le qualifiche costituiscono condizione
per l'accesso all'istruzione e formazione tecnica superiore, fatto
salvo quanto previsto dall'articolo 69 della legge 17 maggio 1999,
n. 144; i titoli e le qualifiche conseguiti al termine dei percorsi
del sistema dell'istruzione e della formazione professionale di durata
almeno quadriennale consentono di sostenere l'esame di Stato, utile
anche ai fini degli accessi all'università e all'alta formazione artistica,
musicale e coreutica, previa frequenza di apposito corso annuale,
realizzato d'intesa con le università e con l'alta formazione artistica,
musicale e coreutica, e ferma restando la possibilità di sostenere,
come privatista, l'esame di Stato anche senza tale frequenza; i) è assicurata e assistita la possibilità di cambiare indirizzo all'interno
del sistema dei licei, nonché di passare
dal sistema dei licei al sistema dell'istruzione e della formazione
professionale, e viceversa, mediante apposite iniziative didattiche,
finalizzate all'acquisizione di una preparazione adeguata alla nuova
scelta; la frequenza positiva di qualsiasi segmento del secondo ciclo
comporta l'acquisizione di crediti certificati che possono essere
fatti valere, anche ai fini della ripresa degli studi eventualmente
interrotti, nei passaggi tra i diversi percorsi di cui alle lettere
g) e h); nel secondo ciclo, esercitazioni pratiche, esperienze formative
e stage realizzati in Italia o all'estero anche con periodi di inserimento
nelle realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi,
sono riconosciuti con specifiche certificazioni di competenza rilasciate
dalle istituzioni scolastiche e formative; i licei e le istituzioni
formative del sistema dell'istruzione e della formazione professionale,
d'intesa rispettivamente con le università, con le istituzioni dell'alta
formazione artistica, musicale e coreutica e con il sistema dell'istruzione
e formazione tecnica superiore, stabiliscono, con riferimento all'ultimo
anno del percorso di studi, specifiche modalità per l'approfondimento
delle conoscenze e delle abilità richieste per l'accesso ai corsi
di studio universitari, dell'alta formazione, ed ai percorsi dell'istruzione
e formazione tecnica superiore; […] [2]
Il termine “formazione” è molto generale
e comprende tutti i processi educativi quindi anche l’istruzione;
in questo contesto è necessario parlare di
“formazione professionale” [3] Dal modo con cui verrà assunta e trasformata in percorso curricolare la cultura
tecnologica dipende una parte considerevole dell’efficacia dell’innovazione
nel rendere i bienni equivalenti a livello formativo e in grado di
aumentare il successo scolastico. In realtà la tecnologia non è mai
stata assunta nella scuola come vero sapere, come approccio originale
alla conoscenza, come fattore di cultura o di formazione generale
bensì come elemento professionalizzante (in senso specialistico) da
scongiurare nei licei e da confinare negli
istituti tecnici e professionali; sapere tecnologico e sapere disinteressato
rappresentano gli opposti nella scala dei saperi scolastici. La proposta
di Bertagna lo ribadisce: la theorìa
è ricondotta alla scuola, al liceo, la téchne
è ricondotta alla professionalità, alla formazione professionale e
su questa si schiaccia la tecnologia. La ri-costruzione dei curricoli di tecnologia non sarà
quindi un'operazione né facile né indolore e nemmeno breve; curricoli
che non soffrano di astrattezza e tanto meno
si riconducano ad attività addestrative o alla descrizione di tecniche. Si tratta di capire come la tecnologia possa rappresentare un vero sapere a scuola
e non semplicemente il momento applicativo, professionalizzante dei
saperi, come possa “reggere” indirizzi in percorsi di istruzione dopo i
14; percorsi riferiti ad aree tecnologiche che siano comprensivi della
cultura tecnologica come elemento della formazione culturale generale
e, come tale, elemento del percorso di formazione alle professioni
coerente con l’età e lo sviluppo del curricolo verticale. Se
si sarà in grado di sviluppare alcuni riferimenti teorici già disponibili,
di valorizzare ciò che già nella scuola è stato fatto, allora potremo
fare i conti con una cultura tecnologica non ridotta a soli ambiti
specialistici bensì capace di rappresentare un asse
importante dell’impianto curricolare e formativo. La scommessa
culturale è ancora tutta aperta e deve essere rilanciata. |