Un riordino all’insegna dell’incertezzaIl riordino del secondo ciclo di istruzione si sta avviando verso la conclusione, anche se mancano fino ad oggi i necessari passaggi formali che lo rendano esecutivo. Dal canto loro, gli “esperti” stanno lavorando a riempire le ultime difficili caselle dei contenuti programmatici, quindi… non ci resta che attendere! Chissà se nel giro di qualche tempo si potrà giungere al difficile parto, anche e soprattutto perché scuole e famiglie sono in fibrillazione: è tempo di conoscere quali concrete opportunità di studio saranno offerte ai ragazzi che nel prossimo giugno avranno superato l’esame di licenza media. ► In una società come l’attuale, difficile, incerta e liquida, per dirla con Bauman, ai nostri giovani, nati e immigrati ovviamente, occorre fornire in prima istanza una solida preparazione di base in ordine a competenze culturali essenziali e a quelle competenze di cittadinanza che permettano loro di circolare in tutti i Paesi dell’Unione europea, per motivi sia di studio che di lavoro, con un’adeguata preparazione. Pertanto, l’obiettivo di rendere effettivo e vincente l’obbligo di istruzione decennale, di cui al dm 309/07, dovrebbe essere assunto come una esigenza prioritaria dell’intero riordino. D’altro canto, l’equivalenza delle competenze relative ai quattro assi fondamentali dei saperi di base dovrebbe costituire il momento forte ed aggregante delle tre tipologie di biennio (liceale, tecnico e professionale). Però, una scelta di questo tipo non emerge affatto dai documenti di riordino di cui disponiamo, per cui l’innalzamento dell’obbligo sembra costituire una sorte di optional per nulla significativo. Di fatto, sembra che si sia rinunciato a individuare e costruire un percorso obbligatorio decennale progressivo, continuo ed unitario, in cui i tre segmenti della scuola primaria, media e successivo biennio possano veramente interagire per superare quegli storici diaframmi che ancora li rendono percorsi tra loro separati, autosufficienti ed autoreferenziali. Non vorrei che la scelta effettuata dall’attuale maggioranza politica di consentire l’innalzamento dell’obbligo di “istruzione” anche nei percorsi di “istruzione e formazione professionale” regionale (comma 4 bis dell’articolo 64 della legge 133/08) aprisse la strada ad una sua progressiva vanificazione. ► L’istruzione impartita nei trienni postobbligatori dovrebbe prevedere e garantire la liquidazione definitiva di quella impostazione di gentiliana memoria che ha dato vita a quella gerarchia delle conoscenze che oggi non trova più alcun riscontro di fronte alle esigenze della diffusione di saperi e di competenze che, pur articolati e differenziati al loro interno, devono pur sempre mirare a rendere effettiva quella eguaglianza culturale e civile, di cui alla nostra Carta costituzionale. Del resto in tale direzione si muovono tutte la Carte internazionali sui diritti dell’uomo, anche perché rispondono alle oggettive esigenze di tutte le società ad alto sviluppo. Finalità di questo tipo non si evincono dai tre schemi di riordino, mirati più al particulare del percorso in oggetto che all’universale delle finalità che un’istruzione secondaria oggi dovrebbe proporsi in una società avanzata. Con tale scelta, le differenziazioni di sempre, dalla “più nobile”, aperta ai “migliori”, a quella “più agevole”, aperta ai “più deboli” non solo non sono superate, ma vengono confermate e definitivamente legittimate. E ciò anche se accenni generici e non convincenti sulla unitarietà della cultura appaiono qua e là nei documenti del riordino. ► Per quanto riguarda la terminalità dei tre percorsi, viene riesumata la scelta del profilo di uscita, di cui alla “riforma Moratti”. Si ricorderà che su questa scelta già furono avanzate riserve fortissime quando apparvero nelle proposte della legge 53/03. Il fatto è che un profilo di uscita è assolutamente fumoso, una carta delle buone intenzioni, spesso intrisa di affermazioni moralistiche valide per tutte le stagioni, vaghe e generiche, tali da non offrire alcun contributo concreto