L'educazione a Roma

 

Roma conserva a lungo le sue tradizioni nel costume, ma non nella cultura: per dirla con Cicerone, resteranno romane le virtutes, ma sarà greca la dottrina (De oratore, III, 34, 137). E rivendica a sé i compiti militari e politici, arma e togae, lasciando ai Greci quelli culturali: come ammonirà Virgilio, «Altri plasmino bronzi o scolpiscano marmi, pratichino l'oratoria o indaghino gli astri: tu, romano, ricorda di governare i popoli» (Eneide, vi, 847-853).

Così Roma ci appare più simile a Sparta che ad Atene. La gioventù romana passava il suo tempo non nelle scuole, ma nel Campo Marzio in sport che erano tirocinio e mimesi di guerra: corsa, salto, lotta anche armata, ippica e lancio del disco, delle frecce, del giavellotto e anche dei sassi, che si usavano in guerra dopo rigorosi allenamenti. Le festività religiose vedevano giochi guerreschi, soprattutto equestri, come il Ludus Troiae, i Consualia, gli Equirria, l'Equus October, i Tau­rii, gli Apollinares, i Tarentini e i Saeculares. Ancora in età imperiale, stando alla testimonianza del geografo greco Strabone, il Campo Marzio pullulava di giovani che si esercitavano in questi esercizi di guerra. E anche quando nel circo, negli stadi, negli anfiteatri prevale lo sport-spettacolo, i romani conservano a lungo il disprezzo per le gare puramente sportive, come quelle dei greci, e si appassionano agli scontri dei gladiatori.

Quanto al leggere e scrivere, ne apprendevano quel tanto che serviva agli usi pratici, pubblici o privati. Non erano dei letterati; ma, come dice Cicerone, continuarono a lungo ad apprendere a memoria le loro leggi: «Imparavamo da bambini le Dodici tavole come un carmen necessarium» (De legibus, Ii, 23, 59). Ma non ci è rimasto nulla della loro "musica", quei carmina convivalia che, cantati nei banchetti come nell'isola dei Feaci o nell'Itaca di Ulisse, rievocavano le glorie familiari e patrie: queste si sono travasate più tardi, ma trasfigurate, nella letteratura scritta nelle forme greche. In Grecia si erano trascritti i poemi di Omero, ma i Romani non trascrissero i carmina convivalia dalla viva voce dei loro cantori.

Quando la Grecia conquistata importò la sua "musica", i primi tentativi di ricantare quelle glorie, affidati a schiavi e prigionieri di cultura greca, come Andronico, Nevio e poi Ennio, si conformarono ai modelli greci. Dopo che Andronico aveva tradotto l'Odissea in versi latini, e Nevio cantato le storie romane nell'antico verso saturnio dei carmina convivalia, Ennio le cantò in esametri greci, pensando forse più a Omero che ai carmina. E quando poi Virgilio scriverà la sua Eneide, la poesia epica romana è ormai in forme ellenistiche. A Roma, la letteratura si fa in lingua latina ma nelle forme greche, e gli antichi contenuti vi appaiono trasfigurati.

Ma c'è un altro paradosso nella cultura e nell'educazione romana. Chi non sa o non immagina Roma come il tipico esempio dello statalismo accentratore, di fronte alla variegata molteplicità delle poleis greche? Eppure lo storico greco Polibio che all'inizio del secondo secolo visse nella famiglia degli Scipioni, si stupiva che a Roma mancasse ogni cura pubblica dell'istruzione, come invece avveniva in tutto l'Oriente ellenizzato (Cicerone, Repubblica, IV , 3, 3). In realtà, ciò era dovuto alla diversa fase di sviluppo che Roma allora attraversava. Nella Roma arcaica lo Stato si identifica totalmente con l'insieme delle familiae patriarcali, i cui patres, sedendo nel senato, rappresentavano la patria, e quindi lo Stato. La patria potestas era la potestà del padre, e perciò della patria, e la casa, la domus, era anche tempio e scuola. La famiglia era il primo livello dell'organizzazione statale, in cui si svolgevano le prime forme di culto e di educazione.

