L'antico Egitto

 

L'antico Egitto, la cui "letteratura" più antica consiste soprattutto in "Insegnamenti", ci ha lasciato numerose testimonianze sull'educa­zione dei ceti dominanti all'arte della politica.

Un primo gruppo di questi antichi insegnamenti risale alla metà del III millennio a.C., ai tempi della III e della IV dinastia. Anzitutto quello per Kaghemmi, nel quale un "visir" comanda ai figli di ascoltare ciò che egli stesso ha scritto (o fatto scrivere dettandolo), e i figli si prostrano a terra davanti a lui e recitano i precetti imparati a memoria. Simili sono gli insegnamenti, di poco posteriori, del principe Hergedef (o Gedefor) e di Ptah-ho-tep, un dignitario di corte che chiede al faraone di ordinargli (era questa la prassi) di parlare per insegnare al figlio, e ricevuto l'ordine, insegna. Sono insegnamenti comportamentali, di etichetta, del tipo: «Piega la schiena davanti al tuo superiore... Sii modesto coi compagni... Misura l'ingordigia a tavola» e così via; e anche di morale, come «Non magnificare il tuo cuore per la tua forza quando siedi tra i tuoi compagni», o quello di farsi una famiglia, o anche «Non far differenza tra un figlio di un nobile e di un popolano, ma solleva fino a te l'uomo per le sue azioni» (Bresciani, 1968, pp. 31-87).

Ma presto, accanto a questi insegnamenti di ubbidienza, compare l'insegnamento del comando, cioè dell' oratoria come arte del «bel parlare», che serve «nel consiglio» di corte e per «placare le moltitudini». Lo ritroviamo verso il 2000 a.C., nell'Insegnamento di Kethy per il figlio Merikara: «Sii un artista della parola, in modo da esser potente. La lingua è la spada dell'uomo... E più forte il discorso di ogni arma». Siamo chiaramente in quell'arte della politica, esclusiva dei ceti dominanti, che avrà tante teorizzazioni in seguito nella civiltà greca e romana, delle quali siamo figli. Ed è un'arte vietata ai non dominanti: « E fango il parolaio: scaccialo, uccidilo, spazza via il suo nome» (Bresciani, 1968, p. 84). Il parolaio (meduti) è l'uomo del popolo che pretende di accedere alla politica.

In un Insegnamento successivo, di un altro Kethy, della prima metà del il millennio a.C., accanto a questa arte della parola o della politica compare anche l'altra arte del dominio, quella delle armi: il figlio è esortato ad apprendere «come comportarsi là dove si combatte, e come avvicinarsi al luogo dove si discute» (Bresciani, 1968, p. 156). I greci parleranno di «ginnastica» e «musica». Ovviamente, anche a queste virtù belliche ci si preparava attraverso un tirocinio che non è l'atto stesso della guerra, ma la pratica sportiva. Mezzo millennio più tardi, la stele del futuro faraone Amenophis 11 lo ritrae mentre il principe Min gli insegna il tiro con l'arco: «Tendi l'arco fino alle tue orecchie! Dài! ». Inoltre ci informa che il principe «conosceva l'equitazione, era anzi abile nell' addestramento dei cavalli..., e non c'era uno che potesse piegare il suo arco». Di un altro faraone, Sesostri, il racconto di Sinuhe esalta la forza del braccio, la velocità del piede, la saldezza del cuore. E, come in Egitto, lo stesso costume troviamo anche in Mesopotamia, dove a metà del sec. V11 a.C. Assurbanipal dichiara­va: «Ho imparato a tirare con l'arco, a cavalcare, ad andare sul carro, a reggere le briglie». La forza fisica e l'addestramento sportivo alla milizia, nonché la caccia grossa agli animali feroci, erano prerogativa dei dominanti, e occorreva addestrarvisi.

Questa educazione dei ceti dominanti veniva spesso attribuita agli dèi, come in un testo della xx dinastia, nel racconto mitologico del duello tra Horo e Seth, o nel racconto del figlio della Verità che «fu mandato a scuola e imparò perfettamente a scrivere, e compì tutti gli esercizi di lotta, e superò tutti i suoi compagni più grandi di lui».

