DALLA LEGGE 53 AL DECRETO 61
di Giancarlo Cerini e Mariella Spinosi(*)
Una riforma difficile: perché
Le vicende di questi mesi, contrassegnati dalla rapida
approvazione delle norme generali in materia di istruzione (la legge n.
53 del 28-3-2003) e dal ben più lento e faticoso procedere della
sua attuazione (con l’incerto punto di approdo del DM n. 61 del
22-7-2003), sono la controprova di quanto sia difficile – non solo
in Italia – trasferire un processo di riforma dalle aule parlamentari
o dalle sedi di elaborazione scientifica alla realtà viva della
scuola. Un problema sempre sottovalutato nel nostro paese, se si pensa
ai tanti incidenti di percorso che hanno lastricato la strada delle riforme
degli ultimi dieci anni (dal riordino dei cicli al “concorsone”
per i docenti, dalla scuola di base unitaria all’estensione dell’obbligo
scolastico), ma che in altri contesti ha dato luogo ad una vera e propria
disciplina di studio: la “governance” delle politiche pubbliche
innovative. Infatti, la riforma dei grandi apparati pubblici rappresenta
una questione “spinosa” per tutti i sistemi politici, perché
non è agevole conciliare le opposte esigenze degli stakeholder
(portatori di interessi generali: nel nostro caso i genitori, ma anche
le “imprese” e la società civile), delle istituzioni
pubbliche (che tendono ad una certa impermeabilità degli apparati),
degli addetti ai diversi servizi (attenti alle loro prerogative individuali-contrattuali).
In Italia, l’assenza di un’amministrazione pubblica autorevole,
rende patologica una dinamica che altrove viene vissuta come fisiologia
al sistema.
Vediamo, allora, in rapida sintesi gli indicatori di disagio di questo
nostro paese, che non riesce ad essere “normale”, nemmeno
nella politica scolastica.
Innanzi tutto siamo in presenza di un conflitto di natura politico-istituzionale
che si riverbera sulla politica scolastica e tende a drammatizzare il
confronto sulle decisioni da prendere, anche quelle relative agli ordinari
aspetti gestionali (gli organici, il bilancio, le graduatorie). Ogni questione
rischia di trasformarsi in uno scontro di civiltà, con l’evidenziarsi
di due “visioni” del mondo e della scuola, ben oltre il merito
degli stessi problemi. Prendiamo, ad esempio, il tema dell’obbligo
scolastico e/o formativo: al di là dell’estensione dell’uno
(quello scolastico era stato portato a 15 anni con la legge 9/1999, ora
abrogata) e dell’altro (quello formativo era stato esteso a 18 anni
dalla legge 144/1999), ciò che più conta dovrebbe essere
l’effettiva possibilità di elevare il profilo culturale della
popolazione italiana, che oggi esibisce palesi deficit sia in termini
quantitativi che qualitativi: è sufficiente solo una diversa architettura
istituzionale o non sono per caso necessari processi culturali e sociali
assai più profondi e radicati? E non dovrebbe essere questo un
problema di comune interesse per l’intera classe dirigente del nostro
paese?
La svolta federalista e l’autonomia
Si registra anche un’oggettiva difficoltà
ad interpretare l’evoluzione costituzionale e legislativa, che assegna
ampi poteri normativi alle Regioni in materia di istruzione, definendo
un’area di legislazione concorrente in cui i protagonisti delle
scelte diventano le singole Regioni. Anche in questo caso, nonostante
nel frattempo sia intervenuta l’approvazione della legge n. 131
del 5 giugno 2003 (c.d. La Loggia) a chiarimento dei nuovi rapporti tra
Stato e Regioni, i motivi di conflitto non mancano, soprattutto in caso
di diversa appartenenza politica. È successo ai tempi della legge
della Regione Lombardia sul buono scuola, succede oggi con la legge regionale
n. 12 del 30-6-2003 della Regione Emilia-Romagna (attuativa del nuovo
Titolo V della Costituzione). Anche in questo caso, andando ben oltre
il merito: non pare, infatti, che l’idea di sistema integrato tra
i 14 ed i 16 anni propugnato dalla Regione Emilia-Romagna sia poi così
lontano dai contenuti del recente accordo tra Stato e Regioni (19 giugno
2003) in materia di offerta formativa integrata tra istruzione e formazione
professionale. Dello stesso tenore è anche l’art. 4 della
legge 53/2003 che richiede una esplicita integrazione tra i diversi canali
formativi, raccomandando una precisa regia della scuola per assicurare
la maggiore coerenza di percorsi educativi flessibili e personalizzati.
