L'educazione dell'Umanesimo
Con Giannozzo Manetti siamo ormai entrati a parlare di educazione umanistica.
Il suo primo aspetto appare dapprima nello stile. Scriveva Matteo Palmieri: «Le lettere e liberali studi... per più di ottocento anni sono state in modo dimenticate dal mondo..., che tutto quello che si truova in carte o marmi per grammatica scritto fra questo tempo meritatamente si possa chiamare grossaggine rozza» (Vita civile). Ma ciò comporta il riemergere di un nuovo ideale di vita, che si affianca e sostiene quello della nuova borghesia delle arti "maggiori e minori", senza tuttavia coincidere con esso. L'Umanesimo resta cosa delle élites intellettuali, che non tocca le masse popolari: se nel Trecento il Villani aveva trovato a scuola «fanciulli e fanciulle», il censimento di fine Quattrocento non trova più fanciulle (in Verde, 1977). Le donne istruite sono più che mai un'eccezione' nonostante i nomi di Trotula nella Scuola medica salernitana, Novella d'Andrea e Maddalena Bonsignori nell'università di Bologna, e Bianca Borromeo a Padova.
Fioriscono le accademie di studi classici: Platonica, Fiorentina, Pontaniana Napoletana, Romana, Cosentina, dove si tende a conciliare il nuovo e l'antico, la riscoperta e la conservazione, giustapponendo la cultura classica, la fede cristiana, l'ossequio al potere. Ma a una grande epoca di risveglio culturale si associa necessariamente un impegno per la formazione dell'uomo. Si moltiplicano i trattati sull'educazione: il De ingenuis mori bus et liberalibus adolescentiae studiis, del 1402, di Pier Paolo Vergerio; il De studiis et litteris di Leonardo Bruni, del 1422-1429; il De educatione liberorum clarisque eorum moribus, di Maffeo Vegio, del 1450 circa; i due trattati omonimi De liberorum educazione di Francesco Barbaro ed Enea Silvio Piccolomini; il De modo et ordine docendi ac studendi, di Battista Guarino, del 1485, e così via. In tutti questi trattati domina una concezione aristocratica, che riecheggia Aristotele o Cicerone. Maffeo Vegio pensa «all'uomo nato nobile e in una città libera»; e il Vergerio spiega: «Chiamiamo studi liberali quelli che sono degni di un uomo libero...: come agli ingegni illiberali si pone come fine il lucro e il piacere. così agli ingegni liberali la virtù e la gloria»; e ammonisce: «I figli dei nobili debbono essere istruiti nelle arti più eccellenti, per dimostrare che sono degni della fortuna che godono e della condizione in cui nacquero» (De ingenuis mori bus, p. 130).
Ma, come nell'esempio più insigne di Vittorino da Feltre, precettore di nobili alla corte dei Gonzaga di Mantova (ma anche di fanciulli poveri particolarmente dotati), questa pedagogia umanistica innova i contenuti e il rapporto tra maestro e allievo. Non più sadismo pedagogico: le battiture sono bandite, entrano a pieno titolo nel tempo educativo lo svago, il gioco, la vita fisica. E non è poco: qui nasce quella pedagogia moderna che, entrata nelle menti, è ancora rimasta in gran parte fuori della scuola.
Tuttavia, i metodi e i testi scolastici, anche se destinati alla lettura dei testi riscoperti degli antichi, restano quelli di sempre: il Donato, la Janua, il Dottrinale, il Catholicon ecc. E se i nuovi maestri, come il Guarino Veronese, conoscono la Institutio oratoria di Quintiliano, riscoperta allora da Poggio Bracciolini, e scrivono nuove Regulae grammattinale, o, come Niccolò Pernotti, dei Rudimenti grammaticae, tuttavia continuano con la forma catechetica: «Dimmi le lettere -A, b, c..., x, y, z»... «Dimmi l'orazione domenicale - Pater noster... Amen». Il nuovo e il vecchio convivono ancora.
