Tra Ottocento e Novecento

Le rivoluzioni del 1848 segnano la fine della restaurazione trionfante, anche se la sua tenuta durerà ancora. Di decennio in decennio l'Italia, con l'aiuto francese e prussiano, e grazie all'iniziativa garibaldina compie la sua unificazione: il 26 marzo 1861 nasce il Regno d'Italia, e comincia un nuovo momento della nostra storia.

In queste vicende si inserisce l'iniziativa piemontese di una nuova legge generale sull'istruzione, destinata ad estendersi a tutto il nuovo regno: è la legge Casati, del 13 novembre 1859, varata ín stato di guerra con la delega dei pieni poteri al sovrano. In nome dello «spirito di libertà» essa regola in 5 titoli e 380 articoli tutto il sistema d'istruzione, dall'amministrazione centrale ai suoi diversi ordini e gradi: universitario, classico, tecnico, elementare. L'università (Tit.II, artt. 47-187) vede conservate le antiche facoltà, solo con lo sdoppiamento delle "arti" in scienze fisiche, matematiche e naturali più fi­losofia e lettere (art. 49). L'istruzione classica (Tit. III, artt. 188-271), crede delle antiche scuole sermocinales di grammatica e di retorica, prevede due gradi «in stabilimentì separati»: il ginnasio di cinque ;inni e il liceo di tre anni. L'istruzione tecnica (Tit. itl, artt. 272-314), derivata dalle Realschulen, prevede due gradi di tre anni ciascuno, senza sbocchi ulteriori: la legge, pur riconoscendo «quanto è utile e necessario» un insegnamento tecnico superiore, conclude sconsolatamente che «non è però a dissimulare che richiede larga spesa e dà luogo a non poche difficoltà», e si affida alle poche iniziative private.

Per l'istruzione primaria (Tit. IV, artt. 315-378), «data gratuitamente in lutti i comuni», si dichiara che «il compito del legislatore tornava nido più facile, dappoiché questo ramo fornì negli ultimi anni argomento prediletto di cure, di studi e di larghi provvedimenti» (Collezione celerifera delle leggi, p. 450). Articolata in due gradi di due anni ciascuno, aperta ai fanciulli di sei anni, prevede classi di non più di settanta allievi rispetto agli ottanta-cento di prima, ma consente pluriclassi con cento allievi, e pone la religione cattolica come primo degli insegnamenti. Infine, per la preparazione dei maestri si aprono nove scuole "normali" maschili e nove femminili, ma nessuna scuola normale superiore: la si erediterà poi dalla scuola di Pisa, risuscitata nel frattempo dal Granducato di Toscana.

La legge non dichiarava l'obbligo scolastico per gli individui: non piaceva ai clericali, che lo consideravano un genocidio infantile. Cesare Cantù scriveva che «se lo Stato fosse obbligato a dar l'istruzione, tutti sarebbero obbligati a istruirsi, lo che é falso» («L'amico delle scuole popolari», agosto 1864). E la Chiesa ufficiale reagisce duramente a ogni iniziativa statale: il papa "liberale" Pio IX, che aveva già condannato le Società bibliche e la libertà di pensiero come «mo­struosi e fraudolenti errori..., orribile infezione..., dottrine pestilen­ziali e guazzabuglio di errori», e «quella dottrina funesta... che chia­mano comunismo» (Enciclica Qui pluribus, 1846), ora, con l'enciclica Quanta cura e il Sillabo dell' 8 dicembre 1864 raccoglie in un'unica condanna tutte le nuove idee. Anzitutto che «Il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e cori la moderna civiltà ve­nire, a patti e conciliazione» (cap. X, n. 80); poi, che «Tutto il regime delle pubbliche scuole, in cui si istruisce la gioventù di qualsiasi Stato cristiano... può e deve essere affidato alla civile autorità...» (art. 45); che «... le scuole popolari, aperte ai fanciulli di qualsiasi classe del popolo, e in generale tutti gli istituti destinati all'insegnamento delle lettere e delle discipline più gravi... siano sottratte a ogni autorità, all'influenza moderatrice e all'ingerimento della Chiesa...» (art.. 47); infine che «ai cattolici può essere accetto quel sistema di educare la gioventù, il quale sia separato dalla fede cattolica e dalla podestà della Chiesa... , (art. 48). Curiosamente, come nei rapporti polizieschi sul socialismo e il comunismo, sotto l'incipit generale che nega tutte le proposizioni riportate, si ha qui la formulazione in positivo delle rivendicazioni laiche e liberali. E, ancor più curiosamente, la battaglia ideale si combatte in nome di due slogan facili a confondersi: libertà d'insegnamento da parte liberale, libertà della scuola (ovviamente cattolica) da parte clericale.