Ricordiamo che una delle motivazioni per la sospensione dell’attuazione
del riordino dei cicli approvato nella precedente legislatura (Legge n.
30 del 10-2-2000) era riferita proprio alle modifiche introdotte, in materia
costituzionale, dalla Legge Cost. n. 3 del 18-10-2001 che invitava, se
non altro, a riconsiderare in profondità tutta la materia della
formazione professionale e – ciò che più conta –
dell’istruzione professionale, materia esplicitamente assegnata
alla potestà regionale. È su questa base costituzionale
che poggia anche buona parte della elaborazione teorica a sostegno dell’ipotizzato
sistema educativo duale: da un lato la filiera dei Licei, di sicura pertinenza
dello Stato, dall’altro la nuova filiera professionale (non meramente
addestrativa), di sicura pertinenza delle Regioni. Ripartizione facile
da tracciare sulla carta, ma foriera di intricatissimi problemi interpretativi,
a partire dalla gestione del personale docente degli attuali istituti
statali.
La stessa gestione degli spazi di autonomia riconosciuti alle scuole a
seguito della legge 59/1997 (e della successiva copiosa normativa secondaria)
è oggi incerta, sospesa tra il ripristino di un rassicurante controllo
del centro sulle risorse disponibili (soprattutto umane e finanziarie)
e la spinta ad un’improbabile libera determinazione di ogni scuola
sulle medesime materie. Ora, è pur vero che l’autonomia scolastica
è esclusa dai nuovi ambiti di legislazione regionale (la Costituzione
del 2001 fa “salva l’autonomia delle scuole”), ma la
previsione di assegnare alla potestà delle Regioni una quota significativa
(il 10/15 %) del curricolo scolastico desta non poche preoccupazioni nei
cultori dell’integrità dell’interesse nazionale. Il
punto è però già statuito all’interno della
legge 53/03, e rende problematica la stessa definizione di nuovi quadri
orari e curricolari: le quote orarie delle discipline dovranno considerarsi
al netto o al lordo dell’ancora indefinita quota “regionale”?
La legge 53 e gli strumenti attuativi
Solo ora ci si accorge di talune imprecisioni (o dimenticanze)
della legge 53/03, che rischiano di renderne problematica l’attuazione.
Ad esempio, la legge prevede sì una temporizzazione necessaria
(due anni) per l’emanazione dei decreti legislativi per l’attuazione
del nuovo ordinamento (non si dimentichi che siamo in presenza di una
legge delega), ma nulla dice circa la fase transitoria che si viene a
determinare “mano a mano” che i diversi decreti attuativi
entrano (o non entrano) in vigore. Anzi, sembra non prevedere alcuna fase
transitoria (e comunque non indica strumenti giuridici per colmare questa
lacuna). Si tratta di una “terra di nessuno” tra vecchio e
nuovo ordinamento che potrebbe dar vita ad un intenso contenzioso di fronte
alla magistratura amministrativa.
Lo stesso DM 61/03, che non è il decreto legislativo di prima applicazione
della legge 53/2003, potrebbe venirsi a trovare in questa condizione di
impeachment, così come la CM n. 62 del 22-7-2003 di illustrazione
e “ampliamento” dei contenuti del decreto. Per altro, ricorsi
in merito sono già stati depositati al TAR competente del Lazio.
È pur vero che la via giudisdizionale non è il modo migliore
di fare politica (scolastica), ma tutti i metodi (anche quelli più
discutibili) vengono a galla quando manca la condivisione sulle scelte
di fondo.
Stessa sorte potrebbe spettare all’introduzione generalizzata della
lingua straniera nei primi due anni della scuola primaria, ove per altro
è già presente nella misura del 30% circa delle classi,
anche in assenza di uno specifico dispositivo di legge, nonché
alla diffusione dell’alfabetizzazione informatica, a patto di chiarirsi
sul significato pedagogico di un tale evento, che la stessa riforma, nella
stesura definitiva assunta dalla legge 53/03 tende a derubricare ad acquisizione
strumentale e non a finalità pervasiva della scuola.