Ce lo conferma, dopo Polibio, il paragone che Plutarco fa tra Licurgo e Numa, i due massimi legislatori di Grecia e Roma: Licurgo stabilì un "modo uniforme" di allevare i giovani di una città, Numa «consentì che i figli fossero educati secondo i desideri e i bisogni dei padri» (Paragone, IV, 3). Ecco allora, all'inizio del IV secolo, un padre centurione candidare il figlio a tribuno militare, vantandolo educato sotto la sua guida institutus disciplina mea (Livio, I V, 18). Ecco M. Porcio Catone educare il figlio in casa, magari con l'aiuto di schiavi, «erudirlo personalmente nelle lettere, ammaestrarlo nelle leggi e addestrarlo negli esercizi fisici» (Plutarco, Vitae, Cato, 20, 348 e). Ecco più tardi Varrone intitolare proprio a Catone un libro di suggerimenti per l'educazione dei figli (Catus, in Nonio, li, 1, s.v. Adminiculari). Ecco gli elogi delle madri educatrici: Cornelia, madre dei Gracchi: Aurelia, madre di Cesare, Azia, madre di Augusto; ed ecco più tardi Tacito rievocare l'antica educazione familiare, quando i figli neonati venivano allevati dalle madri, senza ricorso a balie prezzolate, e venivano indirizzati in famiglia alle attività della milizia, del diritto o dell'eloquenza, senza maestri esterni (Dialogus de oratori bus, XXVIII).

Sì, educazione in famiglia. Ma non mancano notizie, pur se difficili da verificare, su un'educazione pubblica di tipo etrusco-greco già nella Roma monarchica. Nel VII secolo Tarquinio Prisco sarebbe stato fatto educare dal padre Demarato di Corinto «in tutte le arti secondo l'educazione greca» (Cicerone, Rep., II , 19,34); agli inizi della repubblica, sarebbero esistite in Roma scuole pubbliche nel foro, come quella in cui, nel 447, si recava Virginia, quando Appio Claudio la fece rapire; e cinquant'anni dopo, Camillo troverà scuole a Faleri e a Tuscolo (Livio, v, 27 e V1, 2). E i romani andavano a studiare nelle città etrusche (ivi, IX, 36) prima di cominciare ad andare ad Atene. Ma questo rientra ormai nel processo di acculturazione di Roma da parte della Grecia conquistata.

Sicuramente abbiamo scuole pubbliche (cioè di maestri privati, aperte a pagamento al pubblico) solo nei In secolo: verso il 230 a .C., ci dice Plutarco, «per primo aprì una scuola in Roma Spurio Carvilio» (Quaestiones Romanae, 59). E negli stessi anni i primi poeti forestieri di Roma, Andronico ed Ennio, insegnavano domi et foris (Svetonio, Grammatici, 1,1). E comincia la serie dei maestri di grammatica, regi­strati da Svetonio, ai quali seguiranno i maestri di retorica. Ma questa scuola incontrò molte difficoltà nel farsi accettare da una società illetterata: « La Grammatica in Roma non era in uso e tanto meno in onore, poiché la gente era ancora rozza e bellicosa, né si dedicava ancora molto alle discipline liberali. Anche i suoi inizi furono modesti...» (ibidem). E lo stesso per il grado superiore: «Anche la retorica in Roma, proprio come la grammatica, fu accolta tardi e con anche maggiore difficoltà, dal momento che risulta che talvolta si proibì perfino di esercitarla» (Rhethores, i). Di queste resistenze abbiamo testimonianze coeve, che vanno correttamente interpretate per sve­larne lo sfondo ideale e politico.

Si tratta di due decreti che si susseguono a settant'anni di distanza, dal 161 al 91 a .C., e che nell'apparente identità rispondono a motivazioni opposte. Il primo è un decreto del Senato che, sollecitato dal questore Marco Pomponio sulla questione dei "filosofi e retori", ovviamente greci, gli risponde di provvedere «per quanto gli sembrasse conveniente alla Repubblica e conforme al suo dovere, che a Roma non ce ne fossero» (ibidem). Il secondo è un editto censorio, nel quale i censori Domizio Enobarbo e Licinio Crasso, appreso che «taluni hanno introdotto un nuovo genere di insegnamento, e che la gioventù va alle loro scuole, e che costoro si sono dato il nome di retori latini, e che lì i giovani oziano intere giornate», sentenziano che «queste novità, che si introducono contro la consuetudine e il costume degli ante­nati, né ci piacciono né ci sembrano rette. Perciò... noi le disapproviamo». Sembra lo stesso principio: niente retorica, nell'un caso e nell'altro. Ma nel primo caso si punta il dito contro i retori greci, nel secondo contro i retori latini, tra i quali quel Plozio Gallo che era un seguace di Mario. Che significa ciò? La risposta ce la dà Cicerone (De oratore, li, 24,94), purché lo si sappia leggere per quel che veramente dice.

