IL TEMPO SCUOLA COME VARIABILE PEDAGOGICA
di Giancarlo Cerini
Il tempo come “orizzonte” di significati
La questione del “tempo della scuola” ha sempre rappresentato un preciso indicatore del progetto che una istituzione educativa intende perseguire. Si può dire che questo sia avvenuto fin dalla nascita stessa della scuola, a maggior ragione nelle istituzioni “totali” (come i collegi), ma anche nei proclami alternativi (per un tempo “liberato”) della descolarizzazione della società (Illich). Il tempo, dunque, assume una pervasiva funzione simbolica.
Il nostro rapporto con il tempo è un invito a ripensare al rapporto con la nostra vita. L'uso discreto del tempo, l'elogio della lentezza sono quasi diventati uno stile di vita; slow contrapposto a fast rappresenta quasi una scelta ideologica; una corrente filosofica teorizza perfino il pensiero “meridiano” (solare, disinteressato, speculativo) come indispensabile viatico ad una qualità della vita vissuta da bene-stanti …
Filosofi, scienziati, musicisti, biologici, letterati: molti hanno provato a “esplorare” la categoria del tempo, per comprendere l'esperienza, per affinare la conoscenza, per scandagliare la realtà. Nella fisica contemporanea, il tempo tende addirittura a prevalere sullo spazio: la velocità della luce diventa unità di misura fondamentale e criterio “ordinatore” della materia.
La categoria “tempo” si intreccia con la riflessione filosofica e simbolica (cos'è il tempo, come lo si rappresenta, come lo si organizza), alla ricerca di un significato esistenziale (cosa c'è di più soggettivo della percezione del tempo?), prima ancora che psicologico (come influisce la dimensione del tempo nella crescita?). Il concetto di tempo è diventato un classico terreno di ricerca per tutti gli psicologi dell'età evolutiva e rappresenta una struttura essenziale attorno a cui si organizza lo sviluppo cognitivo personale. Nei diversi modelli interpretativi, il tempo costituisce l'asse diacronico (i ritmi, i periodi dinamici, gli stadi evolutivi, ecc.) su cui collocare una corretta idea di crescita dei bambini.
Nella scuola il tempo è diventato spesso una bandiera o un “manifesto pedagogico” (pensiamo all'invettiva dei ragazzi di Barbiana: “ …vi proponiamo tre riforme: I. Non bocciare. II. A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a pieno tempo. III. Agli svogliati basta dargli uno scopo… ”). In molte vicende scolastiche italiane, dal tempo pieno nella scuola elementare (1971) al tempo prolungato nella scuola media (1983), la variabile “tempo” assumeva la funzione di catalizzatore dell'innovazione didattica e metodologica, ma diventava anche il simbolo del riscatto sociale e della democratizzazione dell'istruzione.
L'impegno per l'uguaglianza delle opportunità e degli esiti si concretizzava in modelli scolastici più ricchi e articolati, anche sotto il profilo del tempo scuola. Con “più tempo” si sarebbero potute qualificare le esperienze di insegnamento, valorizzando le dimensioni operative, sociali, costruttive dell'apprendimento degli allievi. Questo è stato senza dubbio il “motore” del tempo pieno, ma anche la cifra interpretativa della riforma della scuole elementare del 1990 (Legge n. 148 del 5 giugno 1990), con l'insistenza sui “tempi distesi” dell'apprendimento quale criterio regolativo di una efficace organizzazione didattica. L'adozione di un orario modulare flessibile sembrò una soluzione capace di favorire la “qualità dell'insegnamento e dell'apprendimento”.
Il tempo necessario per il “buon” apprendimento
Gli studi di psicologia cognitiva mettono in stretta correlazione il grado di apprendimento di una certa competenza con il tempo necessario all'allievo per raggiungerla (e con il tempo effettivamente impiegato). Il tempo, dunque, diventa una variabile decisiva della qualità dell'istruzione e su di esso si può costruire un efficace progetto di individualizzazione dell'insegnamento [1] . Anzi, c'è chi si spinge oltre (come lo psicologo J.B. Carroll) e interpreta lo stesso concetto di attitudine (oggi sempre più spesso associato all'idea di vocazione o “talento” innato, anche nei documenti ufficiali), con la quantità di tempo necessario per raggiungere un dato grado di padronanza. I modelli interpretativi si sono poi via via evoluti e oggi si tende a privilegiare una dimensione qualitativa dei processi di apprendimento (la parteci- pazione “costruttiva”, l'autocontrollo “strategico”, i fattori emotivi, le dinamiche sociali). Ma è sull'insieme di questi presupposti che si è basata la scelta di una progressiva estensione del tempo-scuola per contrastare l'insuccesso scolastico.
Avere maggior tempo a disposizione consente di andare oltre l'insegnamento e le metodologie tradizionali. Un tempo più “disteso” può alimentare un diverso concetto di alfabetizzazione (con la riscoperta di nuovi linguaggi), promuovere un diverso metodo di studio, lasciare spazio alle identità e alle culture di provenienza, collegare la scuola alla vita, valorizzare anche gli aspetti non intellettuali dell'esperienza scolastica.
Questi principi stanno anche alla base della citatissima Legge n. 517 del 5 agosto 1977 che, tra le numerose innovazioni (programmazione, collegialità, integra- zione scolastica, valutazione formativa, ecc.), propose anche quella di un'espansione del tempo scuola, nella sua estensione “annuale”, portando l'anno scolastico, allora, a 215 giornate di durata effettiva.
Il tempo scuola come risposta a una domanda sociale
arebbe riduttivo non considerare in questo quadro iniziale anche la variabile “sociale” del tempo offerto dall'istituzione scolastica ai suoi utenti: gli allievi in primo luogo, ma anche i genitori.