Ma, nonostante questi anatemi, la scuola pubblica si veniva facendo. La sinistra, salita al potere nel 1876, varò due provvedimenti di grande portata ideale, anche se di limitata attuazione pratica. Il primo fu la legge Coppino del 1877, che rendeva obbligatoria l'istruzione elementare non solo per i Comuni ma anche per le famiglie (art, I) e introduceva l'insegnamento dei diritti e doveri del cittadino (art, 2), tacitamente cancellando la religione come insegnamento obbligatorio. Nel 1878, ai ricorsi dei genitori cattolici il Consiglio di Stato lo dichiarò facoltativo; nel 1888 il Regolamento ministeriale dispose l'obbligo per i Comuni di istituirlo se richiesto dai genitori; nei 190 si confermò cale era «tacitamente abolito»; nel 1904 che, «essendo facoltativo, non può impartirsi nelle ore destinate agli insegnament i ob bligatori»; nel 1908 che, se istituito su richiesta, doveva avere a disposizione i locali scolastici. Un atteggiamento laico e sicuramente liberale, che dovrebbe valere anche oggi.

Il secondo provvedimento innovatore fu la legge De Sanctis del 1878, che introduceva l'insegnamento della ginnastica, affidandolo alle Società ginniche, sorte a Torino già durante la restaurazione, ee ad insegnanti provenienti dalle file dei sottufficiali dell'esercito. Erano i soli istruttori allora possibili, come già per gli insegnanti di mate­rie letterarie previste dalla legge Casati si era dovuti ricorrere a preti e garibaldini. L'intenzione che ispirava i due provvedimenti era in sé meritoria: rifare la «pianta uomo» nel corpo e nello spirito, per dare all'Italia cittadini e soldati degni di una società moderna. Ma chi volesse sapere qualcosa sugli umori e le difficoltà suscitati da questa leg­ge potrebbe leggere il romanzo Amore e ginnastica di Edmondo De Amicis.

La frequenza scolastica cresceva, ma molto lentamente. La popolazione contadina, bisognevole dell'apporto del lavoro infantile, non era certo favorevole all'obbligo scolastico, e i Comuni, spesso in mano ai clericali, si opponevano in nome del Sillabo, perseguitando spesso le maestre forestiere con mezzi spesso infami e crudeli. L'istruzione tecnica continuava a giovarsi soprattutto delle iniziative private, l'istruzione femminile continuava ad essere avversata, e quella infantile abbandonata agli asili delle monache come semplice accudimento e catechizzazione. Le scuole erano descritte nelle relazioni ufficiali come «tuguri umidi e malsani, cappelle fredde e oscure, sagrestie abbandonate, vecchie stalle, cantine umide, cucine affumicate, soffitte aperte a tutte le intemperie», dove «sagrestani, sarti, calzolai e fratonzoli avvezzi a giocare alla bassetta insegnavano al massimo I'Ave Maria o poco più» (Documenti sull'istruzione elementare in Italia, 1870). Era, quanto meno, «la scuola noiosa» che tutti denunciavano e che non si aveva la forza di cambiare: dove tuttavia, si insegnava almeno qualche minima cosa che oggi non si insegna più, come a stare dritti sui banchi e leggere e scrivere senza piegare la testa sul foglio per finire gobbi e guerci.

D'altra parte la Chiesa cattolica, alla quale lo Stato liberale lasciava piena libertà di istituire sue scuole, non mancava di iniziative. Basterà ricordare quelle di due ordini francesi, le Suore del Sacro Cuore per l'educazione dell'infanzia, e gli Scolopi per le altre scuole; e tra noi l'iniziativa di Don Bosco, fondatore dell'ordine attivissimo dei Salesiani. 11 suo oratorio, fondato nel 1846.. divenne presto una scuola professionale che suppliva alla carenza dello Stato: dal punto di vista dell'ispirazione pedagogica, si caratterizzò per la preferenza data al metodo preventivo sul metodo repressivo, anche se don Bosco dichiarava che nel suo sistema «la frusta, ossia la minaccia salutare dei venturi castighi non è assolutamente esclusa» (Lettera al maestro Bodrato).