D'altra parte, di fronte a questa cultura letteraria aristocratica e lontana dalla vita del tempo, uomini anch'essi nuovi come Leon Battista Alberti, pur senza trascurare le lettere e i libri, che anche per loro «debbono essere la prima cosa», tuttavia rivendicano un sapere concreto, cioè «le arti, le industrie e le operazioni del corpo». E Leonardo da Vinci si vanta di essere «omo senza lettere», deride «le bugiarde scienze mentali» che, come la teologia, si pascono di grida e non trovano mai l'accordo, rivendica il valore dell'esperienza e delle matematiche dimostrazioni, e dichiara che «la scienza strumentale over machinale è nobilissima e sopra tutte le altri utilissima». Senza far torto all'inestimabile valore laico della riscoperta di tutta la cultura antica, c'è più novità e umanità qui che in tutto l'Umanesimo. Forse bisogna guardare a Machiavelli per sentir mettere insieme «la continova lezione degli antichi e la realtà effettuale».
Ma si era detto dell'educazione dei nobili, e di come essi cominciassero a interessarsi sempre più di cultura oltre che di armi. Anche questo processo non avviene senza contrasti, e ne troviamo echi evidenti sul finire del Quattrocento, anzitutto nella poesia cavalleresca.
Poliziano esalta in esametri latini le virtù guerresche e letterarie di Lorenzo de' Medici, ricordando sia le «grandiose immagini di guerra» di quando «guidava sublime a briglia sciolta il suo cavallo» vincendo le giostre a piazza Santa Croce, sia quando «univa nella lira canora i ritmi d'Apollo e i canti modulati». E nelle Stanze per la giostra, celebrerà il fratello di lui, Giuliano, che, trascurando le passioni amorose, praticava la caccia gareggiando coi venti su un gentil corridore, e la poesia cantando celesti versi e alti carmi; e concluderà che così «si godea con le Muse e con Diana» (Stanze, i, 8 e 11). Diana e le Muse, dunque, arma e togae, come dicevano i romani, o armi e lettere, come si dirà ora: questo è il nuovo ideale rinascimentale, già da tempo nell'aria, ma ora pienamente cosciente, e che da Firenze ridonda presto in tutta Italia.
Nell'Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo la nuova quérelle tra armi e lettere diviene esplicita nell'episodio del mortale duello tra Agricane e Orlando. A Orlando che tenta di convertirlo, Agricane dichiara:
Io comprendo per certo
che tu vuoi della fede ragionare:
Io de nulla scienza sono esperto;
Né mai, sendo fanciul, volsi imparare,
E roppi il capo al mastro mio per merto;
Poi non si poté un altro ritrovare
Che mi mostrasse libro né scrittura,
tanto ciascun avea di me paura.
E così spesi la mia giovinezza
In caccie, in giochi de arme e in cavalcare;
Né mi par che convenga a gentilezza
Star tutto il giorno ne' libri a pensare:
ma la forza del corpo e la destrezza
Conviense al cavalliero esercitare.
Dottrina al prete et al dottor sta bene:
Io tanto saccio quanto mi conviene.
È la perfetta figura del miles d'una volta, che pensa solo alla guerra e non vuol saper nulla di cultura. Ma a lui
Rispose Orlando: «Io tiro teco a un segno,
Che l'arme son de l'orno il primo onore;
Ma non già che 'il saper faccia men degno,
Anci lo adorna come un prato il fiore:
Et è simile a un bove, a un sasso, a un legno,
Chi non pensa allo eterno Creatore;
Né ber , se può pensar senza dottrina
La summa maiestate alta e divina.
(XVIII, 42-44)
Forse in nessun altro testo è espressa così nettamente, e dagli stessi protagonisti, l'alternativa che poi sarà a lungo discussa: armi soltanto, o armi e lettere insieme per il cavaliere? Ed è ovvio che ciò comporta profondi mutamenti nel processo di educazione del nobile. Per secoli
non ci sarà trattato di "cortesia" che non affronti la questione: e non è detto che fossero tutti e presto d'accordo.