È evidente che una diversa organizzazione familiare, con una crescente incidenza del lavoro femminile extradomestico, la presenza di famiglie “nucleari”, le esigenze del mondo del lavoro, anche se con una pluralità di situazioni più articolate dei canonici tempi della fabbrica (40 ore) o degli uffici (36 ore), hanno avuto un'influenza determinante nella domanda sociale di tempi scuola più lunghi. Ancora oggi le statistiche sulla presenza del tempo pieno nelle diverse province italiane sono direttamente correlate ai livelli di occupazione femminile. Non è casuale l'incidenza dei fattori sociali ed economici nella “forte presenza” di classi a tempo pieno (40,0%) e prolungato (25,8%) in Emilia-Romagna.
La distribuzione degli insediamenti di classi a tempo pieno/prolungato nelle diverse province della nostra regione si legge anche considerando il peso dei fattori sociali.
Un dato in Emilia-Romagna
Tab. 1 – Il tempo pieno nella scuola elementare in Emilia-Romagna (a.s. 2002/2003)
Provincia |
Classi
in totale |
Tempo
pieno |
Tempo normale |
% tempo pieno |
% tempo normale |
Bologna |
1.661 |
897 |
764 |
54,0 |
46,0 |
Ferrara |
627 |
172 |
455 |
27,4 |
62,6 |
Forlì - Cesena |
755 |
156 |
599 |
20,7 |
79,3 |
Modena |
1.297 |
819 |
478 |
63,1 |
36,9 |
Parma |
763 |
278 |
485 |
36,4 |
63,6 |
Piacenza |
556 |
225 |
331 |
40,5 |
59,5 |
Ravenna |
648 |
303 |
345 |
46,8 |
53,2 |
Reggio Emilia |
1.017 |
208 |
809 |
20,5 |
79,5 |
Rimini |
577 |
102 |
475 |
17,7 |
82,3 |
Totale |
7.901 |
3.160 |
4.741 |
40,0 |
60,0 |
Fonte: Elaborazione dati USR, 2003
Tab. 2 – Il tempo prolungato nella scuola media in Emilia-Romagna (a.s. 2002/2003)
Provincia |
Classi in totale |
Tempo
pieno |
Tempo normale |
% tempo pieno |
% tempo normale |
Bologna |
924 |
177 |
747 |
19,2 |
80,8 |
Ferrara |
333 |
71 |
262 |
21,3 |
78,7 |
Forlì - Cesena |
409 |
104 |
305 |
25,4 |
74,6 |
Modena |
724 |
308 |
416 |
42,5 |
57,5 |
Parma |
435 |
72 |
363 |
16,6 |
83,4 |
Piacenza |
304 |
106 |
198 |
34,9 |
65,1 |
Ravenna |
353 |
110 |
243 |
32,1 |
68,8 |
Reggio Emilia |
559 |
130 |
429 |
23,3 |
66,7 |
Rimini |
321 |
46 |
275 |
14,3 |
85,7 |
Totale |
4.362 |
1.124 |
3.238 |
25,8 |
74,2 |
Fonte: Elaborazione dati USR, 2003
Il tempo, quindi, diventa l'interfaccia in cui si incontra la domanda sociale dei genitori (pensiamo ai tempi della scuola dell'infanzia) ed una possibile risposta dell'istituzione educativa in termini di qualità (il tempo come variabile dell'apprendimento). Ma non sempre queste due esigenze si tengono in equilibrio: spesso ne derivano incomprensioni (“ vorremmo più tempo, ma non ci viene concesso …”), possibili conflitti (“ vorremmo meno tempo, ma siamo obbligati ai rientri pomeridiani… ”), istanze alternative (“ ai pomeriggi dei nostri figli ci pensiamo noi …”), aspettative particolari (“ ma non si potrebbero organizzare dei laboratori di creatività? …”). Sono le domande di questi anni che hanno sollecitato la scuola a rispondere senza perdere la propria specifica funzione cognitiva e sociale.
Un po' di storia
Dall'emergenza (gli anni cinquanta) alle riforme (gli anni settanta)
Gli anni '50 sono gli anni dell'emergenza assistenziale, del pasto caldo assicurato dalla refezione scolastica, delle gallette “biscottate” inviate dagli aiuti internazionali, del soccorso invernale assicurato dal “patronato scolastico”, con il suo corredo di scarpe grosse e di mantelline plastificate, di quaderni e matite (…e, d'estate, tanta “colonia”). Era questo il diritto allo studio degli anni '50 (l'assistenza scolastica per i capaci e meritevoli di cui parla anche la Costituzione del 1948), con il sapore delle cose semplici e antiche, con un buonismo ante-litteram , ma anche con tanto paternalismo.
Poi arrivarono i favolosi anni '60, annunciati da squilli di trombe e sventolii di bandiere, con tante idee pedagogiche in movimento provenienti anche da altri paesi (sono gli anni di Dewey, Freinet, Piaget, Bruner). Fioriscono le scuole alternative (un nome su tutti, Barbiana), i tanti doposcuola con la voglia di rovesciare il quieto vivere “antimeridiano” dei programmi Ermini. E' l'idea del riscatto degli umili attraverso la scuola, con approcci e itinerari assai diversi, ora più rigorosi, ora più giocati sul versante dell'animazione, dei linguaggi alternativi, degli stili di conduzione molto libertari: anni forse un po' disordinati, ma ricchi di fermenti per il futuro. La scuola sembra in grado di intercettare i grandi cambiamenti sociali e culturali di un'Italia che si affaccia sulle soglie del benessere, anche grazie all'istruzione di massa (cfr. istituzione della scuola media unica nel 1962).
Negli anni '70 questo movimento pedagogico trova uno sbocco istituzionale, attraverso l'approvazione parlamentare di leggi importanti come la Legge 18 marzo 1968, n. 444 (che istituiva la scuola materna statale), la Legge 24 settembre 1971, n. 820 (che avviava il tempo pieno “statale”), la Legge 6 dicembre 1971, n. 1044 (che istituiva gli asili nido “comunali”).