In questo contesto già appare l'esistenza di un "luogo separato": è tale in quanto gli adolescenti vi sono separati sia dagli adulti, eccetto gli addetti alla loro educazione, sia dall'esercizio diretto della futura attività, essendo destinato esclusivamente ad apprendere a esercitarla, fuori da ogni suo esercizio reale. Da principio, come nell'antico Insegnamento di Kethy al figlio Merikara, la scuola della parola o dell'oratoria politica non è altro che un luogo dove chi insegna, magari lo stesso re, siede «sopra una stuoia» circondato dai suoi dignitari: «Istruisci la tua corte sopra la stuoia: un re saggio è una scuola per i nobili». E, come la scuola, è separato anche il luogo del tirocinio militare, - che può essere una palestra o un campo per la pratica sportiva; e l'uno e l'altro sono cosa riservata ai ceti dominanti, ignota ai ceti subalterni dei produttori.

Oltre al luogo separato, questa educazione delle classi dominanti alle arti dei dominio richiede una figura particolare, l'educatore professionale. È il "nutritore", un nobile anche lui, che, dopo la nutrice, nutre, ed alleva a sua volta fin dai primi anni, ed è poi maestro delle arti guerresche e di quelle oratorie, del combattere e del "bel parlare". Ma la sua non è ancora la scuola della scrittura: parlare e scrivere non sono la stessa cosa.

L'arte della scrittura è un'arte sacrale, propria di sacerdoti, che sono parte anch'essi, ma con uno status speciale, dei dominanti: una casta dominante, che spesso contese il potere ai nobili-guerrieri; ma, subordinatamente, è anche l'arte dell'amministrazione burocratica del potere. Il suo "artista" è lo scriba, subordinato ai politici: non un nobile, ma semmai un funzionario, la cui figura sociale si apparenta, ma ad un livello superiore, a quella di tutti gli altri "maestri" delle varie arti o mestieri. Suo compito primo è operare nella pubblica amministrazione, provvedendo al conteggio dei prodotti e delle tasse, ai calcoli per gli edifici o per i fabbisogni di una spedizione militare, alla misurazione dei terreni dopo le annuali alluvioni del Nilo, alla previsione delle stagioni e così via. E', insomma, geometra, architetto, ingegnere, amministratore. Solo secondariamente subentra per lui il compito di maestro, per preparare i suoi apprendisti a essere i futuri scribi, trasmettendo loro i "segreti" della propria arte: e in questo è il primo progenitore di tutti i nostri "maestri di scuola", dai primi livelli fino a quelli dei docenti delle accademie. L'apprendista scriba, dopo i primi apprendimenti nel luogo separato, seguiva lo scriba maestro nel suo lavoro, passando dalla scuola al tirocinio del mestiere, e infine al suo esercizio autonomo.

Socialmente la figura dello scriba, intellettuale burocrate e anche maestro della sua arte, si colloca tra dominanti e dominati. Da una parte. sta «ai piedi del suo signore», «piega la schiena davanti a lui», e «corre verso il suo padrone»; ma nella scuola degli scribi «siede tra i grandi» ed «è alla testa di tutti i generi di lavoro in questo mondo» (Bresciani, 1968, p. 307). Anche in Mesopotamia lo scriba dice di sé: «Rendere omaggio al Re era la mia gioia». Nelle egiziane «satire dei mestieri» egli esprime a fondo questo suo orgoglio. Il citato Insegna­mento di Kethy contiene, accanto all'esaltazione della formazione "scolastica" dello scriba, con tutti i suoi gravi impegni, l'orgogliosa differenziazione da tutti gli altri mestieri: «Non ho visto uno scalpellino inviato come messaggero, non viene mandato un orefice. Ma ho visto il fabbro al suo lavoro, alla bocca della fornace; puzza più che le uova di pesce... Non esiste un mestiere senza qualcuno che dia ordini, eccetto quello di scriba, perché è lui che dà ordini» (Bresciani, 1968, p. 154). In realtà li prendeva e li dava: era un "servo del padrone".

Prima dell'invenzione dell'alfabeto. quando si usavano ancora i numerosi e complessi geroglifici che raffiguravano cose e non suoni, la scrittura, che ovviamente comprendeva oltre al leggere e scrivere anche il "far di conto", era un'arte complessa, il cui apprendimento richiedeva anni ed anni, ed era riservata a pochi. Ma, in una società sviluppata, la scrittura diventa indispensabile. almeno nei suoi elementi fondamentali, non solo per ogni persona del ceto dominante, ma anche per quelli dei ceti produttori: e l'alfabeto è il suo nuovo, rapido strumento. Così lo scriba, da maestro di altri scribi, «istruito da cima a fondo nelle lettere utili» (Brunner, 1957, p. 10), diviene anche maestro di altre persone, non destinate al suo mestiere.