Ma intanto si manifestava l'iniziativa delle donne in due direzioni: dell'apertura di scuole dell'infanzia, e della lotta per l'accesso a tutti i gradi dell'istruzione e alla carriera dell'insegnamento.

Per il primo aspetto, i giardini d'infanzia di Froebel, già soppressi dal governo prussiano e poi riaperti nel 1860, si diffusero in Italia soprattutto a opera di donne straniere e protestanti, come la tedesca baronessa von Mareholtz Búlow, l'americana Gould e la svizzera Salis Schwabe, religiosissime e alquanto conformiste. La Gould si entusiasmava, all'idea che «lavandaie, serve, ciabattini e meccanici» accettassero il patrocinio «del ceto superiore», che le teneva «lontane dalla fatale trappola del comunismo e della miscredenza». Furono tuttavia combattute dai clericali come «beche che vengono da paesi dove non batte mai il sole e che insegnano a parlar male del Papa». In realtà, tra loro una soltanto, un'ebrea ucraina, moglie presto divorziata del grande filologo Domenico Comparetti, dedicò le sue sostanze a un giardino d'infanzia a Venezia, rifiutando ogni ossequio pedisse­quo sia al froebelismo sia al catechismo. Pensava a gratuità, borse di studio, modernità dei metodi: «Se tutti i bambini degli asili e delle scuole elementari avessero a sufficienza aria, moto e occupazioni adatte alla loro natura, invece delle torture fisiche e morali che si fan­no loro subire, mi consolerei facilmente al veder ridotto o modificato il sistema Froebel» (4 luglio 1872). Voleva una scuola rispettosa di tutte le opinioni, ma, come scriveva al suo collaboratore Adolfo Pick, senza catechismi. Ma il suo giardino di Venezia, licenziato il Pick, fu presto incorporato nelle iniziative comunali e trasformato nel solito nido di conformismo. Questa è stata la risposta di un'Italia liberale In conflitto coi cattolici a una donna che scriveva: «Credo che per l'emancipazione della donna il progresso verrà... dalle donne del popolo...; che la causa delle donne sia immediatamente legata a quelli della democrazia... Lasciamo le classi ricche marcire nella corruzione ma e aspettiamo il progresso da dove può venire» (23 ottobre l872). Era troppo, sia per i cattolici, sia per i liberali.

L'altro aspetto, dell'accesso delle donne all'istruzione e all'insegnamento dette luogo a resistenze e a soluzioni transitorie, prima di j si vare a quella assoluta parità, che pare oggi ovvia. La parità delle maestre con i maestri, il collegamento tra la scuola elementare, che terminava ai nove anni, e la successiva scuola normale, che cominciava ai quattordici, lo sviluppo di queste scuole in istituti magistrali, la costituzione di un magistero femminile di livello universitario, l'accesso delle donne ai licei accanto ai maschi e quindi all'università furono battaglie combattute contro le resistenze clerical-conservatrici armate dei consueti slogan di falsa esaltazione della donna, di cui istruire più il cuore che la mente: e ci vollero decenni e decenni per vincerle. Protagonisti furono persone dello schieramento democratico garibaldino: Achille Sacchi volle che i suoi figli e figlie andassero alla stessa scuola liceale; Lidia Poet, laureatasi in legge, dovette lottare per esercitare l'avvocatura; e dopo che la legge del 1911 aprì la via anche alle donne, Teresa Labriola ebbe una cattedra universitaria, ma Evelina Cimata, laureatasi nel 1908, fu ammessa nell'albo degli avvocati solo dopo la nuova legislazione del 1919, e ne sarà poi esclusa dal fascismo.

