Quando entriamo in aula, ci troviamo gli sguardi puntati addosso: sono quelli di bambine e bambini che prima di tutto desiderano intensamente entrare in contatto con noi. Obiettivo della scuola di domani : entrare in contatto. Come? Utilizzando il tempo come una risorsa, l'attesa come uno strumento, la costanza e determinazione come un rinforzo all'attesa. I "nostri" bambini sono, diversamente da quel che si dice, in costante difficoltà d'apprendimento, difficoltà non a loro intrinseca, bensì semplicemente indotta dal mondo esterno che ha sempre fretta. L'apprendimento è invece una strana dimensione che raramente va d'accordo con quelle dello spazio e del tempo che vengono a essa concesse. Per cui, al di là e al di qua delle persone che entrano in rapporto di relazione con gli "apprendisti", spazio e tempo vanno assolutamente ripensati prima ancora della riflessione sul cosa insegnare, ma strettamente correlati al come farlo e con chi. Prendiamo lo spazio : è impensabile "accontentarsi" degli edifici in cui abiteranno le generazioni di bambine e bambini con cui dovremo rapportarci nel futuro. Gli attuali sono edifici pensati per la relazione "alto-basso", non certamente per quella che si vorrebbe, cioè quella della condivisione e della costruzione autonoma con gli insegnanti tutti tutori e non ripetitori di vuote formule. Sono aule quadrate e squadrate per una "relazione inquadrata", non consentono il movimento, gli spostamenti, i cambiamenti di fronte, le modifiche.Noi poniamo rimedi ai limiti, ma sono rimedi da Paese che dell'istruzione ha ancora una considerazione presso allo zero, che della scuola ha ancora una visione miracolistica (che pure i miracoli si fanno, ma sono pur sempre miracoli, non obiettivi raggiunti in modo logico e organizzato). Le aule, dette laboratori, sono semplicemente stanze aggiustate, "riverniciate", imbiancate (non sempre) per fare anch'esse miracoli. I corridoi risuonano di passi sperduti, quando non perduti, di maestre e bambini alla ricerca di un angolo per ritrovarsi e scambiare insieme quattro parole con un qualche significato. La scuola sognata per il domani dovrebbe essere quella dello spazio e degli arredi pensati per entrare in contatto, per parlare dialogando, per scoprire con le esperienze e gli esperimenti i concetti che stanno alla base di un qualsivoglia sapere, dovrebbe essere la scuola biblioteca, la scuola multimediale, la scuola orto, la scuola giardino, la scuola palestra, la scuola delle scoperte autonome sapientemente guidate e controllate sì, ma "da lontano".edifici che rispondano a tale scuola costano; tuttavia sono essenziali nella società della conoscenza: non si può pensare di innovare senza dare, anzi magari sottraendo risorse in termini di personale docente e non docente, elevando il numero di alunne/i per classe, inserendo bambini stranieri basandosi soltanto sulla buona volontà dei docenti, delle scuole "autonome" e delle risorse dei municipi, fingendo di non "vedere" l'handicap o qualsivoglia disagio. Prendiamo il tempo : Vorrei citare alcuni brani significativi di persone che la scuola la fanno: ". si libera tempo anche sfrondando il cumula di materie e progetti speciali, o pensando a un'organizzazione non incentrata in modo esclusivo sulle discipline ma piuttosto sui loro nessi. Mi piacerebbe insomma che
si avesse in mente un modello di libera comunità che cerca il sapere, piuttosto che un'istituzione totale a cui i soggetti devono adeguarsi.
Detto ciò, non penso nemmeno che ci si debba rassegnare attendendo un futuro migliore. Dalla situazione data si può sprigionare il massimo di libertà e di senso possibili, se assumiamo il fatto di vivere, come insegnanti, in una zona intermedia, di confine, il che è un limite ma può diventare una risorsa.