Sono due “must” (atti a grande consenso sociale, oltre che
di immediato effetto mediatico) che nessuno dovrebbe mettere in discussione,
ma che inseriti nel secondo articolo del DM 61/03 vengono ora contestati
nella loro ipotizzata cogenza “erga omnes”.
L’Amministrazione scolastica, con la CM n. 68 dell’8 agosto
2003 (una sorta di errata corrige della precedente 62/03), corre ai ripari,
precisando che il progetto di innovazione deve limitarsi agli aspetti
di natura didattica. Per la lingua straniera resta l’invito alla
sua “generalizzazione”, anche con le risorse aggiuntive messe
a disposizione con la CM 58/03 relativa agli organici del personale per
l’a.s. 2003/2004.
Previsioni DM 61/2003 Sollecitazioni CM 62/2003 Precisazioni CM
68/2003
È promosso un progetto nazionale di innovazione per le classi prime
e seconde limitatamente a “l’adozione dei nuovi contenuti
culturali ed educativi di cui alle Indicazioni nazionali…”.
“…le istituzioni scolastiche, nell’esercizio della loro
autonomia… possono procedere anche alla revisione dei modelli organizzativi
e ad una diversa articolazione delle attività didattiche…”
(cpv 5) “… il progetto suddetto si limita ai contenuti delineati
nelle Indicazioni Nazionali per i piani di studio personalizzati relativi
alle prime due classi della”
Restano fermi “gli attuali assetti strutturali, gli orari di funzionamento
e le risorse professionali in dotazione… rimettendo all’autonomia
delle istituzioni scolastiche l’attivazione di nuovi modelli relativi
all’organizzazione della didattica”. È consentito destinare
“maggiore attenzione alle funzioni tutoriali, al coordinamento didattico,
alle attività laboratoriali, all’adozione del portfolio delle
competenze dei singoli alunni…” (cpv 6) “… i capoversi
5-6-7 del paragrafo contenuti del provvedimento, di cui alla menzionata
circolare n. 62 si intendono come non formulati, in quanto non rientranti
negli obiettivi del progetto nazionale suddetto”.
Nelle prime due classi si procede alla “introduzione
generalizzata della alfabetizzazione informatica e dell’alfabetizzazione
nella lingua inglese…”. L’introduzione delle alfabetizzazioni
informatica e nella lingua inglese “rappresenta… un vincolo
generalizzato per le classi prima e seconda”
Sperimentazione sì, sperimentazione no
Anche il richiamo all’art 11 del Dpr n. 275 dell’8
marzo 1999 (Regolamento dell’autonomia) è oggetto di valutazioni
controverse. Da un lato assicura circa il diretto coinvolgimento e apprezzamento
dei Collegi dei docenti nell’adesione ai piani di innovazione, dall’altro
lascia la regia della sperimentazione nelle mani dell’Amministrazione
centrale, con una sorta di autorizzazione preventiva alle scuole. Non
è chiaro il rapporto tra l’autonomia di ricerca, sviluppo
e sperimentazione riconosciuto alla scuola senza alcun particolare vincolo
(art. 6 del Dpr 275/1999) ed il meccanismo autorizzativo di fatto contenuto
nell’art. 11 del Regolamento (Piani di innovazione). Inoltre, nel
caso specifico, più che di innovazioni di ordinamento si tratterebbe
di saggiare la validità delle proposte di nuove “Indicazioni
nazionali per i piani di studio personalizzati per la scuola primaria”.
Tali documenti, che sono annunciati come allegati al DM 61/03, non sono
– al momento di andare in stampa – ancora stati resi pubblici.
Sul sito del MIUR manca il link e ci si deve accontentare del precedente
testo elaborato in occasione del piano di sperimentazione 2002/2003.
Potrebbe trattarsi di semplici esigenze tecniche connesse con il restyling
di alcune parti del documento (una vicenda già vissuta a proposito
dei cangianti allegati al DM 100/2002 sulla sperimentazione), o di una
oggettiva difficoltà a considerare le Indicazioni allegate al DM
61/03 come quel “nucleo essenziale dei piani di studio scolastici”,
per i quali la legge 53/03 prevede un ben preciso e diverso itinerario
elaborativi, cioè un regolamento legislativo corredato del parere
delle competenti commissioni parlamentari.
