L'educazione nel Cinquecento e Seicento
La disputa, già aperta da Poliziano e Boiardo, su armi e lettere per i nobili diventa motivo ricorrente della cultura cinque-seicentesca. Tra i tanti che l'affrontano, basti citare il Castiglione, che nel Cortegiano ne fa argomento di discussione alla corte di Urbino: e la conclusione è che, pur restando le armi il primo compito del cavaliere, tuttavia «a niun più si convenga l'esser litterato, che ad un uom di guerra» (i, 46).
Certo, non cesserà l'interesse per l'educazione fisica e per gli sport nobiliari, in particolare a Firenze il calcio, ravvivato anche dalle indagini archeologiche e dalla riscoperta della ginnastica degli antichi operata dal Mercuriale col suo De arte gymnastica del 1569 e 1573. Ne sono testimonianza gli innumerevoli trattati di equitazione e arte della scherma, le cronache delle giostre e poemi, come La caccia di Erasmo di Valvasone, dove si suggerisce pallacorda, pallone, pallamaglio, salto, corsa, palestra, lotta, equitazione e nuoto. Ma alla fine le lettere finiranno per avere il sopravvento.
Intanto, mentre i nobili si aprono alla cultura, crescono le scuole cittadine dei mercanti e si sviluppa la nuova cultura umanistica, all'interno del cristianesimo si ripresentano movimenti di riforma che l'ortodossia cattolica perseguita come eretici: e sono attivi soprattutto nel campo dell'istruzione popolare. Già nel Trecento John Wycliffe in Inghilterra, e nel Quattrocento Jan Hus e i fratelli moravi in Boemia si ponevano questo problema; nel Cinquecento lo affrontano con particolare impegno in Svizzera Ulrico Zwingli e Giovanni Calvino, e in Germania Martin Lutero. E anche in Italia, oltre ai Valdesi, che raccomandavano: «Enseigna lo teo fill en la timor del Signor e en la via de las costumas e de la fé», non mancano riformatori che, senza trovare (antico male nostro!) rispondenza tra le masse popolari, seppero tuttavia esplorare con grande profondità le vie del rinnovamento, come Fausto e Lelio Socini e Andrea Carnesecchi, perseguitati dalla Chiesa.
Lutero, nella lettera Ai consiglieri di tutte le città della nazione tedesca, affinché istituiscano e mantengano scuole cristiane, del 1524, dichiarava che «in due o tre anni si potrebbero istruire tutti i ragazzi in modo che a quindici o diciotto ne sappiano di più di quanto se ne sapeva prima con tutte le scuole superiori o conventi»; e proponeva che «se i genitori non possono fare a meno dei bambini per l'intera giornata, li mandino a scuola almeno per una parte del tempo». E Melantone, suo ispiratore e Praeceptor Germaniae, nel De corrigendis studiis precisava: «In una città bene ordinata c'è bisogno di scuole dove i fanciulli, che sono il semenzaio della città, siano istruiti»; e disegnava un piano di organizzazione scolastica cittadina. E anche se Erasmo da Rotterdam potrà commentare che «dove fiorisce il luteranesimo, le scuole deperiscono», in realtà proprio da questi movimenti si avrà una grande espansione dell'istruzione in Europa.
E la Chiesa cattolica cercherà di rispondere, sia con iniziative individuali, sia con interventi ufficiali. Le iniziative individuali erano cominciate presto: le guerre, con gli infiniti danni alle popolazioni, suscitavano attività di assistenza a favore dei fanciulli abbandonati o orfani. A Venezia Girolamo Emiliani (Miani) nel 1511 ne raccolse alcuni e insegnò loro lavori manuali e a leggere e scrivere; la sua attività si fuse poi a Roma con quella della Confraternita degli orfani, e fu detta dei Somaschi. Poi seguirono Gesuiti, Barnabiti, Scuole Arcimbolde, Oratoriani di Filippo Neri, Litterati e altri ordini anche di monache, come quello di sant'Angela Merici. E accanto a loro va ricordata la riflessione di singoli intellettuali cattolici, come il cardinal Sadoleto col suo De liberis recte instituendis del 1533.