per una scelta didattica in grado di realizzare quei processi di educazione, istruzione e formazione che puntino al successo formativo di ciascun alunno: che poi è il richiamo che ci viene dal comma 2 dell’articolo 1 del Regolamento sull’autonomia delle istituzioni scolastiche. A parte queste considerazioni di principio, che già costituiscono un limite ad un reale processo di riordino, nello schema di regolamento dei licei si legge testualmente: “I licei adottano il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente a conclusione del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione, di cui all’allegato A del dlgs 226/05”: e si conferma così la scelta della Moratti. Nel medesimo schema troviamo poi un secondo allegato A che riguarda la specificità dei percorsi liceali. Una logica simile dovremmo ritrovare negli altri due schemi! In questi invece non si fa alcun riferimento all’allegato A del dlgs 226/05 e ci si limita a citare quel comma 5 dell’articolo 1 del medesimo dlgs in cui si accenna alla pari dignità di tutti i percorsi secondari. Quindi si passa direttamente ai profili specifici di settore. Ne consegue che i tre percorsi si propongono di fatto terminalità differenziate, per di più a scalare! Viene così frantumata quella unitarietà dei percorsi secondari che, invece, li avrebbe dovuti caratterizzare, pur nella articolazione degli indirizzi. ► Un’altra scelta che riguarda la terminalità dei percorsi è quella dei cosiddetti “risultati di apprendimento”. Si tratta di una terminologia generica a fronte delle scelte che in genere vengono effettuate nei processi di istruzione. Quando andiamo a leggerli, appaiono più che altro obiettivi di apprendimento, ed allora viene da chiedersi: forse gli estensori del documento hanno avuto una sorta di pruderie ad adottare questa seconda più precisa terminologia, stante che tutto ciò che richiama la ricerca pedagogica oggi è sotto tiro? Per di più questi “risultati di apprendimento” sembrano una somma di performance ora complesse ora più lineari e non sembrano obbedire ad una stessa matrice teorica. Ma non finisce qui! In tutti e tre gli schemi di regolamento si legge che con successivi provvedimenti adottati dal Miur verranno adottate Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento declinati secondo conoscenze, abilità e competenze. Emergono due domande: quale valore avranno allora, domani, i risultati degli apprendimenti, se si devono attendere, dopodomani, quegli ulteriori provvedimenti per essere in linea con quanto oggi ci suggerisce la ricerca educativa di cui alle stesse indicazioni che ci vengono dall’Unione europea? E’ opportuno ricordare anche che i nostri istituti secondari attendono da un decennio che si adempi quanto sancito dalla legge 425/97 che riformò gli esami di maturità. Infatti, già in quella legge si stabiliva che il nuovo esame avrebbe dovuto certificare le competenze, le conoscenze e le capacità acquisite dalla studente. Il che fino ad oggi non si è mai verificato! E nel frattempo, lo stesso valore che allora si attribuiva ai tre concetti è profondamente modificato, in seguito agli esiti della ricerca educativa, adottati anche in sede europea. Su tali concetti va fatta chiarezza (anche se la sede non è quella di un decreto), soprattutto per i nostri insegnanti, per evitare che un pressappochismo, peraltro autorevolmente indotto, la vinca sul rigore di una autentica innovazione! Ma i tempi sono quelli che sono! E i nostri giovani dovranno attendere altri dieci anni per esigere quella certificazione che ormai è diventata una sorta di passpartout per accedere a studi ulteriori od entrare nel mondo del lavoro? ► Un’altra questione riguarda il divario che corre tra l’indicazione di quadri orario estremamente compattati e definiti ed i richiami ad una didattica veramente innovativa. In tutti i documenti allegati si danno – o meglio, si elencano – suggerimenti, che vanno nelle seguenti direzioni: superamento dell’insegnamento per discipline singole; adozione di metodologie finalizzate a realizzare profili educativi, culturali