Ebbene, egli fa dire allo stesso Licinio Crasso, autore del secondo editto, chela scuola di retorica latina, priva di ogni retroterra culturale, finiva con l'essere nient'altro che un inpudentiae ludus: il che va tradotto: "una scuola di sovversivismo", e non di sfacciataggine, come spesso s'intende. Come il meduti egizio, come il Tersite omerico, così il plebeo romano non doveva dedicarsi a quell'otium culturale in cui si apprendeva "il bel parlare" della politica. Insomma, i populares erano contrari ai retori greci, presso i quali i conservatori raffinavano la loro oratoria politica; i conservatori temevano l'oratoria latina, che avrebbe raffinato l'oratoria dei populares.

Ma i decreti del potere non fermano il corso della storia. La scuola di grammatica diverrà la scuola di tutti, e quella di retorica diverrà la scuola di formazione politica. E sarà sempre più un affare pubblico, degli enti locali, sostenuti magari da benefattori, eredi ideali degli evergeti greci, come Plinio il giovane che dota di fondi la scuola della sua Como (Epistole, V, 13). Ma, finite le libertà repubblicane, quella scuola servirà a formare i burocrati dello Stato imperiale.

Sui contenuti e i metodi dell'insegnamento si resta al modello greco: la cultura romana era ormai bilingue. Seguendo i tre gradi di scuola, si studiava greco e latino: Quintiliano preferirà addirittura che si cominci dal greco. La didattica della lettura era la solita cantilena di formule recitate in coro prima di arrivare a leggere gli autori; e la scrittura un monotono e ripetitivo fare lettere, poi sillabe, poi parole, poi frasi e infine scrivere qualche cosa di personale. Si distingueva la metodica e la historica, che noi diremmo grammatica e letteratura: la prima doveva servire alla seconda. E, senza una particolare divisione in materie come la conosciamo noi oggi, era la lettura dei poeti a fornire le occasioni per gli apprendimenti di ogni genere: mitologia, storia, geografia, astronomia, matematica e scienze. E i livelli superiori non erano migliori: nella retorica ci si esercitava con declamazioni su argomenti fittizi, lontani dalla vita: «Se si provasse a portare nel foro... questi declamatori scolastici, mutato luogo, come corpi abituati al chiuso e all'ombra, non saprebbero stare allo scoperto, alla pioggia, al sole, e non si ritroverebbero», scriveva Seneca il retore (Controver­siae, III, Praefatio, 13). E Petronio incalzava: «Credo che nelle scuole i ragazzi si rincretiniscano del tutto, perché non vedono niente di quanto pratichiamo nella vita» (Satyricon, II).

Quanto al rapporto educativo, come in Egitto e in Grecia, i maestri erano spesso plagosi, abituati a lasciare il segno, cioè piaghe, usando come scettri le fendae tristes, bacchette o fruste, sui fanciulli sollevati nella posizione "a cavallo", come ci testimoniano ripetutamente Orazio, Domizio Afro e Marziale. Ancora nel IV secolo d.C. Ausonio, professore egli stesso, nell'incoraggiare un nipotino ad andare a scuola senza temere il maestro, finirà per darcene un ritratto terrificante: «Impara volentieri a non detestare, nipote mio, il freno di un accigliato maestro. La vista di un maestro non è poi così spaventosa... E non temere: per quanto la scuola risuoni di molte percosse e il vecchio maestro mostri un volto truculento, non ti agiti il timore e il risuonare delle percosse alle prime ore del mattino, o che il manico della frusta vibri, che vi sia molto apparato di verghe, che una pelle ingannevol­mente nasconda lo staffile» (Ad nepotem, vv. 2-31). Be': come incoraggiamento, non c'è male.