Ma la massima iniziativa ufficiale si dispiegò nel Concilio di Trento (1543-1565). Preceduto da un decreto di Leone x che nel Concilio lateranense dei 1515 aveva comminato il rogo dei libri non approvati e la scomunica dei loro autori, il Concilio redasse un Index librorum prohibitorum, in cui figuravano Dante, Machiavelli, Ovidio e altri massimi ingegni. Inoltre condannò in dieci "regole" le diverse specie di libri: eretici, osceni, di geomanzia, idromanzia, aeromanzia, piromanzia, chiromanzia, necromanzia o altre forme di magia. Il che, nell'incerto confine tra scienza e magia, significò un freno alla ricerca scientifica: e ne faranno le spese i maggiori ingegni, da Giordano Bruno, a Tommaso Campanella, Galileo e a tanti altri, con il risultato di un deperire delle scienze in Italia in confronto al resto dell'Europa toccata dalla riforma. Quanto alle scuole, il Concilio istituì dei "seminari" per l'istruzione dei chierici. Vi prevedeva l'insegnamento della grammatica, del computo ecclesiastico e «delle altre buone arti,». e soprattutto «della sacra scrittura, dei libri ecclesiastici, delle omelie dei santi, dei sacramenti e delle forme dei riti e delle cerimonie».
Così approntava i quadri di un esercito destinato a controllare, l'istruzione dei ceti privilegiati e a trascurare quella dei ceti subalterni, ai quali si riservava il catechismo: il suo reparto più forte fu l'ordine dei Gesuiti, fondato da Ignacio de Loyola nel 1534. Facendo seguito al Piano di educazione, contenuto nelle Costituzioni originarie, l'Ordine elaborò tra il 1586 e il 1599 quella Ratio studiorurn che, tenendo conto di molte esperienze protestanti, dava rigore all'organizzazione delle sue scuole. Prevedeva l'organizzazione in classi, gli orari, i programmi, la disciplina, la divisione in sei anni di studia inferiora e tre di studia superiora, nei quali apprendere grammatica, poesia, retorica e filosofia, divisa a sua volta in logica, fisica, etica, seguiti da un anno di metafisica, matematica superiore, psicologia, fisiologia, e conclusi da una repetitio generalis, da un anno di pratica di insegnamento e infine da altri quattro anni di teologia. In questi studi la cultura classica, ormai riaffiancatasi a quella biblica, veniva «purgata ab omni obscoenitate» ad uso dei giovinetti delle scuole. Inutile dire che, così organizzate, le scuole gesuitiche, a cominciare dal Collegio romano fondato nel 1565, produssero una buona messe di uomini di cultura e di scienziati eminenti: in grado, se non altro, di contrastare per secoli le teorie di Copernico, di Galileo, di Bruno e di Newton.
Il loro predominio comportò un irrigidimento dello spirito dell'Umanesimo, intento solo alle forme linguistiche e diffidente agli aspetti culturali, e la fine delle libertà universitarie. A Bologna, sottomessa al potere pontificio, per domare gli studenti, «soliti strepitare e non lasciare leggere..., scrivere sui muri, giocare a palla», si introdussero severe restrizioni, cominciando nel 1569 con la richiesta di una professione di fede per i licenziandi, continuando nel 1609 con l'obbligo della comunione almeno due volte l'anno, e così via reprimendo. Quanto lontani i tempi dell'Authentica dei Barbarossa! Erano del resto i tempi in cui il Cardinal Legato nelle Romagne, con editti del' 1663 e 1090, comminava la scomunica alle popolane che avessero abbandonato i f'ig'li per fare le balie, ma tutelava le nobildonne che li avessero esposti «per ragioni d'honore» ; e in cui si distinguevano gli orfanotrofi per i figli di «genitori onesti» e di «genitori ignoti».
Ma come e in che misura la riforma protestante e la controriforma cattolica modificarono la realtà della scuola? Una risposta ci viene dal crescere delle satire e delle utopie, che sono l'aspetto distruttivo e costruttivo della critica dell'esistente.
