Scuola dell’infanzia e riforma
La chiamavano “gioiello di famiglia”
di Loretta
Lega (presidente del Cidi di Forlì)
C’era
una volta la scuola dell’infanzia
Apparentemente,
la lettura dell’articolo della legge di riforma “Moratti”
(Legge n. 53 del 28 marzo 2003) che si occupa di scuola dell’infanzia,
precisamente il comma e) dell’art. 2, sembra la fotocopia di quello
che era stato predisposto nella passata legislatura dalla coppia “Berlinguer-De
Mauro” (Legge n. 30 del 10 febbraio 2000). Ad un’analisi un
po’ più accurata, però, le sorprese non mancano e
sono quasi tutte spiacevoli. Non ci riferiamo tanto alla questione dell’anticipo
(su cui interverremo tra poco), ma su alcune “chicche” che
il legislatore ha voluto dedicare alla scuola materna (e non a caso utilizziamo
questo termine). Infatti, si è voluto inserire tra le finalità
della scuola un pesante riferimento al ruolo “prioritario”
della famiglia nell’educazione dei figli, un richiamo che pensavamo
ormai del tutto pleonastico dopo l’armistizio firmato nel 1968 con
l’istituzione della scuola materna statale. Nessuno vuole mettere
in discussione questo principio, ma perché proclamarlo a voce alta
proprio oggi e “solo” per la scuola dell’infanzia ?
Collegando questa sottolineatura alla previsione di un anticipo scolastico
“su domanda” dei genitori è fin troppo facile scorgere
l’idea di una “non-scuola”, una struttura che risponde
alle diverse domande ed esigenze degli utenti e che può durare
indifferentemente 2 o 3 o 4 anni, a seconda del combinarsi delle istanze
dei genitori e dell’età anagrafica dei figli .
Ci sono poi gli espliciti richiami all’educazione morale e religiosa.
Anche qui, nulla quaestio, soprattutto se si avesse il senso della misura
e del rispetto delle diverse scelte (religiose o non religiose) che le
famiglie adottano in materia (e rimandiamo, per la loro apertura, ai vecchi
e cari Orientamenti del 1991). Tutto l’impianto della riforma è
ispirato ad un forte recupero del piano valoriale ed esistenziale (all’uopo
si crea una nuova disciplina tutta intitolata alle educazioni trasversali,
l’“educazione alla convivenza civile”). E’ certamente
giusto che i “saperi” dialoghino con i “vissuti”
dei bambini, ma in questo caso sembra mancare la necessaria connessione
tra affermazioni di principio (fin troppo impegnative per bambini di tre
anni, come l’invito a “soffermarsi sul senso della nascita
e della morte, delle origini della vita e del cosmo, della malattia e
del dolore…“) ed una più laica e misurata conoscenza
delle potenzialità dei bambini e quindi una più coerente
proposta didattica.
L’accantonamento dei sei campi di esperienza (recuperati in parte
solo nelle ininfluenti “Raccomandazioni”) la dice lunga sulla
volontà di far dimenticare l’impianto bruneriano dei precedenti
Orientamenti del 1991, cioè il principio che la formazione dei
bambini e quindi delle persone si realizza attraverso l’incontro
con la cultura, con i saperi, con i sistemi simbolico-culturali. Si rischia
di tornare ad un approccio ludico-scolastico, alla libera e spontanea
espressività coniugata con il precoce addestramento alle abilità
strumentali del leggere e dello scrivere.
Come interpretare, altrimenti, la clamorosa esclusione della scuola dell’infanzia
dal concetto di “istruzione” ? Infatti, quando si sottolinea
il diritto alla istruzione e formazione di tutti i ragazzi per almeno
12 anni (riprendendo il “senso” della legge 144/99 sull’obbligo
formativo a 18 anni) si ha in mente un percorso che va dai 6 ai 18 anni,
che taglia completamente fuori la scuola dai 3 ai 6 anni. Se non è
istruzione, né formazione, allora cosa è ?