La Legge n. 820/1971 rappresenta senza dubbio il frutto di molte mediazioni (come tante leggi della prima Repubblica). Nella strutturazione degli articoli si coglie un equilibrato dosaggio di soluzioni pedagogiche ed organizzative: dal tempo pieno alle attività integrative, fino agli insegnamenti speciali. Infatti, nella legge, il tempo pieno “classico”, come settimana scolastica unitaria gestita da due docenti contitolari per ogni classe (secondo un progetto ben illustrato nelle Direttive ministeriali di orientamento del 1972, che suggerisce l'adozione di un “orario atto a garantire la fluida articolazione di tutti i momenti educativi (compreso quello della mensa scolastica )” è solo uno dei modelli proposti. Tra l'altro, in molte realtà il doppio organico è fittizio, con una netta demarcazione tra curricolo (e insegnante “forte”) del mattino e curricolo (e insegnante “debole”) del pomeriggio.
Molto diffusa appare la formula delle attività integrative , attraverso soluzioni di estrema (e non sempre qualificata) flessibilità, con arricchimenti pomeridiani dell'offerta formativa, messa un po' a norma dalla successiva Legge n. 517/1977 (che auspicava una ricaduta della flessibilità anche nelle attività curricolari del mattino). Più limitata resta l'esperienza dei cosiddetti insegnamenti speciali, che configurano un avvio sperimentale di insegnamenti specialistici, come quelli relativi alla musica, alla lingua straniera, alle arti, ecc.
Sono soluzioni pedagogiche ed organizzative di cui si discute anche oggi, a seguito delle ipotesi contenute nelle bozze di Indicazioni Nazionali proposte dalla Commissione Bertagna [2] .
Dal consolidamento (gli anni ottanta) alle nuove prospettive (gli anni novanta e oltre)
L'esperienza complessiva della Legge 820/71 (di cui non è facile trovare riscontri probanti) [3] si presenta con esiti differenziati. Accanto alle “scuole di eccellenza”, in cui si viene delineando un vero e proprio modello di comunità scolastica , con una successione organica e unitaria di momenti educativi, ci sono anche situazioni fragili, con una persistente separatezza tra insegnanti curricolari ed extra- curricolari, tra attività del mattino obbligatorie ed attività del pomeriggio facoltative, tra discipline fondamentali e “nicchie” di specialismo disciplinare.
Con il consolidamento degli anni '80 l'esperienza del tempo pieno raggiunge una sua stabilità; anzi, i grandi numeri portano quasi ad un effetto di burocratizzazione dell'esperienza. Sono gli anni della maturità, del guardarsi indietro con aria soddisfatta per quanto si è realizzato, ma forse con un pizzico di nostalgia per il recente passato considerato più fascinoso. C'è nell'aria un timore diffuso per il nuovo, rappresentato dai programmi del 1985, come se ci fosse dall'alto il tentativo di normalizzare un'esperienza che mal sopporta di essere istituzionalizzata, ricondotta ad un modo ordinario di funzionare della scuola elementare.
Ci si confronta con una amara verità. Nei suoi primi vent'anni di vita, il tempo pieno non è riuscito a diventare un modello “nazionale” di scuola: le percentuali oscillano dal 50 % ed oltre di province come Bologna, Modena, Milano al poco più che 3 o 4% di grandi città come Palermo, Napoli, Bari (là ove magari la scuola dovrebbe offrire molto di più ai ragazzi).
Ma la “situazione di stallo” è piuttosto legata alla difficoltà del tempo pieno a ricollocare le proprie idealità in uno scenario sociale profondamente mutato: a capire i nuovi bisogni e le nuove esigenze delle famiglie (prima ancora che dei bambini), ad interpretare le propensioni dell'utenza verso l'uno o l'altro modello (la realtà, anche nel dopo riforma, è la persistenza di due modelli alternativi di tempo scuola, con il rischio di veicolare una stratificazione sociale degli utenti), a “leggere” le nuove condizioni esistenziali dei bambini (più iperstimolati, ma anche più “soli” nelle dinamiche domestiche).
Negli anni '90 si assiste ad una reazione del tempo pieno: viene presentato come un ambiente più accogliente, più compatto e disteso; gli stessi insegnanti lo percepiscono come luogo professionale più semplice e sereno, al riparo dai ritmi frenetici che può assumere una mal interpretata organizzazione modulare.
La scuola a tempo pieno, appena superata la boa di una verifica parlamentare positiva della Legge 148/90 (1995), si è poi misurata con la questione del riordino dei cicli proposto dall'Ulivo (1996) e con la successiva Legge n. 30/2000.
Difficile da decifrare rimaneva la collocazione della scuola elementare a tempo pieno nell'ambito della scuola di base settennale prevista dalla “riforma Berlinguer” (2000), con un rapporto tutto da costruire con la scuola media (in particolare, con la scuola media a tempo prolungato). Questa riflessione, appena avviata, è stata poi interrotta dalla sospensione dell'attuazione della Legge n. 30/2000 e dall'avvio di un diverso profilo di riforma (estate 2001).
Siamo così giunti ai giorni nostri con i nuovi interrogativi sul significato del tempo scuola, con le diverse prospettive elaborate dalla Commissione Bertagna (dicembre 2001), con le scelte ed i silenzi della Legge n. 53/2003 in merito ai modelli organizzativi di tempo (obbligatorio, opzionale, facoltativo).
Le variabili “istituzionali” del tempo scuola
Sul piano delle politiche scolastiche , la questione “tempo scuola” ha contribuito allo spostamento di prospettiva dall'assistenza scolastica al diritto allo studio e quindi a far vivere il diritto all'istruzione come uno dei diritti fondamentali di cittadinanza; oggi diremmo: dall'enunciazione del principio dell'obbligo scolastico all'impegno per il successo formativo. La scuole a tempo “lungo” si sono qualificate come scuola della comunità, come un ambiente pedagogico “totale” ad alta visibilità pubblica. Ad esempio, il tempo pieno si è presentato non solo come modello organizzativo più compatto e integrato (ricco di servizi accessori), ma anche come una istituzione educativa “aperta” verso la città, come centro di educazione permanente della comunità, con una necessaria attenzione alla qualità delle strutture, dei servizi, dei laboratori, delle biblioteche.