A questa scuola vediamo avviarsi i fanciulli, muniti di una capsa con tavolette, abaco e stilo. E alla scuola alternavano i loro giochi: il cavalluccio, la palla, i carrettini, le noci ecc. E anche le donne finirono con usufruire in parte dell'istruzione letteraria, pur restando in generale dedicate alla casa.

Quanto alla condizione degli insegnanti, si riproducono anche qui le situazioni greche. I primi insegnanti sono schiavi greci, poi liberti; indi seguono dei latini, liberi. Si andava dalla condizione subordinata e miserevole del pedagogo domestico e del litterator, a quella mediocre del grammaticus, a quella redditizia e di prestigio di alcuni rhetores. Spesso, come in Grecia, quella del maestro era la professione di quanti cadevano in disgrazia: così avvenne a Floro che, esiliato in Spagna da Domiziano, cominciò a insegnare, cosa che a un amico parve indignissima: era l'opinione diffusa, anche se lui si consolava pensando che fosse invece cosa «da re». Ma più tardi nella corte imperiale la carriera dell'insegnante divenne la via per la carriera politica. E nei loro riguardi si susseguirono provvedimenti di diverso segno. Cesare concesse loro la cittadinanza; Augusto in un periodo di carestia li espulse da Roma tra gli altri artigiani; settant'anni dopo Vespasiano assegnò stipendi statali ai retori; e, nel 301, Diocleziano regolò per legge i loro stipendi insieme a quelli di tutti gli altri artigiani. Non erano un gran che: dai 50 denari al mese a discepolo per pe­dagoghi e letterati (come i massaggiatori) ai 250 per retori e sofisti, di fronte ai 1000 degli avvocati (Edictum de praetiis rerum venalium, VII, 64-73). Poi, nel 333, Costantino li esenterà dai munera sordida, cioè dalle prestazioni dovute alle truppe e da ogni obbligo civile o pubblico; nel 376 Graziano stabilirà che ogni «metropoli» avesse un «nobile professore» e ne fisserà gli onorari (Codex. Theod., XIII, 3-1.1).

Col crescere della frequenza degli studi, si stabiliranno controlli sugli studenti che confluivano nello studio di Roma. Verso il 370, gli imperatori Valentiniano, Valente e Graziano imposero alle autorità cittadine di sorvegliare «che ciascuno di loro si mostri nei luoghi di riunione quale deve essere chiunque ritenga di dover fuggire una nomea vergognosa e disonesta, nonché le associazioni che riteniamo vicine a quelle per delinquere». E prevedono punizioni severe, quali non si sarebbero inflitte prima a un cittadino romano: «Ché anzi diamo facoltà di provvedere che, se qualcuno di loro non sì sia comportato in città come richiede la dignità degli studi liberali, sia fustigato in pubblico e messo subito su una nave che lo allontani dalla città e lo riporti in patria». Ma le minacce di castighi non fermano l'eterna turbolenza degli studenti: pochi anni dopo, Agostino si lamenterà del chiasso degli studenti della sua Ippona e, sperando in meglio, andrà a insegnare a Roma.

Resta da dire sull'altro aspetto dell'educazione, che è l'addestramento al lavoro.

Si erano costituite ab antiquo corporazioni artigianali, collegia artificum, che inizialmente comprendevano flautisti, orefici, falegnami, tintori, calzolai, conciatori, ramai, pentolai, e poi fabbri e tutti gli altri. All'interno di questi collegia o corporazioni si svolgeva un apprendistato di mestiere con le sue regole che, in sintesi, restano come in Egitto e in Grecia, il servire, osservare, imitare, produrre. Ma altro era esercitare un mestiere da artigiano indipendente, altro era esercitarlo da salariato dipendente: una delle cause della ribellione che portò alla caduta della monarchia etrusca fu l'impiego della plebe da parte di Tarquinio il Superbo nei lavori di edilizia urbana, per cui «i romani, vincitori di tutti i popoli vicini, erano fatti, da combattenti, operai e scalpellini», per di più come salariati del potere (Livio 149).

