Descrivere tempi, modi, ritmi della vita in masseria è cosa non
facile, data la scarsità di documenti. Quello che si conosce è frutto
di deduzioni derivanti dai "libri ti li cunti"
della masseria, dove si annotavano acquisti e giornate pagate ai
lavoratori, o da atti notarili che elencano minuziosamente ciò che
passava di proprietà; così dagli attrezzi si risale alle attività
ad esse connesse. Per il resto si deve ricorrere alla tradizione
orale, alla memoria, ai ricordi comuni.
Vissuta dal di dentro, immedesimandosi nelle persone che la abitavano
e la facevano vivere, la masseria rischia di perdere un po’ del
suo fascino. La vita al suo interno è molto dura, monotona, stritolata
da un ritmo quotidiano oggi impensabile, senza mutamenti; scandita
dal rapporto costante con le esigenze dei campi, degli animali,
dal succedersi delle stagioni non favorevoli ad una agricoltura
del tutto dipendente al clima, che legava ad una situazione comune
massari, braccianti,
pastori.
Quanta fatica è costata e costa la Puglia ai suoi abitanti lo sapeva
Orazio, che la definiva"siticulosa" (sitibonda), detto
di chi è permanentemente assetata e si deve affidare alla piovosità
per avere pozzi pieni d’acqua, con cui abbeverare uomini, bestie,
campi.
Lo sapeva Cesare, che lamentava la presenza continua e fastidiosa
dello "scirocco" (atabulus), pericoloso perché fiaccava
le persone e perciò anche i suoi soldati in transito da Brindisi
verso l’oriente, nella guerra contro Pompeo. Ma "quidquid arat
impiger apulus" diceva Orazio, ammirando la laboriosità del
contadino pugliese, che ogni giorno, instancabile, sfidava clima
e stagioni, per vincere gli svantaggi di questa terra e renderla
come dice Marrone, "tota pomarium", tutta un frutteto.
Tanta fatica per tutti, quindi, pastori,
braccianti,
massaro.
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