Il messaggio pedagogico è stato altrettanto chiaro: un rapporto più coraggioso con la comunità, con la cultura del territorio, con una grande capacità di accoglienza e accettazione delle diversità, di rispetto e valorizzazione delle identità e delle radici, ma da proiettare in un orizzonte più vasto con la forza della conoscenza, dell'istruzione che emancipa e libera.
Sul piano della cultura organizzativa la gestione di tempi scuola differenziati ha aperto le porte dell'autonomia, intesa come capacità di autogoverno, come iniziativa progettuale, come assunzione di responsabilità. Questo processo è avvenuto innanzi tutto all'interno dei gruppi degli insegnanti operanti nelle realtà di tempo pieno, di tempo modulare, di tempo prolungato della scuola media..
La condivisione delle responsabilità ( team teaching) è stata la cifra interpretativa dell'integrazione del tempo scolastico: un senso di partecipazione a strutture e modelli innovativi di scuola, che si è inverato attraverso una organizzazione leggera, basata sulle persone e sulle loro motivazioni, piuttosto che sugli incastri perfetti degli orari e delle presenze (come è apparso poi nel “modulo”). La stessa valutazione è stata vissuta in termini di rendicontazione “sociale” partecipata, piuttosto che come tecnica docimologia.
Sul piano pedagogico i tempi “distesi” hanno veicolato – non sempre - una didattica “narrativa” ove il progetto di un anno (o di un plesso, o di una classe) è imperniato su una storia o un'idea forte, piuttosto che su una miriade di microprogetti. Insomma: una didattica del canovaccio, una programmazione come “ballata popolare” che si arricchisce con la partecipazione dei diversi attori, anche perché ha un tempo lungo a disposizione.
Queste variabili sono venute in risalto soprattutto nella scuola a tempo pieno, più ancora che nell'organizzazione “a modulo”. Le indagini sulla scuola elementare post-riforma [4] , in effetti, premiano le classi a tempo pieno (almeno quelle iniziali) perché si presentano come un ambiente didattico ricco di sollecitazioni operative (la scuola del fare e non solo del dire), di situazioni sociali (con relazioni più distese ed un uso cognitivo dell'interazione sociale), di incontro variegato con linguaggi e saperi, di graduale iniziazione all'organizzazione disciplinare della conoscenza. Tutte qualità più difficili da accertare all'interno delle classi a modulo, più protese a “intensificare” i tempi della didattica, sotto la spinta dei diversi insegnanti responsabili delle varie aree disciplinari (a volte precocemente frammentate).
Questi temi sono oggi di estrema attualità, perché si torna ad apprezzare la qualità di ciò che succede in classe, ad esigere non tanto “più” tempo, ma un tempo “meglio” organizzato e comunque non in affanno. In una delle più accreditate ricerche “indipendenti” svolte sul “tempo pieno” italiano (Censis, 1984) si conclude che “la peculiarità nel tempo pieno non è che gli allievi imparino di più, ma che imparino di più a imparare” anche grazie al modello di team teaching , cioè di “pari dignità degli insegnanti sul piano delle competenze disciplinari”.
Tempo… di autonomia
Il monitoraggio dei POF: integrazione, flessibilità, responsabilità
L'autonomia scolastica invita le scuole ad assumersi responsabilità dirette nel campo della progettazione dell'azione formativa, nella gestione degli elementi di flessibilità, nelle operazioni di rendicontazione, valutazione e sviluppo. Il processo di consolidamento dell'autonomia (avviata “ufficialmente” il 1° settembre 2000, con l'entrata in vigore del Regolamento riportato nel D.P.R. n. 275 dell'8 marzo 1999) è stato contrassegnato da un periodo di gestazione “sperimentale” promosso dall'amministrazione scolastica, con alcune norme di carattere transitorio e con il sostegno dei finanziamenti messi a disposizione dalla Legge n. 440/1997 (Arricchimento dell'offerta formativa). La fase sperimentale è stata accompagnata da azioni di monitoraggio promosse dal Ministero, d'intesa con il sistema degli IRRSAE, coinvolgendo gruppi di ricercatori espressione dei Nuclei provinciali per l'autonomia.
Le norme transitorie del Regolamento dell'autonomia, in attesa della piena attuazione dell'art. 8 (individuazione degli indirizzi curricolari nazionali), invitavano le scuole a riorganizzare “i propri percorsi didattici secondo modalità fondate su obiettivi formativi e competenze ” (art. 13), un'indicazione che intendeva sottolineare lo stretto legame tra autonomia e miglioramento dei processi di insegnamento e apprendimento .
Le informazioni che possiamo desumere dal monitoraggio organizzato dalla rete BDP-IRRE-Ministero segnalano una progressiva convergenza dell'iniziativa delle scuole verso i temi curricolari. In alcuni casi le scuole hanno già elaborato un unico “ disegno progettuale ” in cui dar conto delle iniziative innovative avviate, in altri sono stati semplicemente raccolti i diversi micro-progetti presentati da gruppi di docenti o, addirittura, da singoli docenti. La situazione appare, comunque, in evoluzione.
Nella fase di avvio sperimentale l'autonomia ha inciso soprattutto sulle aree collaterali e integrative (di ampliamento dell'offerta formativa), piuttosto che implicare una complessiva riorganizzazione del curricolo nei suoi aspetti essenziali (saperi disciplinari, obiettivi formativi, competenze degli allievi). E' emersa una grande diffusione della didattica per laboratori: “va tuttavia precisato che con il termine laboratorio sono state indicate situazioni diversificate, difficilmente riducibili ad uno stesso modello didattico: momenti di didattica non frontale, attività a carattere prevalentemente manipolativo, attività svolte in laboratorio, esperienze didattiche fondate su una costruzione attiva delle conoscenze” (MPI, Monitoraggio di 1000 scuole italiane con progetti complessi di sperimentazione dell'autonomia , 1999).
Il recupero rappresenta una delle motivazioni di fondo della flessibilità oraria: la maggioranza delle scuole ridistribuisce la quota oraria su questa forma di attività, che assume però connotati diversi; dai “corsi di recupero” alle strategie individualizzate, fino alla formula del tutoring (cioè dell'assistenza personalizzata agli allievi in difficoltà). Dati positivi, nelle rilevazioni più recenti, sembrano riguardare la connessione tra possibilità offerte dall'autonomia ed integrazione degli alunni con handicap.
