Ciao Amici pedagogisti, maestri/e di un passato che ormai pare veramente irraggiungibile per vette e utopie. Sono una delle maestre che vi ha letto e riletto, studiato con passione, sono una di quelle che ancora non può (per legge), non deve e non vuole arrendersi per onorare l'impegno verso i piccoli.
Siamo entrate nella scuola dopo la morte di Don Milani, dopo aver letto "Lettera a una professoressa" e abbiamo creduto nel tempo pieno, successivamente nei moduli, abbiamo tenuto insieme inclusione e istruzione, abbiamo sentito il polso della società cambiare battito sotto le nostre mani, quindi abbiamo adeguato strumenti e metodologie, abbiamo studiato sistemi di valutazione di diversa tipologia, applicato riforme e subito controriforme, abbiamo sentito dire di tutto, e il contrario di tutto, un ministro dopo l'altro; ora assistiamo esterrefatte alla disgregazione, all'umiliazione di una scuola che aveva raggiunto un certo equilibrio tra diverse tendenze fiorite negli anni dal '68 in avanti; abbiamo superato gli individualismi della maestra unica aggiornandoci e imparando a lavorare in equipe e... poi dopo avere "cresciuto" schiere di bambini, scritto faldoni di relazioni, compilato documenti di ogni tipo, dopo aver affrontato il passaggio al digitale perfino senza pc, ci siamo viste portar via da sotto il naso la nostra bella costruzione di una scuola inclusiva e al tempo stesso attenta a offrire il massimo sul piano culturale.
A questo punto, che fare?
Osservo adesso, come sempre, ogni ciclo, bambini e bambine intenti a lavorare con la matita stretta in mano nel modo corretto: è costato loro un impegno pari a quello di uno scalatore: li ho visti letteralmente sudare, agitarsi, grattarsi la testa. Li ho visti stremati, li ho sentiti borbottare, consultarsi. Qualcuno ha dato in escandescenze e si è buscato pure dei bei rimproveri. Mi sono intenerita ad ascoltarli mentre compitavano (ora si usa dire spelling, all'inglese, che fa molto chic), a vederli sporgere gli occhi fuori dalle orbite per individuare lettere ponte. Mi sono commossa a constatare il loro impegno mentre illustravano esperienze, scrivevano le prime frasi e le rileggevano stupiti di non trovarci né capo né coda o quando aiutavano il compagno di coppia a superare una difficoltà a testa bassa indicandogli un grafema o un'illustrazione...e intanto, mentre li guardavo e ascoltavo, ho sempre pensato nel corso di questo difficile anno raccontatoci dai media in tutte le sue terribili sfaccettature, che coloro i quali hanno deciso le politiche scolastiche in Italia non si meritano neppure una goccia del loro sudore: non è retorica, sudano veramente! Poi è chiaro si scalmanano, ne combinano di tutti i colori e alcuni portano in sé i segni del mondo, eppure sono serissimi nel loro impegno dedicato al sapere. No, decisamente i ministri non si meritano i nostri alunni e le nostre alunne e non si meritano neppure noi.
La confusione della scuola e nella scuola è grande.
Mai ho conosciuto un'epoca tanto assurda, infarcita di pregiudizi, di pressappochismi culturali, valutativi, organizzativi.
Il tempo scorre tra noi, sopra di noi e dentro di noi, nelle bambine e nei bambini, nelle loro famiglie giovani e spesso angustiate da problemi più grandi di loro. Sì perché vivere oggi, nella precarietà, avendo assaporato il benessere senza poterne poi usufruire, riconoscendolo nei pochi che ne godono, non deve essere per nulla facile. Il consumismo suggerito, veicolato, osannato dai media e dai politici si unisce, dando vita a una miscela esplosiva, alla povertà, allo sbandamento valoriale, a educazioni ricevute durante l'infanzia fatte di no-sì-ni, ai modelli genitoriali del passato, in contrasto con quelli rappresentati come vincenti.