La letteratura cinque-secentesca ridonda di satire scolastiche: in latino maccaronico, nell'italiano "fidenziano", suo contraltare pseudocolto, nelle commedie. Ecco il frate Teofilo Folengo immaginare nel suo maccaronico Baldus tre diverse educazioni delle tre figure sociali, che ci ricordano quelle del Facetus. La prima è di Baldus, nobile nato tra contadini, che, mandato a scuola, apprende in tre anni a leggere
Virgilio, ma appena comincia ad annusare i poemi cavallereschi, «fecit de cuius Donati deque Perotto scartozzos ac sub prunis salcizza cosivit», e rifiuta le percosse e spezza le tavolette sulla testa del maestro (III, vv.94-120), come Eracle con Lino, l'indisciplinato scolaro delle Bacchides di Menandro-Plauto e l'Agricane del Boiardo. La seconda educazione è del chierico "Prae Iacopinus", così ignorante che bisogna insegnargli l'alfabeto, mostrandogli che l'asino quando raglia dice "a", la pecora dice "be", e i villani del suo paese chiamano i porci facendo "ce ce" (ivi). La terza educazione è quella ricevuta dallo stesso Folengo, nel personaggio di Merlin Coccai, autore del Baldus: mandato a studiare a Bologna a spese del paese, segue le lezioni del « filosofastro» Peretto (che è nientemeno che il grande Pietro Pomponazzi) e di Petro Ispano, ma adopera i loro libri per nettezzare culamen, e si mette a scrivere versi in latino maccheronico (ivi, XXII, vv. 120-132),
E dopo il latino maccheronico del Folengo, ecco l'italiano latineggiante di un autentico maestro di scuola, Fidentio Glottocrisio Ludimagistro, o Maestro di scuola dalla lingua d'oro, sotto il quale si cela il vicentino Camillo Scroffa. Tra il serio e il faceto ci parla del suo «amplissimo ludo letterario», frequentato da «cento fanciulli d'indole prestante», e ce ne descrive le giornate, col poco studio, i frequenti tumulti e l'inevitabile uso della frusta. Ecco una scena di vita scolastica, riferita da un assistente:
Pugnano insieme le classi e i manipuli, dic'egli, tal che si potrebbe ambigere se sian nimici o pur sian condiscipuli.
Io volea pur in ordine redigere il tutto, dar l'epistula e poi leggere, ma voluto m'han quasi crocifiggere.
Ed ecco l'elogio della frusta, la dolce «magistral mia scutica», compagna della «toga semilacera»:
Per te già i miei discipuli ediscevano i themi, senza errar d'una litterula; alioquin, acuta voce et querula, pulsati, fino all'ethere emettevano
(Parnaso italiano,1787, xxv, pp. 215 e 237).
E se dal latino maccaronico e dall'italiano latineggiante passiamo al volgare più o meno illustre delle commedie, ecco l'Aretino prendere in giro le «pedagogherie», mostrando il «pedante» che entra in scena recitando in latino l'inizio del Dottrinale e seguitare con una scena, manco a dirlo, di battiture:
(Pedante). Verum est che io ti do questa. (Paggio). Con i pugni, ah! (Pedante). Toglie quest'altro. (Paggio) Al corpo di Cri...!
(Il Marescalco, in, se. 10 e 11).
Ed ecco le commedie di Aretino, Bibbiena, Dolce, Belo e degli Ariosti, il grande Ludovico e il figlio Gabriele, che completa la commedia Gli studenti lasciata incompiuta dal padre, col titolo La scolastica, dove appare la vita quotidiana del maestro, col suo raccogliere studenti e collette. Ed ecco il Della Porta deridere il «portafrusta», ovvero Narticoforo, maestro di scuola; ecco Giordano Bruno nel Candelaio far finire "a cavallo" il maestro Mamphurius; ecco le puntigliose informazioni che Tommaso Garzoni ci fornisce in quel suo straordinario libro che è La Piazza universale di tutte le professioni del mondo. Egli ci mostra «i pedagoghi condursi dietro i giovinetti per le strade, insegnando loro i themi, le concordanze» (Ed. 1626, 111, p. 139); eccolo fare la predica ai ragazzi che «vanno a giuocare dietro alle mura, s'aggirano per le piazze..., fuggendo la scuola più che il demonio la croce, e la presenza del maestro, come la faccia d'un serpe»