Una
scuola “invisibile”
Poiché il diritto all’istruzione/formazione sarà in
qualche modo sanzionato legislativamente (cioè ci saranno degli
obblighi siano per i fruitori sia per chi deve garantirlo), l’esclusione
della “materna” da questi impegni non fa presagire nulla di
buono, se non la “marginalità” del servizio pubblico
(un vero e proprio optional…). Noi siamo sempre stati perplessi
verso l’introduzione dell’obbligo nella scuola dell’infanzia
(temiamo l’idea di una scolarizzazione tutta schiacciata sul precocismo
e l’anticipo), ma qui si è passato il segno: non esiste più
un diritto all’educazione a tre anni, ma una semplice opportunità
di frequenza (appunto: un optional…).
Stiamo evidentemente esagerando, ma temiamo che sarà questa l’interpretazione
corrente data alla soluzione dell’anticipo. Se la scuola dell’infanzia
è semplicemente il luogo del gioco, allora l’apprendimento
serio (quello degli alfabeti) comincia nella scuola elementare e quindi
è meglio anticipare i tempi di questo incontro. E’ un messaggio
implicito di sfiducia nel ruolo educativo della scuola dell’infanzia,
considerata tutt’al più una zona di transito verso i piani
“alti” del curricolo scolastico.
E’ dunque una scuola “invisibile”, “trasparente”,
senza un suo curricolo stabile, che potrebbe essere “saltata”
degli utenti, senza alcuna conseguenza. Questa preoccupazione aveva portato
gli stessi esperti messi al lavoro dal Ministro Moratti (a partire dalla
commissione presieduta dal prof. Bertagna) ad escludere la scelta dell’anticipo,
proponendo invece la frequenza triennale della scuola dell’infanzia
come “credito scolastico”. Ricordiamo ancora bene come il
prof. F.Montuschi (membro della predetta commissione) ebbe a prendersela
agli Stati Generali della scuola (dicembre 2001) contro la tendenza al
precocismo. D’altra parte, la scelta tutta politica dell’anticipo
di iscrizione alla scuola elementare ha trovato scarsi consensi nel mondo
scientifico e accademico, ancora di più per la particolare formula
adottata, di lasciare scegliere i genitori.
Ripensando
all’anticipo
Studi
empirici accreditati rivelano che il 20 % dei bambini di prima elementare
presentano qualche difficoltà o ritardo nei processi di apprendimento
della lettura e della scrittura: non vorremmo che ora, classi prime più
eterogenee, tendenzialmente più numerose, sollecitazioni o aspettative
improprie dei genitori, determinassero un aggravamento di tali dinamiche.
Meglio allora insistere affinchè una “buona” scuola
dell’infanzia si faccia carico di tutta la complessità dell’età
evolutiva, per curare gli aspetti di autonomia, socialità, autostima,
identità, curiosità dei bambini di 5 anni, attraverso un
saggio equilibrio tra dimensioni logico-cognitive e affettivo-emotivo
dello sviluppo. Una simile “saggezza” hanno dimostrato molti
genitori in parecchie regioni (specie del centro-nord) che, di fronte
alla possibilità di iscrizioni anticipate per i bambini nati nel
gennaio-febbraio 1998, hanno aderito solo nella misura del 10/15 % (media
nazionale del 29 %).
Sappiamo anche che il secondo anticipo, quello che consentirebbe l’iscrizione
alla scuola materna a due anni e mezzo (in prospettiva a 2 anni e 4 mesi),
è –al momento- sospeso per il preciso veto posto dai Comuni
italiani, di fronte all’improvvisazione, alla mancanza di risorse
e di impegni pure previsti dalla legge 53/2003 in materia di modelli organizzativi
e di nuove figure professionali. Anche in questo caso, la tradizione di
impegno verso la prima infanzia avrebbe dovuto consigliare soluzioni ben
diverse dallo strisciante “anticipo” facoltativo nelle “pienissime”
sezioni di scuola materna. In questa direzione, ci possono aiutare le
esperienze pilota di alcune Regioni e Comuni che hanno sperimentato un
modello diverso di anticipo, costruendo sezioni “ponte” o
“primavera” riservate ai bambini tra i 24 e i 36 mesi, con
tutte le precauzioni del caso (rapporti numerici ridotto, es.: 1:10, ambienti
e strutture adatte, professionalità idonee). Non possiamo ignorare
le lunghe liste d’attesa all’ingresso di scuole dell’infanzia
e asili nido, ma la possibilità di rispondere a tali domande richiederebbe
decisive scelte in materia fiscale, di servizi sociali, di priorità
per l’educazione e l’infanzia (ad esempio, espandendo nidi,
scuole dell’infanzia, progetti 0-6 anni).