Sul piano del rapporto pedagogico e della didattica, un'altra battaglia si combatté contro l'eterno sadismo pedagogico e la scuola verba­listica della «tragedia grammaticale». Nasceva l'éducation nouvelle, di ispirazione roussoiana, caratterizzata dallo spirito di libertà, dal pue­rocentrismo e dal richiamo, di ispirazione socialista, alle attività lavorative. Ci fu in tutta Europa un fiorire di iniziative variamente caratterizzate da quei principi. Ricordiamo i russi Tolstoj e Cernyscevskij, lo svedese Salomon con il suo sloyd, scuola anche di lavoro pratico artigiano, del francese Demolins con l'Ecole des roches, del belga Décroly con l'École pour la vie, dello svizzero Ferrière con la «Scuola serena» o «su misura», dei tedeschi Lietz con le Landeserziehungsheime o Case di educazione in campagna, Geheeb e Winneken coi Wandervogel o «uccelli migratori», degli inglesi Reddie con la scuola di Ab­hotsholme, e Haden Badley con la scuola di Bedales, del cattolico spagnolo Manjon con le «Scuole dell'Avo Maria», e dell'anarchico catalano Francisco Ferrer, fucilato nel 1909 con l'accusa di aver sostenuto i moti contro la guerra coloniale in Marocco, con la «Scuola moderna.»

E intanto anche in America, come testimoniava il belga Omer Buyse che ne aveva studiato le scuole, la battaglia per la riforma dell'istruzione si intrecciava con quella per l'emancipazione femminile e contro la segregazione razziale. Anche lì si era alla ricerca di una didattica del concreto, che sollecitasse «tanto l'abilità delle mani quanto la vivacità del pensiero» (Méthodes américaines d'Education générale e technique, (1908). Era, insomma, il learning by doing, l'imparare facendo , che avrà in John Dewey il suo maggiore teorico, in grado di porre la scuola al centro della società: «Tutta l'educazione sia socializzata... La scuola è prima di tutto un'istituzione sociale... è lo strumento più efficace di progresso e di riforma sociale» (Il mio credo pedagogico, 1897, pp. 7 e 17-18). Venti anni dopo sarà un americano Carleton Washburne, a venire a studiare le scuole attive europee.

 

Fu un movimento innovatore, ricco di molteplici ispirazioni, che tuttavia non riuscì a modificare nel profondo la scuola consolidata. In In Italia restava la differenza sociale tra scuole classiche ai ceti dominanti, e scuole tecnico-professionali ai ceti subalterni emergenti, contese tra Ministeri dell'istruzione e dell'agricoltura, industria e commercio: erano le sole a cui i socialisti si interessassero, considerandole le sole adatte alla classe operaia. Tra loro solo il filosofo Giuseppe Tarozzi chiederà «un'istruzione in più».

Quanto alla nuova didattica, oltre a Pick, che aveva studiato le scuole svedesi, furono attive le sorelle Agazzi con la «Scuola serena», e la Pizzigoni con «La rinnovata», seguite da Giuseppe Lombardo Radice, e soprattutto Maria Montessori. Convinta che esistono «uomini che hanno mani e non teste, e uomini che hanno teste e non mani, ugualmente fuori posto nella comunità moderna», aprì a Roma nel 1904 la «Casa del bambino», elaborando, su rigorosi princìpi medici, strutture, suppellettili, attrezzature e metodi commisurati ai bambini, che ne sollecitassero la mente e le abilità pratiche: applicati dapprima alla cura dei bambini anormali, si rivelarono adatti anche ai normali, e si diffusero in tutto il mondo. Ma le iniziative scolastiche ufficiali non andarono oltre ripetuti ritocchi della scuola elementare, come i nuovi programmi di Aristide Gabelli del 1888, la legge Orlando del 1904, che creò un corso popolare postelementare con attività manuali facoltative, e la legge Daneo-Credaro del 1911, che avocò allo Stato la scuola elementare, sottraendola alle situazioni aleatorie dei singoli Comuni.

Nel 1907, nel Congresso della Federazione nazionale insegnanti scuola media (secondaria), Giovanni Gentile proponeva «in nome della laicità» l'introduzione dell'insegnamento cattolico nelle scuole dello Stato: «Proprio perché laica - diceva. - la scuola deve accogliere l'insegnamento religioso. E poiché in Italia la religione predominante è la cattolica, a insegnare religione devono essere i preti cattolici, L'ordine del giorno ottenne il suo solo voto: ma era il prodromo di un nuovo corso.

La belle époque finì con una guerra europea che poté definirsi mondiale: e anche la scuola ne patì le conseguenze.