Allegare le Indicazioni nazionali definitive ad un semplice Decreto Ministeriale
potrebbe rappresentare un nuovo “casus belli” di non facile
composizione. Questo “strappo” è oggetto delle motivazioni
del parere contrario espresso da una minoranza del CNPI. Il massimo organo
consultivo della scuola, che è in attesa pluriennale di riforma,
per altro non ha avuto il tempo per esprimersi compiutamente sui contenuti
culturali del documento che era stato inoltrato nel maggio 2003, unitamente
alla prima versione di un decreto legislativo sulla scuola primaria, prima
“abbozzato”, poi “non formulato”.
Al di là delle procedure formali, la scuola si interroga sulle
fonti pedagogiche e sugli autori delle nuove proposte curricolari, sulle
modalità di partecipazione della comunità scientifica e
della scuola alla elaborazione di un progetto sufficientemente condiviso.
Se il CNPI spesso sembra guidato da dinamiche strettamente sindacali,
che lo portano ad assumere un atteggiamento estremamente difensivo, non
per questo si può bypassare l’esigenza di un ampio dibattito
sulle bozze di documenti destinati ad orientare per molti anni l’attività
progettuale della scuola. A maggior ragione oggi, quando le Indicazioni
nazionali ambiscono a presentarsi come il “livello essenziale delle
prestazioni in materia di diritto all’istruzione” e quindi
con un carattere prescrittivi per le scuole. Questo atteggiamento, ad
un tempo di cauta provvisorietà degli elaborati e di disponibilità
all’ascolto, avrebbe probabilmente rappresentato il “valore
aggiunto” di un decreto di transizione, in grado di sparigliare
le posizioni pregiudiziali di sindacati, associazioni, forze politiche.
C’è da chiedersi, a questo punto, quale sia stato l’esito
dei pareri richiesti nella scorsa primavera alle associazioni più
rappresentative degli insegnanti, in termini di elementi di criticità
e di positività sulle bozze delle Indicazioni nazionali.
Va ricordato che il CNPI, nella pronuncia espressa a maggioranza, aveva
precisato che il decreto non avrebbe potuto essere considerato come una
anticipazione della riforma, per la quale è d’obbligo la
via maestra dei decreti legislativi, ma come un'auspicabile opportunità
di riflessione culturale e di primo contatto con i temi pedagogici richiamati
dal legislatore (nuove indicazioni curricolari, personalizzazione, laboratori,
funzioni tutoriali, ecc.). Rimaneva esclusa ogni incidenza su aspetti
di carattere ordinamentale e quindi organizzativi (come il tempo scuola,
la diversa articolazione delle professionalità docenti). Inoltre,
ogni decisione in merito (comunque, sempre limitata ai contenuti educativi
e culturali delle Indicazioni nazionali) avrebbe dovuto essere assunta
in piena autonomia dai Collegi dei docenti.
Una scelta in piena autonomia
Lo stesso Ministero, come già ricordato, è
ritornata sulla questione (con la nota 68/03) limitando la portata delle
innovazioni riferibili all’art. 11 del Dpr 275/99 alle sole questioni
di natura didattica. Ma sappiamo anche che l’art. 11 è lo
strumento idoneo a promuovere – in chiave sperimentale – processi
di innovazione strutturale ed organizzativa. E che richiede la presenza
di un progetto nazionale (un documento di base) cui le scuole possono
ispirare le loro specifiche proposte di adattamento dei Piani dell’Offerta
formativa. Ma di questo piano non c’è traccia negli atti
a disposizione delle scuole, contrariamente a quanto era avvenuto in occasione
della sperimentazione per l’anno scolastico 2003/2004. Allora, il
DM 100/02 nella sua articolazione descrittiva, di fatto veniva ad assumere
la funzione di progetto nazionale, sia pure flessibile, corredato di proposte
di Indicazioni nazionali per i piani di studio.
L’attuale decreto sembra avere un raggio d’azione più
ampio, ambisce infatti alla generalità delle scuole elementari
italiane (delle classi prime e seconde, per la precisione), ma la sua
incidenza appare più ridotta, perché limitata agli aspetti
di natura educativa e culturale. Un invito, come si legge nelle premesse
del decreto, a mettersi in sintonia con i temi pedagogici connessi con
la proposta di riforma, con molta libertà e con il gusto della
ricerca aperta e partecipata, senza – per ora – alcuna preoccupazione
per le possibili ricadute sul piano dell’organizzazione strutturale
della scuola.