Purtroppo, dobbiamo registrare una persistente difficoltà dell’attuale
politica scolastica a considerare con serietà e realismo i problemi
effettivi della scuola dell’infanzia, le esigenze di sviluppo e
riconoscimento educativo del servizio, in favore di scorciatoie parziali
e nemmeno tanto gradite ai genitori.
Un’ulteriore controprova si riferisce al problema della continuità
educativa, cioè all’inserimento a pieno titolo della scuola
dell’infanzia nel circuito curricolare dai 3 ai 18 anni. Il totale
silenzio della legge sugli istituti comprensivi di scuola materna, elementare
e media (che rappresentano circa il 43 % delle scuole di base italiane)
e l’esclusione della scuola materna dal profilo educativo degli
allievi in uscita dal primo ciclo (che cita solo il segmento 6-14 anni)
di nuovo ci fanno dubitare della volontà di considerare la scuola
dai 3 ai 6 anni una “vera” scuola e non semplicemente un “servizio”
a domanda individuale, da delegare totalmente agli Enti Locali ed al settore
privato (più o meno sociale).
La
“via” sperimentale
Ma,
noi della materna, non ci arrendiamo facilmente.
E’ probabile che le difficoltà di attuazione della legge
53/2003 (che stanno ritardando i decreti applicativi per il settembre
2003) consiglino il Ministero ad intraprendere la strada di un’attuazione
graduale in ottica sperimentale. Di fronte a tali evenienze la scuola
dell’infanzia (che viene da ampi programmi sperimentali: cfr. i
progetti Ascanio e Alice) dovrà prepararsi con molta determinazione
a rivendicare la propria identità pedagogica, curricolare ed organizzativa.
Si sperimenta per consolidare tale identità, non per dimenticarla.
Ad esempio, in materia di continuità.
Anche prendendo spunto dal bizzarro congegno curricolare voluto dal legislatore
(scuola elementare strutturata nei periodi 1+2+2) dovremo rilanciare progetti
di ricerca e di sperimentazione di nuovi raccordi tra l’ultimo anno
della scuola dell’infanzia e classe prima elementare. Non si tratta
di accettare l’idea di un anticipo degli obiettivi di alfabetizzazione
strumentale alla “materna”, ma di distendere in almeno un
biennio un programma di sviluppo di competenze logico-linguistiche creative,
magari con una presenza intrecciata (per alcune ore settimanali) dei docenti
dei due livelli scolastici.
In tal modo potremmo legare la scuola dell’infanzia ad un percorso
curricolare di ampio respiro professionale e progettuale, così
raffreddando l’ansia di anticipo che sembra mettere in crisi tanti
genitori dei bambini di 5 anni.
Se la riforma Moratti rappresenta una “provocazione” impertinente
e inopportuna per la scuola dell’infanzia (erano altre le “priorità”
e le “emergenze” per il nostro sistema scolastico dai 3 ai
6 anni), sta alle scuole, agli enti locali, e soprattutto agli insegnanti,
riprendersi il proprio diritto di parola, di iniziativa, di autodeterminazione.
Non si tratta di applicare o non applicare una legge dello Stato, di fare
o non fare una sperimentazione, ma di costruire “dal basso”
una migliore qualità dell’educazione dei nostri bambini,
utilizzando tutti gli strumenti che la legislazione, la nostra professionalità,
la nostra esperienza, ci mettono a disposizione.

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