Noi siamo infatti nella zona in cui convivono faticosamente istituzione - con tutte le sue regole - e impegno magistrale, tempo lineare della selezione e tempo imprevedibile e frastagliato dell'accostamento al sapere, sistema premiale di voti e tentativi di favorire un apprendimento disinteressato e gratuito. E poi siamo noi stesse figure miste, non puramente intellettuali ma neppure, per quanta la cornice ci condizioni pesantemente, esecutrici/tori piatti del pensato e deciso altrove. È proprio la nostra "impurità" che ci rende possibile la ricerca e la trasformazione: non c'è per noi appagamento, ma tensione, anche fatica, nel tenere insieme, connettere, risignificare costantemente la realtà necessaria" con tratti di pesantezza e opacità, in cui siamo immerse. È questo che ci mette in movimento. Non sto predicando l'adattamento "creativo" all'infelicità; perché poi ci sono dei no chiari, che vanno comunque detti, una resistenza civile fondatrice di valori condivisi che va continuata, trasformazioni istituzionali da perseguire. Però, nel presente, parte della nostra maestria sta nel fare sprizzare scintille dall'attrito fra le diverse realtà che attraversiamo. .Rallentando, accelerando, introducendo pause, accogliendo deviazioni che non si erano messe in conto, ci si avvicina all'idea di un tempo altro, che confligge e deborda dalle strette maglie istituzionali.(Marina Di Bartolomeo in "Il tempo regolamentato") e ancora:." Abbiamo sempre avuto attenzione al kairos, al tempo debito, pensavamo andasse insegnato ai bambini. Inizio e fine, tempi divisi necessari a poter raccontare le esperienze e a farne memoria collettiva. Ma non siamo riusciti a proteggere i bambini da quello che lo scrittore danese Høeg, in uno spettacolare romanzo di formazione, chiama il complotto adulto sul tempo. Tra l'altro un aspetto paradossale, di cui poco si parla, è come i giovani, educati ai tempi rigidi e opachi della scuola, stiano riprendendosi il tempo attraverso le esperienze più estreme. Penso ai rave parties, alla musica hip-hop, molto banalmente al consumo di droghe: durate non valutabili con gli strumenti socialmente a disposizione, sospensioni della routine e del rapporto veglia-sonno, inconcepibili con i "vecchi" tempi della produzione. Gestione di un tempo libero-liberato, di cui niente sappiamo, e che rischia di renderci osservatori timorosi e bigotti, educatori e maestri posti di fronte allo scacco del proprio progetto formativo." (Renata Puleo* in Il tempo dell'esperienza) * Renata Puleo, direttrice didattica, è attiva nel Movimento dell'Autoriforma e nell'associazione "Il bambino e l'acqua sporca". E ancora: "La scuola pubblica -finché regge- è ancora il luogo di incontro di diversi mentre i bambini hanno questo problema di non aver più luoghi di incontri diversi; quindi tempi di apprendimento, ma anche tempi di vita, tempi per la relazione, che sono tempi lenti, tempi lunghi, ma che se non li ricostruiamo, se non ce ne appropriamo all'interno della scuola noi perdiamo il senso, o almeno una parte del senso, della scuola. Tempi della relazione e non dell'efficientismo, la relazione intesa come 'addomesticamento'- (anch'io voglio citare 'Il piccolo principe')- come avvicinamento lento: la volpe dice al piccolo principe ' addomesticami perché io possa diventare tuo amico, dammi il tempo, dammi il ritmo del tuo arrivo; non dirmi vengo domani, dimmi vengo domani alle cinque, così io dalle quattro comincio ad aspettarti'.
I tempi della relazione sono i tempi dell'avvicinamento lento; i tempi di certi tipi di handicap sono a volte i veri tempi 'altri', pensiamo ad esempio a bambini autistici, per relazionarci con questi dobbiamo entrare in un altro tempo, che non è né quello occidentale , né quello adulto, né quello bambino, è un altro.
Parlare del tempo, capirne la natura equivale a interrogarsi su quale scuola vogliamo; tema centrale è quale sia il tempo necessario per la scuola che vogliamo e quindi operare, pretendere che intorno ai tempi della scuola, sia quelli della politica scolastica che quelli della gestione quotidiana della scuola ci siano delle scelte responsabili: non dettate da propaganda elettorale, non improntate da sciatteria e da approssimazione, non solo centrate sull'oggi, ma scelte che abbiano uno sguardo lungo- Non mi sembra che siamo in queste condizioni oggi. Vorrei concludere su queste scelte lunghe, ancora comunque possibili, con una brevissima citazione dal libro di uno dei massimi studiosi del tema del tempo, Rifkin in "Guerre del tempo", scrive: "un capo irochese si esprime così: noi guardiamo avanti perché uno dei primi mandati assegnati a noi che siamo i capi è di garantire che ogni decisione da noi presa tenga conto della prosperità e del benessere della settima generazione a venire e questo è