(CII, p. 313). Ed ecco un elenco dei loro giochi: «Far chiasso nelle scuole, romper silenzio nell'absenza del maestro, dar de' pugni a colui che tien la norma, far le figaccie dentro i salterij..., giocare a pisso e passo con la cerca, o. a primo e secondo con Virgilio e Cicerone..., far le barchette da acqua, pigliar le mosche et serrarle ne' cartocci, dar la caccia a' grilli per farli cantare in scuola, portare i parpaglioni da volare, haver le piastrelle di piombo nella sacca da giocare, attendere... a far de' pallij da correre, far scaraboni sopra i Donati, dipinger teste dentro ne' Guarini, stracciare il Cato per non tenerlo a mente, morder colui che gli leva a cavallo, dimandar ogn'ora d'andare (ad locum, overo mictum), attaccar la foglia di fico alla sedia del maestro, nasconderli la scutica magistrale, recitar la frotta de' scolari d'Ariosto in cambio delle epistole d'Ovidio, uscir di scuola come diavoli scatenati, urtarsi fra loro come tanti facchini, girar per le mura facendo mille pazzie..., consumare il tempo in giocare al pino, alla mossola, al pandolo o alla baronzola, all'età dritta, alle piastrelle, a corrersi dietro a cicerlandia, et a simil'altre frascherie». E questa sfilza di giochi finisce inevitabilmente così: «Hor queste sono le cose che fanno disperare i padri, che fanno gridar le madri, che fanno adirare i maestri, onde ricevono le staffilate con la scutica ch'è stata nell'aceto, le bacchettate con la verga di spino bianco, i tartuffoli sul capo, i mostaccioni nella faccia, i calci di dietro, i pugni davanti, et una buona mano il dì di San Silvestro», cioè a fine d'anno, per riepilogo (ivi, p. 315). Insomma, un compendio perfetto del sadismo pedagogico di tutti i tempi e luoghi.
Queste satire ci ricordano quelle degli antichi, dalla Grammatiké tragoedia al Didaskalos di Menandro alle Bacchides di Plauto, alle ironie di Petronio, ai versi di Marziale, e si affiancano alle contemporanee satire di Rabelais, che in Gargantua e Pantagruele si diverte a prendere in giro il maestro del gigante Gargantua, quel Thubal Oloferne, che fa studiare per cinque anni e tre mesi l'alfabeto in modo da 'saperlo recitare anche a rovescio (I, cap. XIV). E come non ricordare lo Shakespeare delle Allegre comari di Windsor, o di Romeo e Giulietta, dove leggiamo che «Amore corre verso amore come i ragazzi lungi dalla scuola, e Amore vien via da amore con occhi tristi come si va a scuola» (atto li, se. 2)? E il Simplicius Simplicissimus di Grimmelshausen, che ripete i giochi del Garzoni, con in più gli stronzi gelati nascosti nel cuscino del maestro in attesa che si sgelino? O il Bourgeois gentilhomme e Il malato immaginario del Molière con le sue parodie dell'insegnamento e della laurea in medicina?
Ma una rassegna dell'ironia sulla scuola e sul pedante non avrebbe mai fine. Conviene affiancarle l'aspetto positivo, l'utopia educativa, che dopo Platone riprende ora i suoi fasti. Ecco l'Utopia di Tommaso Moro, che ha dato il nuovo nome a questi sogni, ove' la scuola si alterna al lavoro agricolo e artigianale, per non più di sei ore. Ecco, senza contare l'educazione di Gargantua a opera di Ponocrate, il Pilgrim's Progress del Bunyan, la Christianopolis dell'Alsted, il Turbo dell'Andreae, il Memoriale del Ratke alla Dieta imperiale di Francoforte dei 1612. Ed ecco La Città del Sole di Tommaso Campanella, che propone l'istruzione universale di tutti, in una didattica di socializzazione, di gioco e di lavoro con l'apprendimento di quante più arti, onde è ritenuto nobile «chi più arti impara e meglio le fa». E poco importa che, come risulta nella sua lettera del 1606 al cardinal Odoardo Farnese, egli resti legato a un'ispirazione antiumanistica che intende «scioglier la gioventù dalla dottrina greca, zizania del Vangelo e nutrimento dell'empietà di questo secolo, che fa svanir gl'ingegni ed oscurare» : la critica dell'esistente e l'impegno educativo ne faranno un modello di altre utopie e proposte.