e professionali, e a sviluppare competenze personali; didattica laboratoriale; analisi di caso e soluzione di problemi; lavoro per progetti; uso di modelli e di linguaggi specifici; collegamento con il mondo del lavoro e delle professioni (anche con il volontariato e il privato sociale); stage e tirocini, alternanza scuola/lavoro. Il fatto è che una didattica veramente innovativa, soprattutto per l’istruzione superiore, dovrebbe prevedere alcune innovazioni strutturali, anche se non non fattibili nel breve periodo, quali, ad esempio: superamento dell’orario di cattedra ed utilizzazione delle competenze professionali dei docenti secondo criteri “altri” dalle gabbie delle classi di concorso e degli orari di cattedra, in ordine alle necessità del concreto progetto educativo da realizzare. Mi limito a qualche esempio: progressiva riduzione del numero di discipline nel corso del triennio in modo da privilegiare il perseguimento delle competenze di indirizzo richieste allo studente; modularità dei processi di insegnamento/apprendimento; superamento dello spazio aula in favore di spazi laboratoriali (il laboratorio va inteso in senso lato: vi sono privilegiate più le attività che le strumentazioni tout court) “presieduti” dai docenti a cui accedono gruppi di alunni. Non è il docente che va in un’aula spoglia, ma l’alunno che va in un’aula attrezzata!; Ovviamente siamo nel futuribile, ma è da augurarsi che la revisione delle classi di concorso, attualmente in esame, contribuisca ad alleggerire quella rigidità oraria alla quale siamo abituati “da sempre”! Sarebbe auspicabile che, nella indicazione dei contenuti disciplinari che si sviluppano nel corso del triennio, i gruppi degli “esperti” che attendono alla loro definizione non lavorino ciascuno chiuso nel proprio ambito, ma attivando tutte le necessarie interazioni. Occorrerebbe evitare, ad esempio che nel medesimo anno scolastico si studi Montale in italiano, Shakespeare in inglese, le guerre puniche in storia, le cattedrali gotiche in arte!!! Una corrispondenza dei contenuti, per quanto sia possibile, è auspicabile per favorire e sollecitare le interazioni pluridisciplinari (non chiamo in causa l’interdisciplinarità che è parola grossa!) e la progettazione modulare. ► Ed infine, occorre prevedere un ampio programma di formazione continua dei docenti, che vada oltre all’accenno che viene fatto sui tre schemi di regolamento; in effetti, il semplice aggiornamento disciplinare sarebbe inadeguato, e una reale formazione docente dovrebbe vertere sulla concreta conduzione delle attività dell’insegnare/apprendere, come imposte dai nuovi modi di essere dei nostri alunni e come indicate dall’avanzamento della ricerca educativa. In effetti, se si chiede ai nostri sedicenni di essere capaci di “imparare ad imparare” per tutta la vita, e se è vero che non c’è professionista che in una società complessa come l’attuale non debba costantemente implementare le sue competenze, occorre pure adoperarsi perché i docenti modifichino quei comportamenti che hanno mutuato da una scuola che era completamente diversa da quella che dovrebbe essere oggi. Se un tempo certa sociologia malevola sosteneva che l’insegnante è un professionista a metà, oggi possiamo affermare, invece, che dovrebbe essere un professionista doppio: in effetti, non solo deve misurarsi con i saperi che cambiano – il che riguarda peraltro ciascun professionista – ma anche con i soggetti con cui interagisce, i quali cambiano forse più velocemente di quanto non si creda. I rilievi che ho mosso ai tre schemi di regolamento non sono affatto peregrini e molte delle argomentazioni svolte sono rintracciabili in altre prese di posizione da parte di associazioni e sindacati nonché nei tre pareri che il Cnpi ha recentemente prodotto in ordine alle competenze che gli derivano dalla normativa vigente. Com’è noto, anche se si tratta di pareri obbligatori e non vincolanti per l’Amministrazione, quest’ultima farebbe bene a tenerli nel conto dovuto. Roma, 10 ottobre 2009
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