il fondamento delle nostre decisioni in assemblea. Ci chiediamo: la nostra decisione andrà a beneficio della settima generazione? Questa è la nostra regola" Io vorrei che prossimamente si affacciasse alla ribalta della scuola italiana un sistema di scelte che andasse a beneficio della settima generazione." (Dirigente scolastica Adriana Querzé in La scuola: crocevia di tempi diversi) E' impensabile "accontentarsi" di tempi come quelli del 27+3+10 o di orari tutti antimeridiani, o di uno o due rientri pomeridiani tirati per i capelli, orari dentro cui la scuola dovrebbe per legge garantire il successo formativo facendo raggiungere gli obiettivi fondamenta per quelli futuri.. E non è vero, come si va affermando in convegni e scritti, che le agenzie formative esterne possano sostituire (neppure in parte) la scuola pubblica nel garantire apprendimenti base per il futuro di persone consapevoli di cosa significa apprendere. Le cosiddette agenzie del territorio sono appunto agenzie, non scuola di apprendimenti organizzati dentro una rete di relazioni "d'amore e di conflitto". Esse possono diventare completamento personale di qualcuno, ma non sono scuola di tutti e non sono scuola. La musica appresa all'esterno è musica, non strumento che veicola apprendimenti in molteplici ambiti: dal linguaggio alla matematica alla poesia alla espressione di vissuti. Lo sport fuori dalla scuola è sport, non educazione motoria tramite per apprendere a leggere e a scrivere, inventare fiabe, raccontare di sé, relazionarsi con i pari in un ambiente strutturato per lo scambio di vedute sugli apprendimenti in via di costruzione. L'arte è arte, non educazione all' immagine, base per l'osservazione, la rielaborazione personale di sensazioni, riflessioni sul "visto", sul "percepito". e via dicendo. La scuola di base, scuola "dell'incontro", deve essere scuola che eventualmente avvia il processo di fruizione consapevole delle agenzie esterne frequentate da bambine e bambini! Essa deve poter godere di un tempo dilatato affinché ognuna/o possa sentirsi parte di un tutto che apprende ciò che sta alla base dell'organizzazione del pensiero, dell'osservazione meditata, della appropriazione del linguaggio, delle strategie occorrenti per saperlo costruire e scegliere nel presente, in direzione di un suo uso consapevole nel futuro. La scuola dell'autonomia deve poter stringere liberamente un patto con le famiglie affinché si possano scegliere insieme i tempi e i contenuti adatti alle esigenze di bambine e bambini in situazione di apprendimento, ma tale autonomia non dovrebbe essere in alcun modo condizionata e vincolata. Ogni scuola dovrebbe poter fare proposte diversificate connotandosi come laboratorio di ricerca e idee da poter confrontare con altre di diversa impostazione. Ora prendiamo il come insegnare: indubbiamente, questo è il problema più scottante. ricette a priori non ce ne sono; tuttavia le esperienze in atto in numerose scuole che hanno adottato strategie di apprendimento cooperativo dimostrano giornalmente che è in questa direzione che si dovrebbe proseguire, perché bambine e bambini mostrano di gradire e di impegnarsi in toto quando vengono messi nella condizione di poter lavorare con i pari, purché la conduzione della classe sia altamente organizzata, ordinata, regolata con estremo rigore, senza pressappochismo, purché gli stimoli del docente siano sempre accattivanti e significativi. Anche il momento della valutazione e dell'autovalutazione dovrebbe diventare consuetudine giornaliera al termine di ogni attività. Ciò presuppone il tempo dell'ascolto di gruppi, coppie, singoli che hanno prodotto un qualsivoglia risultato.valutazione e autovalutazione dovrebbero essere uno strumento nelle mani stesse dei bambini che dovrebbero essere semplicemente indirizzati a notare tutto il positivo che emerge, prima ancora del negativo, sia dal proprio lavoro sia da quello altrui. Anche nella lingua orale, non soltanto nelle esercitazioni scritte, la valutazione può diventare una preziosa alleata per motivare l'ascolto di ciò che l'altro racconta, enuncia, espone.Organizzare la classe in modo che chi parla sappia che ha la responsabilità di farsi capire affinché gli altri possano apprendere, criticare, consigliare, valutare, è stimolo alla crescita del linguaggio e alla strutturazione consapevole del messaggio che si vuole comunicare. Dare a chi ascolta la responsabilità dell'ascolto affinché possa commentare, suggerire miglioramenti per l'espressione, valutare in modo circostanziato il messaggio ricevuto da chi ha parlato, è fonte di innalzamento dell'attenzione di tutto ciò che viene detto da parte di uno e di tutti, in una continua rete di relazioni linguistiche tese alla comunicazione efficace. Ora prendiamo il chi dovrebbe insegnare: non si crede