Si tratta certamente di un cambiamento di linea rispetto all’ipotesi
iniziale di una introduzione – ope legis – fin dal settembre
2003 di profonde novità nell’organizzazione della scuola
primaria (con riduzione dei tempi scuola, una diversa organizzazione dell’insegnamento,
cogenza delle Indicazioni Nazionali) e di un rapido completamento della
riforma nel giro di 12 mesi (questa era la tempistica prevista dalle bozze
del decreto legislativo di prima applicazione della legge 53/2003, poi
non formalizzato).
In questi ultimi mesi dobbiamo onestamente registrare alcuni fatti rilevanti,
quali:
- le difficoltà generali di ordine politico, in particolare le
perplessità sorte all’interno della stessa maggioranza di
Governo anche in materia di politica scolastica e di attuazione delle
riforme;
- una più ponderata lettura degli atteggiamenti prevalenti all’interno
della scuola elementare (con un visibile e forse imprevedibile attaccamento
degli insegnanti elementari ad alcuni dei motivi ispiratori della riforma
del 1990, in particolare all’idea di contitolarità, collegialità
e pari responsabilità educativa all’interno del team docente);
- le restrizioni imposte alla finanza pubblica in materia di spesa, come
si evince dagli atti più rilevanti del Tesoro (leggi finanziarie,
documento di programmazione, ecc.), tali da mettere in forse il decollo
di quel piano pluriennale di investimenti per la riforma, pure previsto
nel corpo della stessa legge 53/03;
- l’esigenza di misurarsi con i nodi rilevanti della riforma, che
appaiono sempre più quelli legati alla fascia di età 14-16
anni (là ove si manifestano gli indici più disastrosi di
dispersione scolastica), dove le scelte da compiere assumono anche una
più immediata rilevanza istituzionale e mettono – da subito
– alla prova i nuovi rapporti tra Stato e Regioni. Ne è una
testimonianza l’approvazione del protocollo generale d’intesa
Stato-Regioni e la stipula di accordi specifici con ogni regione, in merito
alla fase transitoria che si apre con l’abrogazione della legge
9/1999 (obbligo scolastico).
Occorre prendere atto di questi elementi di novità, che determinano
una sorta di “moratoria” per la scuola primaria, con tempi
più congrui per conoscere e metabolizzare le innovazioni proposte,
ma non solo. Non ci sembra una pausa di carattere esclusivamente tecnico,
ma anche l’emergere di una diversa consapevolezza politica e culturale:
l’idea che la scuola elementare è tutt’ora una buona
scuola, con un largo credito nell’opinione pubblica, con attestazioni
docimologiche internazionali di tutto rispetto (come risulta dall’indagine
IEA-PIRLS, 2001 sui livelli di lettura dei ragazzi di quarta elementare,
ai primi posti del rating internazionale), con un corpo professionale
di valore (dirigenti e maestri) non semplicemente abbarbicato a difendere
i propri privilegi, ma interessato e disponibile a costruire una scuola
elementare migliore, rispettosa però di quanto di buono già
realizzato negli ultimi 15 anni.
Se l’analisi che proponiamo non è troppo fantasiosa (a noi
compete l’ottimismo della volontà) allora si potrebbero aprire
prospettive meno incerte per il futuro della scuola elementare. Lo stesso
DM 61/2003, invece di trasformarsi nell’ennesimo motivo di scontro
(o in una prova di forza sul gradimento del progetto ministeriale nelle
scuole), potrebbe diventare un alveo in cui incanalare idee diverse di
curricolo e di didattica, tutte però orientate al miglioramento
effettivo della scuola elementare.
(*)Tratto dall’introduzione al fascicolo “Scuola primaria:
primi passi nella riforma…” a cura di G.Cerini e M.Spinosi,
inserto allegato al n. 1, 1-15 settembre 2003 di “Notizie della
scuola”, Tecnodid editore. Il fascicolo di 96 pagine contiene interventi
di D.Cristanini (la sperimentazione delle 250 scuole), di G.Cerini (i
nodi organizzativi), di M. Spinosi (le questioni pedagogiche), di E.Raviolo
(l’anticipo), di M.Ruscelli (l’inglese nelle classi iniziali),
di W.Casamenti (la prima alfabetizzazione informatica), oltre all’ultima
versione delle Indicazioni Nazionali per la scuola primaria (con un’ampia
introduzione di G.Bertagna).
Si ringrazia la casa editrice Tecnodid per l’autorizzazione alla
pubblicazione in rete.
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