Il core curriculum
L'intervento innovativo sul curricolo ha riguardato nei primi anni, una percentuale ridotta di scuole, anche se tale quota sembra in rapido aumento. La riorganizzazione praticata consiste soprattutto in innovazioni di carattere metodologico , nell'orientamento verso temi più vicini all 'esperienza degli allievi e – in misura meno significativa – nello snellimento dei contenuti in funzione di un approfondimento qualitativo o per una più precisa individuazione di obiettivi di competenza . La strada da percorrere è però in salita. “Il curricolo, in linea di massima, resta ancorato a modelli lineari, improntati ad una rigida sequenzialità dei contenuti disciplinari da trasmettere, declinato sul programma ministeriale, e scandito da lezioni frontali, interrogazioni e compiti in classe”. Questo severo giudizio, appena attutito dal riconoscimento di una migliore qualità della progettazione didattica (spesso però in termini impliciti) nella scuola elementare e negli istituti comprensivi di più lunga esperienza, emerge dal “monitoraggio delle 1000 scuole” condotto annualmente dagli IRRE (cfr. MPI-INDIRE-IRRE, Una finestra sulla scuola che cambia , Roma, 2001).
Per superare questi limiti, è possibile per le scuole, in sintonia con il Regola- mento dell'autonomia (artt. 12 e 13), sperimentare forme più incisive di organizzazione dell'orario curricolare, con una ampia libertà di manovra sul 15% del curricolo orario annuale obbligatorio . Infatti, con il meccanismo introdotto dal D.M. n. 234/2000 si vorrebbe accentuare ulteriormente questo interesse per il core curriculum e quindi per gli insegnamenti fondamentali.
Tab. 3 - Le opportunità dell'autonomia: il D.M. n. 234/2000
Art. 3
(Quota nazionale e quota riservata alle istituzioni scolastiche)
1. La quota oraria nazionale obbligatoria dei curricoli di cui all'articolo 1 è pari all'85% del monte ore annuale delle singole discipline di insegnamento comprese negli attuali ordinamenti e nelle relative sperimentazioni.
2. La quota oraria obbligatoria dei predetti curricoli riservata alle singole istituzioni scolastiche è costituita dal restante 15% del monte ore annuale; tale quota potrà essere utilizzata o per confermare l'attuale assetto ordinamentale o per realizzare compensazioni tra le discipline e attività di insegnamento previste dagli attuali programmi o per introdurre nuove discipline, utilizzando i docenti in servizio nell'istituto, anche in attuazione dell'organico funzionale di cui alla normativa citata in premessa, ove esistente in forma strutturale o sperimentale.
3. Il curricolo obbligatorio è realizzato utilizzando tutti gli strumenti di flessibilità organizzativa e didattica previsti dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999.
4. In particolare le istituzioni scolastiche, nell'ambito degli strumenti di flessibilità di cui al comma 3, rilevate le esigenze formative degli alunni, promuovono, anche con percorsi individuali, la valorizzazione degli alunni più capaci e meritevoli ed il recupero di quelli che presentano carenze di preparazione, e garantiscono efficaci azioni di continuità e di orien- tamento didattici.
5. L'adozione, nell'ambito del piano dell'offerta formativa, di unità di insegnamento non coincidenti con l'unità oraria non può comportare la riduzione dell'orario obbligatorio annuale, costituito dalle quote di cui ai commi 1 e 2, nell'ambito del quale debbono essere recuperate le residue frazioni di tempo.
Fonte: D.M. n. 234 del 26 giugno 2000.
Al di là delle nuove terminologie (come quella di POF: Piano dell'Offerta Formativa), ciò che conta è la capacità di ogni istituzione scolastica di consolidare e rafforzare la propria identità progettuale e culturale, come recita il Regolamento sull'autonomia, che insiste giustamente sulla “intenzionalità” della proposta formativa, prima ancora che sul concetto dell' offerta (che si presta a qualche equivoco).
In materia di curricolo la cautela è però d'obbligo, considerando l'evoluzione dei riferimenti culturali che sono rimessi in gioco dalle diverse prospettive che si aprono in merito ai cicli scolastici (con la “sospensione” della Legge n. 30/2000 e l'approvazione della Legge n. 53/2003) e all'autonomia (con la necessità di dare attuazione all'art. 8 del D.P.R. n. 275/1999 e comunque di definire i nuovi Indirizzi/Indicazioni nazionali dei piani di studio).
La strategia suggerita alle scuole è quella di avviare una fase più impegnativa di ricerca e analisi delle discipline di studio, anche per irrobustire ulteriormente quella capacità di costruzione del “ curricolo di scuola ” che costituisce il traguardo auspicabile dell'autonomia. Lo strumento giuridico disponibile per questa operazione è rappresentato dal citato D.M. n. 234/2000, il contesto normativo che - allo stato attuale- consente di “corrispondere alle richieste specifiche degli studenti, alle articolate domande delle famiglie, alle pluralistiche esigenze emergenti a livello territoriale”. Più recentemente le scuole primarie hanno potuto usufruire di strumenti specifici per la sperimentazione di nuovi modelli organizzativi (D.M. n. 100 del 18-9-2002 e D.M. n. 61 del 22-7-2003), in sintonia con le prime indicazioni attuative della legge di riforma 28-3-2003, n. 53.
Anche per le scuole secondarie di secondo grado si è avviata una fase di sperimentazione, attraverso la sottoscrizione di protocolli di intesa in quasi tutte le regioni italiane (estate 2003) ai fini di una maggiore integrazione tra scuola secondaria e filiera della formazione professionale, anche per far fronte alla emergenza dovuta all'abrogazione della Legge n. 9/1999 (che aveva esteso l'obbligo scolastico al 15° anno di età).