Inoltre, anche a Roma è netta la distinzione sociale tra artes liberales e artes sordidae. Cicerone, ripetendo Platone e Aristotele, spiega che arti liberali sono medicina, architettura e insegnamento, ma precisa che anche queste sono adatte «solo per coloro al cui ceto si addicono»: sono infatti volte al guadagno: il che non si addice ai liberi. Tutte le altre attività artigianali sono sordidae, indegne di un libero, anche se nel tardo impero incontriamo molti artigiani e mercanti che con le ricchezze acquistano prestigio: e magari si fanno tombe sontuose come, a Roma, quella del fornaio Eurisace.

Intanto, mentre la scuola diventa sempre più il luogo del conformismo e la base delle carriere pubbliche di un impero burocratico e autocratico, matura il conflitto ideale tra cultura classica e cultura biblico-cristiana. Al principio del III sec. d.C. il cristiano (ma eretico) Tertulliano si domandava «a proposito dei maestri e degli altri insegnanti di lettere, se non fossero molto vicini all'idolatria, dato che dovevano parlare degli dèi dei vari popoli» (De idololatria, X, 1).

Il dubbio era legittimo: ma grammatici e retori cristiani continuarono a lungo a insegnare le lettere classiche. Dopo mezzo secolo di impero in mano a cristiani, toccò a un imperatore "pagano", Giuliano, detto spregiativamente l'Apostata, riproporre la questione dichiarando che «colui che una cosa pensa e un'altra ne insegna..., si allontana tanto dall'educazione quanto dall'essere un uomo onesto». Richiamava, insomma, i cristiani alla coerenza, e aggiungeva: «Occorre che quanti chiedono di insegnare... abbiano nell'animo convincimenti non contrasti con quelli che professano pubblicamente; e soprattutto, credo, occorre che tali siano coloro che, retori o grammatici, o ancor più sofisti, trattano coi giovani per gli studi di retorica per commentare gli scritti degli antichi... Credo assurdo che coloro che commentano le opere di questi scrittori non onorino gli dèi che quelli onoravano» (Rescritto sugli insegnanti cristiani, 36). Ordinava perciò che non si divenisse insegnante senza un decreto dei curiales, cioè delle autorità cittadine, sancito dall'imperatore (Editto sulle scuole, 17 giugno 362, in Codex Theod. 111, 3).

Così, ineccepibilmente motivato su esigenze morali, cominciava un controllo sulle coscienze che sarà poi tipico del procedere cristiano. Tuttavia, dopo un anno e mezzo, Valentiniano e Valente, successori di Giuliano, cancellarono il suo editto: «Se qualcuno sarà idoneo per la vita nonché per l'eloquenza a istruire i giovani, apra pure una scuola o torni in quella lasciata» (Cod. Theod., XIII , 3). Un atto in apparenza liberale, ma che sarà seguito nel 380 da un editto di Teodosio che, sotto la minaccia delle pene divine e umane, imporrà "alle menti" dei sudditi il culto propagandato dagli apostoli Pietro e Paolo. I cristiani avevano imparato fin troppo bene la lezione di coerenza di Giuliano: presto il Concilio di Cartagine del 400 proibirà ai vescovi la lettura dei testi classici, e comincerà la millenaria imposizione da parte del potere cristiano non solo sui comportamenti ma. anche sulle coscienze.

Una nuova era è cominciata: la cultura romana si è mescolata a quella biblica, e intanto il dominio romano finisce sotto l'urto dei barbari. La popolazione diminuisce, fugge, talvolta lontano dai barbari, talvolta tra loro per sottrarsi all'oppressione imperiale: le scuole classiche si rarefanno e scompaiono. Come già la Grecia conquistata, così ora anche la Giudea conquistata ha a sua volta conquistato culturalmente Roma e, messa da parte la cultura classica, le ha imposto la cultura biblica. Poi Roma si vendicherà, per così dire, sui barbari, da cui sarà conquistata ma che conquisterà con la sua nuova cultura: soltanto, non è più quella classica, ma ormai quella biblica, cioè giudaico-cristiana. Così vanno le cose di questo mondo tra conquistati e conquistatori: così, e anche in altri modi, diversi e talvolta opposti, come ognuno può constatare considerando altre storie dì conquiste e acculturazioni.

La fine posta alle Olimpiadi dall'imperatore Teodosio, nel 393, e la chiusura della scuola di Atene da parte dell'imperatore d'Oriente Giustiniano, nel 529, segnano la fine della tradizionale educazione greca (e ellenistico-romana) sia fisica che intellettuale.

 

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