Con la pace rinacquero le speranze, e in Europa la costituzione del BIEN (Bureau international des écoles nouvelles) a opera del Ferrière parve di buon auspicio per una ripresa dell'iniziativa democratica nell'educazione. Negli Stati Uniti operavano attivamente i seguaci di Dewey: Kilpatrick col suo «Metodo dei progetti», Helen Park col «Piano Dalton» e Carleton Washburn col «Piano di Winnetka». In Russia la rivoluzione bolscevica iniziava le sue riforme, ispirandosi insieme agli ideali delle scuole nuove e alle tesi di Marx sull'unione di istruzione e lavoro. E intanto la psicopedagogia e la pedagogia dell'età evolutiva avviavano grandi progressi sia in Svizzera con Piaget, sia in Unione Sovietica con Wygockij.

 

Ma in Italia le cose andarono diversamente. Il 22 ottobre 1922 salì al potere il Partito fascista, nella cui politica scolastica si possono distinguere tre momenti: dal 1922 al 1925, del rigore e della restaurazione classicista; tra il 1925 e il 1936 dei tentativi di efficientismo e della «bonifica fascista»; tra il 1936 e il 1943 del velleitarismo populista con la «Carta della scuola».

Nel 1923, la riforma del ministro Gentile che, iscrivendosi allora al fascio, dichiarava di essere «fascista perché liberale», investì tutta la scuola in senso conservatore. Egli fondava la sua riforma sulla distinzione tra scuole per i ceti privilegiati, con gli studi umanistici, e scuole per i ceti subalterni, con apprendianenti professionali specializzati; e accentuava la discrimiuazione nei riguardi delle donne, escludendole dall'insegnamento dei licei e indirizzandole a un liceo femminile «per le signorine di buona famiglia». Ma il tratto più caratteristico della sua riforma fu il totale disinteresse per l'istruzione del popolo: «L'esclusione di un certo numero di alunni dalla scuola pubblica era stato il proposito ben chiaro della nostra riforma... Non si deve trovare posto per tutti... La riforma tende proprio a questo: a ridurre la popolazione scolastica», (La riforma della scuola in Italia, p. 281). Così dichiarava il miuistro liberale dell'istruzione in un governo fascista: eppure la sua riforma, per l'intenzione di restituire rigore agli insegnamenti e per la preminenza assegnata agli studi classici, parve, e pare ancora ad alcuni, un'iniziativa meritoria.

Dopo che, nel 1925, Mussolini aveva dichiarato: «Il governo esige che la scuola si ispiri alle idealità del fascismo», si soppressero le libere associazioni giovanili e si crearono l'ONB (Opera nazionale Balilla) e gli Avanguardisti, poi fusi nella GIL (Gioventù italiana del Littorio), i GUF (Gruppi universitari fascisti); e dal 1929 si introdusse nelle elementari il libro di Stato. Fascistizzate le scuole e le associazioni giovanili, e dimostrata la saldezza del suo potere, quello che non era stato possibile all'Italia liberale fu possibile all'Italia fascista: l'11 febbraio del 1929 si firmò il Concordato col Vaticano, che estese alle scuole secondarie quanto la riforma Gentile aveva stabilito per le scuole elementari: «L'Italia considera fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica l'insegnamento della religione Cristiana a secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica» (Art. 36) E rovesciando la legge precedente, che consentiva di richiedere I'insegnamento religioso, ora si consentiva di chiederne l'esonero.

Poi seguirono ritocchi sensibili alla riforma Gentile, intesi a creare forme di istruzione più consone ai moderni sviluppi produttivi, restituendo, al Ministero dell'istruzione la Scuola di avviamento al lavoro (poi di «avviamento professionale»), che unificava i diversi corsi postelementari. Poi seguirono nel 1938 le leggi razziali, in base alle quali «gli ebrei avranno, nell'ambito dello Stato, la loro scuola; gli italiani la loro. Infine il 19 gennaio 1939, il ministro Bottai varava la «Carta della scuola», con la quale istituiva una «scuola media unica», che unica non era. unificando solo i corsi inferiori di ginnasi, istituti tecnici e magistrali, ma non le scuole di avviamento e post-elementari. Bottai, dopo aver dichiarato di voler «trasformare la scuola, che è stata finora possesso di una società borghese, in scuola del popolo fascista e dello Stato fascista» (Carta, xxv), parlando poi alla Camera, commentava: «Non una scuola che offra incentivo alla gioventù di spostare la propria condizione sociale...» (17 marzo 1939). Dava così voce all'autentica vocazione classista del fascismo.

Ma il fascismo finì nelle guerre che aveva lui stesso provocato, e purtroppo con lui rischiò di finire anche l'Italia.

 

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