L'autonomia (in)attesa
L'utilizzo della quota del 15% dell'orario obbligatorio per costruire un'area opzionale ed elettiva (una misura che -aspettando gli effetti della “ devolution ” in campo scolastico- sembra più che ragionevole) rappresenta un terreno assai impegnativo per le scuole. Il fatto è che il pieno utilizzo del decreto consentirebbe alle scuole di individuare, sempre entro il 15% del tempo curricolare, nuove discipline e attività non previste dal curricolo ordinario (o sperimentale) in ordinamento, per caratterizzare ancora maggiormente le proprie scelte, pur con molti dubbi sulle risorse realmente disponibili.
Le fonti culturali per questo lavoro di approfondimento non mancano e vanno dai documenti via via elaborati dalle Commissioni dei Saggi nel 1997 e 1998 alla produzione della Commissione De Mauro incaricata di predisporre i curricoli per l'attuazione della riforma dei cicli (primavera 2001), alle più recenti elaborazione del Gruppo ristretto di Lavoro coordinato dal prof. G. Bertagna (inverno 2001), da cui sono scaturite nuove proposte di Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio (2002). Molti di questi materiali, unitamente alle elaborazioni delle associazioni “disciplinari” degli insegnanti, sono raccolti e disponibili in Dossier monografici degli “Annali dell'Istruzione”.
Siamo, dunque, in una delicata fase di transizione dalla “scuola del programma” alla “scuola del curricolo”, alla scuola dei “piani di studio personalizzati”, con qualche incertezza del quadro normativo di riferimento nazionale. Non mancano i materiali ed i documenti. Gli insegnanti e le scuole dovranno diventare ancora di più attori e protagonisti della riforma dei curricoli. La progettazione dell'offerta formativa rappresenta oggi la sede in cui mettere alla prova questa capacità di iniziativa.
L'eventuale riorganizzazione del curricolo della propria scuola richiede agli operatori scolastici raffinate capacità di studio, di confronto, di progettazione. E' dunque questo il guadagno maggiore che il processo di consolidamento e sviluppo dell'autonomia, destinato a durare più a lungo del previsto, può portare agli operatori scolastici.
Oggi, ad autonomia avviata, ma non ancora completamente realizzata, alcune azioni di monitoraggio (cfr. i rapporti annuali della LUISS [7] ) ci indicano “spinte all'innovazione”, ma anche “rischi di involuzione”. Secondo gli estensori dell'ultimo Rapporto [8] , un pieno decollo dell'autonomia richiede alcune condizioni di quadro che ancora stentano a delinearsi: la definizione condivisa dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione, la riforma degli organi di partecipazione, il sostegno alla ricerca e alla formazione, la realizzazione di un efficace sistema di valutazione, modalità più incisive di valorizzazione della professionalità docente. L'assenza di questi elementi accentua il peso dei fattori “locali”: esistono buone esperienze di autonomia e scuole “efficaci”, ma esse rappresentano più l'eccezione che non la regola, e rischiano di peccare di autoreferenzialità. Il perno rimane ancora l'organizzazione dell'insegnamento piuttosto che il successo nell'apprendimento dei ragazzi.
Sembra mancare una decisa curvatura delle politiche scolastiche verso l'autonomia, a partire dalla riforma degli apparati amministrativi (che invece riscopre logiche gerarchiche) alla creazione di strutture di supporto ad una gestione più dinamica del personale. Anzi, le più recenti ipotesi di riforma degli assetti costituzionali potrebbero far pensare ad un ritorno di “centralismi” in chiave regionale (anche come potestà sulla quota “locale” del curricolo), a scapito dell'effettiva autonomia delle istituzioni scolastiche. Le scuole non dovrebbero essere “lasciate a se stesse”, bensì “affidate a se stesse”, concludono i ricercatori della LUISS.
Il futuro del tempo scuola
Le proposte della commissione Bertagna
Emerge, dai documenti che stanno alla base del nuovo processo di riforma, una diversa “filosofia” sociale, che intende, da un lato, delimitare il campo di intervento delle istituzioni formali nell'educazione delle giovani generazioni e, dall'altro, richiamare i genitori e gli altri soggetti “sociali” alle proprie responsabilità educative. Si teorizza un “curricolo educativo” (un percorso formativo) che si dispiega con tre diverse modalità:
famiglia e formazioni sociali dovrebbero sempre più “diventare risorsa culturale ed educativa per gli allievi” attraverso esperienze che la scuola si limiterebbe a “certificare”;
la scuola si impegna a “scavare in maniera riflessiva su esperienze, conoscenze e abilità” in una prospettiva critico/formativa” (e per questo viene individuato un tempo-base di 25 ore settimanali, di cui 5 dedicate al “curricolo locale”;
infine, la scuola – meglio se in rete e in rapporto con altre agenzie – può arricchire la propria offerta formativa (fino a 300 ore annuali) per sviluppare competenze, vocazioni, eccellenze in una logica di forte personalizzazione (e negoziazione educativa tra genitori e docenti).
Da queste premesse scaturisce nei documenti successivi (in particolare nelle bozze di “Indicazioni nazionali” per i Piani di studio della scuola dell'infanzia, primaria e secondaria di II grado, nell'apposito paragrafo intitolato “vincoli e risorse”) un nuovo modello di orario scolastico, che si assesta su una soglia-base di 900 ore annue obbligatorie (circa 27 ore settimanali) dedicata al core curriculum , cioè alle discipline fondamentali, con tempi interni variabili nel limite del 15%.
Una quota aggiuntiva di tempo (nella scuola primaria di 100 ore annue; nella scuola secondaria di 200 ore annue) può essere dedicata all'“arricchimento” o “ampliamento” del curricolo, ma viene demandata alla negoziazione con i ragazzi, le famiglie ed il territorio. Nel documento iniziale, a questa offerta formativa aggiuntiva era garantita una corrispondente copertura di organico di personale docente. Nelle ultime proposte si insiste invece su soluzioni più flessibili, ivi compresa la formula degli incarichi “esterni” a tempo parziale.