che il tutor sia la panacea per i mali della scuola. Anzi, attorno a ogni alunno dovrebbero trovarsi più persone disposte a collaborare alla pari cogliendo la sfida della società della conoscenza, persone altamente motivate dalla convinzione che la relazione precede l'apprendimento, le discipline, il sapere; dalla convinzione che l'avere una laurea, una specializzazione, gli aggiornamenti é condizione indispensabile ma non l'unica condizione; persone motivate dalla volontà di "innamorarsi" dell'altro chiunque sia, qualsiasi siano le basi da cui parte e da una estrema elasticità nell'ascolto del patrimonio di "culture educative" (e non solo educative) delle diverse famiglie, nella consapevolezza che nel lavoro a scuola il soggettivo "domina" l'oggettivo sia nelle scelte didattiche, sia nell'insegnamento, sia nella collaborazione con le colleghe e i colleghi, sia nella valutazione, quindi ogni mossa a causa di tale dominanza è giusto condividerla, discuterla, giudicarla senza escludere gli altrui punti di vista. Persone che non temano l'"errore", che lo considerino una risorsa per affrontare costantemente una revisione autonoma, ragionata, riflessiva del proprio modo di insegnare e di apprendere, che anzi lo elevino al rango di centro del rapporto imparante/insegnante. Una pedagogia dell'errore unita alla dimensione conversazionale dei rapporti (v. http://www.edscuola.it/archivio/ped/pedagogia_conversazionale.htm ) è oggi necessaria per far sì che non si parli più soltanto di integrazione, bensì di uguaglianza nella dimensione educativa e di istruzione. Ora prendiamo il cosa insegnare: sicuramente questo sarà fonte di dibattito nel futuro della scuola di base col chiedersi se sia giusto dare un'infarinatura di tutto. aggiungendo al già corposo elenco di materie, chiamiamole tradizionali, altre "indicazioni" fin dalla prima e tutto ciò che "non si sa mai possa servire"! Ci si dovrà chiedere se abbia un senso in quello scarso tempo che abbiamo a disposizione. Siamo sicuri che "aggiungendo" (se pure nel modo più trasversale possibile) materie, educazioni, si possano dare basi a tutti, basi per ciò che riguarda una capacità discreta di comunicare oralmente idee e vissuti, un arricchimento lessicale riutilizzabile in diversi contesti, una buona comprensione della lettura e della scrittura, anche dei testi dei problemi, una velocità adeguata nelle strategie di calcolo, un sapere della storia e della geografia di tipo laboratoriale; musica, ginnastica, immagine come veicoli di espressione e fruizione? Siamo sicuri che il voler a tutti costi "aggiungere" per forza sia garanzia di apprendimenti di base mirati e solidi? Quale il tempo per la lingua in funzione estetica, per la riflessione lenta e guidata sui testi, quale quello per il piacere della lettura, per la rappresentazione creativa, grafica e scritta, per una grammatica costruita partendo dalla riflessione sul testo, per la narrazione in storia, per la ricerca in geografia, per l'uso delle mani come strumenti di apprendimento che passa dal concreto all'astratto. Si è criticata la scuola delle fotocopie e dei quaderni in numero crescente, ora non si vorrebbe la scuola degli "spezzatini di attimi" imposti dal crescente n° di materie e pretese (per quanto esse possano venire ridimensionate dai docenti nella pratica quotidiana, sempre pretese rischiano di divenire per i bambini!). Perché non arrivare a una scuola che autonomamente sceglie percorsi, indirizzati alla costruzione di basi per "linguaggi" "(dal linguistico allo scientifico.) articolati e densi di senso, obbligatori per tutti. Bella sarebbe una scuola del progettare, del giocare all'attacco, non in difesa, con proposte che tengano conto della memoria, delle buone pratiche; è indispensabile come afferma, tra le altre cose, il Professor Canevaro in "Cosa vuol dire insegnare" del 30 settembre 2004, giungere: " al traguardo con tutti
Questo è una forma di insegnamento, resa possibile dalla "stabilità" della scuola. Questo è ciò che si rischia di distruggere con la precarizzazione del lavoro, che rende impossibili percorsi duraturi di buone pratiche - un processo in cui tutto rischia di ridursi a "una continua somma di eccezioni".
E questo è quel che si "vuole" distruggere, togliendo alla nostra coscienza professionale l'idea che, al traguardo, è necessario che arrivino tutti." " progettare
i ricordi, le storie, le memorie, e la riflessione teorica: tutto ciò mostra che nel nostro lavoro sarebbe innaturale "giocare in difesa". È molto meglio giocare in attacco, per progetti. Non pensiamo tanto a difenderci - in fondo anche questa riforma potrebbe essere un venticello destinato a lasciare poche tracce. Pensiamo piuttosto a progettare." (in http://www.iger.org/voci_mat_voci.htm#canevaro ).
Claudia Fanti
3 novembre 2004