Ma come sforzo complessivo si segnala tra tutte l'opera del boemo Jan Amos Comenius, incerto anche lui tra vecchio e nuovo. Mentre il suo paese era devastato dalla guerra dei Trent'anni, nella convinzione di essere ormai alla fine del mondo (sub mundi finem) egli prospetta una pace cristiana universale. Sulle orme della tradizione dei fratelli moravi di Jan Hus, egli scrive testi scolastici e nella Didattica magna e nella postuma Consultatio catholica elabora una «pampaedia» o progetto di «insegnare tutto a tutti totalmente», dalle artes sermocinales alle artes reales,cioè discipline letterarie e scientifiche, confidando di poter «imprimere tutte le cognizioni nella mente dei fanciulli» come si farebbe su un libro in una tipografia vivente (Typographeum vivum), stabilisce le sue Leges scholae bene ordinatae.
Più legato ai primi sviluppi industriali della sua Inghilterra è Ruggero Bacone, che nella Nuova Atlantide progetta una «Casa di Salomone», una specie di Accademia delle scienze e dell'istruzione, e gabinetti scientifici, impianti meccanici e istituti di matematica e «dei mostri e dei prodigi», in cui la cultura e la produzione appaiono strettamente collegate. Eppure, nemmeno in lui mancano le turpi astuzie, come quando, in una lettera del 1584 alla regina Elisabetta, suggerisce di concentrare i figli dei «papisti», cioè dei cattolici, in luoghi predisposti, per averli «sotto pretesto d'educazione, come ostaggi» e per educarli devoti al potere. Così i turchi educavano come giannizzeri i ragazzi rapiti nei nostri lidi.
In tutti questi progetti si intrecciano, come in Platone, pensieri retrivi e spunti liberatori, velleità di ricostruire un passato da rimpiangere e disegni una perfezione impossibile. È l'inevitabile destino di tutte le utopie.
Ma ormai siamo alle soglie del Settecento: critiche, satire e progetti si rifanno sempre più, anziché ad utopie religiose millenaristiche, alla necessità di adeguarsi ai nuovi sviluppi delle forze produttive.
L'Europa sta scoprendo e assoggettando nuove terre, talvolta per ripopolarle con i suoi coloni, talvolta per sfruttarle economicamente: non è più il sogno religioso di Comenio, che lamentava che, dal punto di vista del cristianesimo possedessimo solo un piccolo tratto della terra (tantillum terrae); è un processo storico concreto, sostenuto dall'incremento delle scienze e delle tecnologie. E, dopo Bacone, l'Inghilterra diventa la sede di nuovi progetti in cui l'utopia si adegua al reale: Dury, Petty, Woodward progettano scuole professionali o Gymnasia mechanica, dove, senza trascurare le basi della cultura generale, tutti apprendano un mestiere.
E mentre in Italia, dove nel 1657 era sorta la galileiana Accademia del Cimento, seguita nel 1602 dai Lincei, pullulano ormai, dopo la Crusca nata nel 1582, soprattutto oziosissime accademie letterarie, in Inghilterra si fonda nel 1660 quella Royal Society, quasi attuazione della baconiana Casa di Salomone, che mirerà a promuovere gli scambi di informazione scientifica e l'istruzione sperimentale fisicomatematica.
Forse John Locke esprime al meglio, nei suoi Pensieri sull'educazione del 1693, queste nuove posizioni di critica e di proposta. Egli dichiara di «porre l'istruzione come ultima parte dell'educazione», rifiuta la scuola di latino e greco e della sferza del maestro, e sostiene che «si deve avere cultura», ma che essa «deve stare al secondo posto e subordinata ad altre doti maggiori». C'è anche in lui una buona dose di conservatorismo, dato che pensa solo al gentleman, e la sua sembra un'ultima voce della disputa umanistica su armi e lettere. Attraverso il gioco, l'esperienza pratica, l'autogoverno, egli pensa all'acquisto di conoscenze e alla libertà del pensiero; e non trascura l'educazione fisica e il lavoro, ma intesi come hobby del gentiluomo e, anzi, come sua capacità di controllare il lavoro dei sottoposti.
Ma ormai, dopo le esperienze dell'Umanesimo, l'idea di una pedagogia a misura del fanciullo, e della presenza del gioco, dell'educazione fisica, del lavoro manuale, e la preminenza data alle conoscenze «reali», di scienze naturali e di tecnologia, sono entrate definitivamente nel campo pedagogico.