Resta il dubbio se un paniere così ricco di discipline formative (cui si aggiungono 6 educazioni trasversali), come quello che emerge dalle proposte di Indicazioni nazionali, sia compatibile con un complessivo contenimento del tempo-scuola obbligatorio. Anche la formula dei “laboratori”, che si vedrebbero assegnati tempi aggiuntivi e facoltativi, lascia aperti numerosi interrogativi circa il “senso” della diversità tra attività in classe e attività di laboratorio. Il tempo del laboratorio sembra inteso non come spazio di ricerca e di approfondimento, luogo delle metodologie interattive ma, di fatto, tempo dello svago, della ricreazione, delle libere attività complementari cui assegnare un ruolo marginale e secondario (con insegnanti ad hoc, non curricolari).
Per completare l'informazione va ricordato che i genitori, interpellati in occasione degli “Stati generali” della scuola (dicembre 2001), si espressero in termini negativi circa la nuova configurazione del tempo scuola (quota obbligatoria e quota facoltativa). Solo il 18,6 % dei genitori ha valutato positivamente l'ipotesi caldeggiata dalla Commissione di esperti [9] .
Tab. 4 – La nuova configurazione del tempo scuola. Tavola di comparazione degli orari settimanali.
Grado scolastico |
Tempo scolastico attuale |
Nuovo tempo obbligatorio |
Tempo facoltativo aggiuntivo |
Scuola dell'infanzia |
40 |
25-50 |
- |
Scuola primaria |
27-40 |
27 |
3 |
Scuola secondaria di I grado |
30-36 |
27 |
6 |
Fonti: Documenti Gruppo Ristretto di Lavoro (dicembre 2001).
Indicazioni nazionali allegate al DM 100/2002 (18 settembre 2002).
Schema di decreto legislativo attuativo della Legge 53/2003 (12 settembre 2003).
I tempi sono espressi in ore settimanali per comodità di comparazione, anche se nei documenti citati vengono presentati sotto forma di monte ore annuale.
Il tempo delle scelte
La domanda sull'attualità e sulle prospettive future del tempo scuola fa tutt'uno con le domande sul futuro della scuola nel suo insieme: è possibile, come ci ricorda l'OCSE, che una società sempre più attratta dallo sviluppo delle reti telematiche, da conoscenze disponibili in modo pervasivo, dalla possibilità di apprendere “ovunque e comunque”, sia tentata dall'idea di ridurre la presenza quantitativa della scuola nella società chiamata della conoscenza (anzi, dell'apprendimento).
Un malinteso concetto di sussidiarietà potrebbe far emergere una versione della descolarizzazione in chiave monetaristica. Una maggiore flessibilità del tempo scuola è forse oggi richiesta dalle mutate esigenze sociali, ma non giustifica l'eventuale riduzione di risorse (organici, finanziamenti, ecc.) per la scuola.
Così, in tutta Europa si assiste ad un movimento “difensivo” della scuola pubblica, come ammette la stessa OCSE: genitori, forze sociali e, soprattutto “addetti ai lavori” si aggrappano ai modelli esistenti di scuola, con tutto il loro carico di storia, di valori, di consenso, ma anche di convenienze, routine , abitudini.
Ma al di là di un “romanticismo pedagogico” che vagheggia il tempo pieno delle origine, è la stessa OCSE che ci potrebbe aiutare a riscoprire l'attualità del tempo pieno, quando rilancia alla scuola l'imperativo del “ripensare e ri-professionalizzare” i propri compiti, verso il duplice obiettivo di:
garantire accoglienza, tenuta sociale, confronto tra diverse culture, condivisione di regole, convivenza civile e, soprattutto,
assicurare competenze di base, sotto forma di una solida formazione al pensare, di gusto nell'affrontare i problemi, di creatività, di capacità meta- cognitiva.
Con questa piattaforma educativa si torna al punto di partenza, ai caratteri originari di un “buon” tempo scuola, al suo dispiegarsi tra vocazione all'accoglienza sociale e rigore nella proposta didattica.
Un tempo scuola “dalla parte” dei bambini
Al di là del pur necessario dibattito politico e sociale, il futuro del tempo scolastico deve misurarsi anche con inedite questioni pedagogiche. Qual è ad esempio, il rapporto dei bambini con i tempi della scuola?
Il tempo costituisce una risorsa fondamentale per lo sviluppo del curricolo -affermano gli Orientamenti del 1991, in corso di “rivisitazione” nel 2003 - quando affrontano il nodo del rapporto tra scuola dell'infanzia e tempo, e lo qualificano con una serie di enunciati assai impegnativi:
“ il tempo scolastico assume un'esplicita valenza pedagogica… il ritmo della giornata [deve] salvaguardare il benessere psicofisico…la percezione individuale del tempo… le scansioni temporali eviteranno le ripartizioni rigide … l'affaticamento… l'attenta considerazione dei tempi necessari…la diversa intensità di impegno… la corretta concertazione dei tempi ”.
Nelle ricerche sulla qualità della vita dei bambini nelle scuole dell'infanzia il “tempo” è una delle variabili che incidono direttamente sulla qualità dei contesti educativi. Anche nella scuola elementare e media, come abbiamo più volte ricordato, un tempo scuola più disteso è coerente con l'idea che l'insegnamento di una disciplina non possa vertere esclusivamente sui contenuti di conoscenza, ma debba anche favorire l'approccio a strategie, metodi, linguaggi che ne sostengono il processo di organizzazione.
I tempi di funzionamento della scuola, anzi i diversi tempi: del curricolo, dell'accoglienza, delle routine (e la loro integrazione) sono la spia di una buona organizzazione scolastica. Spesso però i bambini subiscono i tempi degli adulti:
- gli insegnanti hanno i loro tempi “contrattuali”, gli orari di servizio, le turnazioni, le scarse e casuali compresenze (o contemporaneità);
- i genitori hanno i loro tempi di vita e di lavoro, i tempi sociali, gli sposta- menti...