Ci restano esatte descrizioni della vita scolastica. Ecco la Giornata dello scolaro diligente: «Vieni, ti descriverò il comportamento dello scriba quando dice: "Presto! Al tuo posto! I tuoi compagni hanno già il libro davanti a sé. Non essere pigro! Ora dicono Tre più tre! Ora leggi diligentemente dal rotolo di papiro. Ora devi fare i calcoli in silenzio: fa' che non si oda la voce della tua bocca. Scrivi con la mano e leggi con la bocca: prendi consiglio... Segui i metodi del maestro, ascolta i suoi insegnamenti. Sii uno scriba: `Presente!' dirai ogni volta che ti chiamano. Guardati dal dire: "Uffa!"» (Bresciani, 1968, p. 314). Dal che risulta che la scuola non era un luogo di piacere, ma un luogo di noia, dove si era battuti con «cinghie di ippopotamo» e dal quale, potendo, si fuggiva: « E utile per te un giorno di scuola... Chi lascia la scuola con grida di gioia, non durerà il suo nome» (Bresciani, 1968, p. 156). Anche dalla Mesopotamia ci viene un'analoga descrizione di una giornata di scuola: «Ho letto la mia tavoletta, mangiato la mia colazione, preparato una nuova tavoletta, vi ho scritto su e l'ho ripulita. Poi mi hanno assegnato un compito orale, e per il pomeriggio un compito scritto» Sembra una scuola d'oggi. E ci restano molti compiti di allievi scribi, che testimoniano l'esistenza di una preparazione scientifico-tecnica di alto livello.

Eppure, troveremo più tardi, nientemeno che nel grande Platone, ben consapevole di quanto la civiltà greca dovesse a quella egizia, l'elogio di quella scuola, dove «si erano ritrovate per i bambini ancora piccolissimi, per quanto riguarda i calcoli aritmetici, nozioni da apprendere attraverso il gioco e il diletto»; e ne dà esempi (Leggi VII, 819 b-d). Dunque, nonostante la schiena piegata e le cinghie di ippopotamo, che ci fanno parlare di un eterno sadismo pedagogico, un'educazione puerocentrica, ludica, attiva. Sarà stato così?

Quanto all'educazione dei ceti artigianali, troviamo anche questa ben documentata nei suoi momenti dell'assistere, aiutare, imitare, produrre. In questo processo di apprendistato, che si differenzia dalla scuola perché non è un luogo separato ma è il luogo stesso del lavoro, ciascuno passa con l'età e l'educazione dalla condizione di apprendista a quella di esecutore esperto e quindi di maestro, Spesso questa trasmissione di capacità produttive avviene in famiglia di padre in figlio, spesso l'allievo si reca presso un maestro col quale si instaurerà un rapporto, saldamente regolamentato, di padre in figlio. Ma nelle campagne non si assiste ad alcuna sistemazione rigorosa della didattica e del rapporto educativo; la partecipazione e l'imitazione spontanea del lavoro degli adulti rappresentano tutto il processo educativo, nel quale è presente un continuo procedere di ammaestramenti pratici e verbali.

In età più recente, stando alla testimonianza di Diodoro Siculo, a parte l'educazione dei dominanti, «la restante moltitudine impara sin dall'età infantile dai padri e dai parenti i mestieri che eserciterà in vita. Insegnano a leggere e a scrivere un pochino, non a tutti, ma a quelli che si dedicano a un'arte» (Bibliotheca historica, 1, 3,16). Ma i livelli più alti dell'istruzione sono riservati alla casta dei sacerdoti. Come scriverà ancora Diodoro Siculo, «I sacerdoti istruiscono i figli anche nelle lettere sacre e in altre cose che concernono le conoscenze comuni, badando soprattutto allo studio della geometria e dell'astronomia» (ivi, i, 3,1).

Così nell'antico Egitto (e nell'antica Mesopotamia) abbiamo potuto assistere in compendio agli inizi e ai possibili sviluppi dei processi educativi, quali si svolgeranno, con poche varianti, nelle civiltà mediterranee, greca e romana, di cui noi, e in parte l'intero mondo moderno, siamo figli. La separazione di classe, l'educazione dei dominanti alle due arti della politica, l'istituzione del luogo separato scuola per l'arte della scrittura e del calcolo, la nascita di un suo specialista; e poi la pratica dell'apprendistato artigianale del servire, osservare, imitare; il conformismo educativo e anzi il sadismo pedagogico, e insieme il ruolo del gioco, spontaneo o progettato: queste in sintesi le caratteristiche che ritroveremo nei successivi sviluppi.

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