L'individualismo, spinto a divenire unico modello da inseguire da esempi competitivi, rampanti, di successo, viene al contempo a essere frustrato dalla quotidianità, nella quale il lavoro non è praticamente mai adeguato ai desideri e alle vocazioni, per la qual cosa la sofferenza, del singolo e della famiglia composta da un'addizione di singoli in stato d'ansia, si esprime o in rassegnazione o in sottovalutazione e sfiducia nel proprio ruolo genitoriale. Le insicurezze, i sensi di colpa e di inadeguatezza vengono espressi in tanti modi e in tante forme, dai più sommessi a quelli aggressivi, a quelli che vedono genitori colpevolizzare le famiglie degli altri e i figli degli altri.
La paura della verità sulla propria condizione di svuotamento di certezze è prima di tutto proprio della scuola che non ha più la forza interna di prendere in mano il suo irrinunciabile ruolo di dispensatrice di basi dell'istruzione-educazione. L'istruzione, quella che offre con meticolosa fatica gli strumenti fondamentali per accedere alla lettura, alla scrittura, come mezzi per prendere coscienza e accedere al sapere, alla comprensione dei testi, di tutti i tipi di testo, e dell'oralità degli altri, sembra non essere più tenuta in grande considerazione né dai collegi dei docenti, né dagli esperti, né dagli opinionisti, se non per amplificare la portata di un unico momento dell'anno, l'evento delle prove nazionali di valutazione (Invalsi). Prima e dopo, il diluvio Invalsi, il nulla. Prima tutti in silenzio a perorare il dispendio di tempo e fatica in altra direzioni e proposte che nulla hanno a che fare con il riconoscere che per raggiungere gli obiettivi di una scuola statale che includa tutti e tutte occorre la fatica del cesello, della pazienza, del lavorare sulle piccole cose come l'ortografia, il contare, il manipolare, il disegnare, il dipingere, il recitare...quotidianamente, senza strappi, senza effetti speciali (tanto amati dalla nostra epoca) senza finire su quotidiani e tv. Quella fatica che si fa, anche divertendosi, ma non solo, non vale, non fa audience, quindi non c'è. Ebbene, se si vuole abbattere la bestia nera della dispersione, gli insegnanti dovrebbero ritornare ad avere il ruolo che spetta loro, quello di insegnare giorno per giorno la pazienza della costruzione lenta e cocciuta dell'approccio al sapere e ai saperi. I primi a doverne essere consapevoli dovrebbero essere proprio le maestre e i maestri e dovrebbero affrettarsi a ritrovare e a riappropriarsi del senso della propria funzione determinante in questa epoca di precarietà diffusa. Il loro ruolo di istruttori/mediatori/educatori è fondamentale e insostituibile, ma è un ruolo da riconquistare riprendendosi in mano le redini della propria professione, dei propri studi, dei propri ideali. Se si è persone senza utopia, meglio scegliere qualcosa di diverso dall'insegnamento, il quale offre ben pochi riconoscimenti esterni. Il lavoro dell'insegnante-insegnante è fatto tutto di soddisfazioni interne alla coppia discente/docente e a quella con le classi su cui si opera. E i rapporti sono il sale della professione. Studiare i rapporti, soffermarsi su di essi, analizzarli ogni istante e ogni giorno è il segreto della riuscita, Non è facile, è un continuo lavoro su se stessi e sull'altro/a e su tutto ciò che lo circonda: ambiente, interessi, parenti, affetti, emozioni, stato di salute...
Entrare in aula con l'idea che si verrà continuamente spiazzati e che tale spiazzamento va accolto e poi gestito per educare se stessi con gli altri e le altre che si incontrano è l'unico modo per fare istruzione efficace e insieme educazione al superamento dei conflitti e delle "depressioni" in senso lato. E' l'unico modo per potere costruire sane relazioni non soltanto con gli alunni e le alunne, bensì proprio con le loro famiglie in attesa di trovare risposte al loro difficile compito di genitori, di comprendere i motivi di tanti atteggiamenti "strani" e apparentemente "insondabili" dei figli e delle figlie.
Claudia Fanti - 16-05-2014