Non sempre i tempi e le esigenze degli adulti sono coerenti con i ritmi vitali ed i bisogni di relazioni intense dei bambini, con la qualità del progetto educativo. Il “tempo” può essere fonte di malessere. A volte, con il passare degli anni scolastici, sembra venir meno la voglia di tempo-scuola. Spesso i bambini che hanno frequentato il tempo pieno alle elementari non scelgono il tempo prolungato alla scuola media. Anche perché emerge una esigenza di organizzazione diversa dei tempi di vita e di scuola dei ragazzi. Chiediamoci se non sia necessario un tempo “scuola” diversamente configurato lungo l'intero arco della formazione di base. La pluralità dei luoghi educativi richiede forse una “centralità decentrata” della scuola, cioè una sua specificità nel “filtrare” le molteplici esperienze educative e cognitive dei ragazzi, per fornire ad essi la capacità soggettiva di gestire un percorso multiforme fatto ormai di una amalgama di “tempi formali e informali, di tempi istituzionali, di tempi organizzati non istituzionali e di tempi preter-intenzionali” [10] .
Questo ripensamento, nelle istituzioni scolastiche di base, potrebbe dar luogo ad una diversa prospettiva e “regia” dei tempi della scuola: da un tempo inizialmente più compatto e protettivo, nella scuola dell'infanzia e nelle prime classi elementari (un tempo morbido, disteso e integrato delle relazioni educative), ci si sposta verso un tempo che poi si struttura e si organizza con più libertà da parte dei singoli allievi (un tempo della esplorazione, della libertà, dei nuovi incontri).
Per la scuola dell'autonomia, che ha margini di scelta anche nella configurazione dell'offerta di tempo scuola, si tratta di una ricerca da sviluppare e approfondire, magari a partire dagli istituti comprensivi che potrebbero caratterizzarsi come un vero e proprio laboratorio anche per lo studio di un tempo scuola pur sempre “necessario”, ma “equo” per tutti: i bambini, i genitori, gli insegnanti.
Indicazioni bibliografiche
F. De Bartolomeis, La scuola a tempo pieno , Feltrinelli, Milano, 1972.
E. Damiano, Adro tempo pieno , La Scuola, Brescia, 1974.
S. Federici, Rho tempo pieno , La Scuola, Brescia, 1977.
L. Bellomo e S. Vegetti Finzi, Bambini a tempo pieno , Il Mulino,. Bologna, 1978.
Ministero della Pubblica Istruzione, La scuola elementare a tempo pieno , in “Studi e documenti degli Annali della P.I.”, nn. 13-14, Le Monnier, Firenze, 1980.
S. Neri, Il “tempo” scolastico , in B. Vertecchi (a cura di), Scuola elementare e nuovi programmi , La Nuova Italia, Firenze, 1982.
C. Pontecorvo, Educazione e scuola di fronte alle differenze di intelligenza , in AA.VV., Intelligenza e diversità , Loescher, Torino, 1981.
L. Guasti (a cura di), Modelli organizzativi e aree curricolari nel tempo pieno , Il Mulino, Bologna, 1982.
CENSIS, Tempo-scuola: quanto e come? , Franco Angeli, Milano, 1984.
E. Damiano, Il tempo per insegnare , IRRSAE Lombardia, 1992.
D. Ragazzini, Tempi di scuola e tempi di vita , B. Mondadori, Milano, 1997.
A. Bonora - P. Senni, Autonomia, flessibilità, scelta del curricolo , IRRSAE E-R, 1998.
Riferimenti normativi
Legge 24 settembre 1971, n. 820 (Attività integrative, insegnamenti speciali, avvio del tempo pieno nella scuola elementare).
Decreto Ministeriale 28 febbraio 1972 (Direttive di orientamento per la realizzazione del tempo pieno)
Legge 5 agosto 1977, n. 517 (Norme in materia di programmazione educativa e didat- tica, integrazione, valutazione)
Decreto Ministeriale 22 luglio 1983 (Introduzioni delle classi a tempo prolungato nella scuola media).
Legge 5 giugno 1990, n. 148 (Riforma degli ordinamenti della scuola elementare)
Circolare Ministeriale 22 marzo 1996, n. 116 (Orientamenti per l'organizzazione didattica nella scuola elementare).
Legge 18 dicembre 1997, n. 440 (Finanziamento per l'arricchimento dell'offerta formativa).
Decreto Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275 (Regolamento in materia di autonomia organizzativa e didattica).
Decreto Ministeriale 26 giugno 2000, n. 234 (Regolamento in materia di curricoli nell'autonomia delle istituzioni scolastiche).
Decreto Ministeriale 22 luglio 2003, n. 61 (Progetto nazionale di innovazioni nella scuola primaria).
[1] M. Baldacci, L'istruzione individualizzata , La Nuova Italia, Firenze, 1993.
[2] Per un commento a più voci di tali documenti si vedano i contributi pubblicati in: F. Frabboni, G. Cerini, M. Spinosi, Come cambia la scuola primaria , Tecnodid, Napoli, 2002.
[3] Una buona ricostruzione della vicenda della scuola a tempo pieno è rappresentata dal volume Censis, Tempo-scuola: quanto e come ?, Angeli, Milano, 1984, in cui si presentano anche gli esiti di ricerche qualitative sugli esiti dell'apprendimento degli allievi frequentanti classi a tempo pieno.
[4] Ministero Pubblica Istruzione, Rapporto sull'attuazione della riforma della scuola elementare , Roma, 1996. Cfr. anche: F. Frabboni - G. Cerini, Sui sentieri della riforma. Didattica e organiz- zazione nella scuola elementare , La Nuova Italia, Firenze, 1993.
[7] Osservatorio sulla scuola dell'autonomia, Rapporto sulla scuola dell'autonomia 2003 , LUISS University Press-Armando, Roma, 2003.
[8] G. C. De Martin, L'autonomia delle scuole: riforma da prendere sul serio , in Osservatorio, op. cit .
[9] cfr. Annali dell'Istruzione, Stati generali 2001 , Le Monnier, 1-2, 2001: cap. V – Piani di studio, Tavola 5.7 – pag. 218 - “Suddivisione dell'orario scolastico settimanale in 25 ore obbligatorie e in 10 ore facoltative”.
[10] D. Ragazzini, Tempi di scuola e tempi di vita, edizioni Bruno Mondadori, Milano, 1997.