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Non so se il mio lavoro sia una missione, una professione, un mestiere. Credo che sia l'insieme di tutte e tre le cose. Ho la sensazione che a mano a mano che si invecchia divenga sempre più una missione.forse perché si intuisce quanto sia importante non essere "soli", non lasciare che nessuno sia "solo" nel rapporto con la realtà, nella quotidianità, nella giungla di notizie, messaggi, cronache, stimoli., una missione supportata dalla consapevolezza che non si possono trovare risoluzioni strategiche che vadano bene per tutte/i, che si è al servizio di., che le nostre capacità, la nostra esperienza, le nostre conoscenze.ci possono servire, ma non devono indurci a pensare di non essere rivedibili. Da un certo punto di vista è vero che rispettare l'alunna e l'alunno come persone è importante. Sicuramente lo è. Ma non basta proprio. Anche insegnanti molto "rispettose/i" dell'altra/o possono non essere efficaci, nonostante dedichino tutto il loro tempo alla scuola. Insegnare per lasciare il segno, per stimolare ad apprendere anche in situazioni eventualmente negative (cioè sempre e nonostante tutto!), per fare in modo che chi è più giovane di noi sappia diventare autonoma/o anche senza di noi, non è indubbiamente un'opera facile. Ritengo che non bastino il rispetto e neppure la stima. "Comunicare con l'anima" è difficile ovunque: in famiglia, in compagnia di amici, nell'associazionismo, in gruppi di persone che ci siamo scelti, che ci conoscono e conoscono il nostro modo di gestire, di sorridere, di arrabbiarci, di chiuderci e aprirci. Insomma, noi crediamo di essere trasparenti nella comunicazione mentre la attuiamo, ma sovente, invece, siamo completamente opachi.Allora? Allora è necessario imparare anche l'arte del comunicare la nostra stima e il nostro rispetto.ed è un'impresa non da poco, visto che le cronache sono dense di avvenimenti, addirittura tragici, nati da disturbi della comunicazione! Inoltre, insegnare a tutte/i, ma proprio a tutte/i, offrire solide basi per le conoscenze su cui costruire il futuro, a un numero alto, possibilmente vicino al cento per cento, di persone, richiede un'abilità non da poco: quella di saper utilizzare le proprie competenze relazionali, didattiche, metodologiche.in modo assolutamente duttile e creativo, senza dire mai "questo successo lo metto da parte per riutilizzarne il percorso che mi ha permesso di conseguirlo", senza dire mai "ho fatto tutto ciò che ho potuto" (non è facile! Altro che un mestiere!). Entrare ogni mattina in aula con una buona disponibilità è sicuramente fondamentale, così come l'essersi preparati, ma indubbiamente vale fino a un certo punto, se non si posseggono doti di pazienza, capacità di attesa, di flessibilità nella disponibilità a modificare i propri piani, progetti.Si può andare in tilt per poco, quindi ogni insegnante dovrebbe sapere quali sono i propri punti deboli senza temerli e senza colpevolizzarsi (anche il "non colpevolizzarsi" è un'arte che si "impara" con grande difficoltà: molte insegnanti-donne sanno benissimo quanto sia difficile! E quanto incida negativamente nei rapporti umani il sentirsi vittima o colpevole fin da bambine), proprio per saperli gestire in modo vincente, "voltandoli" al meglio, rendendoli quasi "virtù pedagogiche".cioè facendone partecipi le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi, collocandosi, quando occorre, "nell'angolo delle scope" insieme con loro, le/i quali sanno benissimo, vista la loro situazione di chi sta cominciando, per età, a "indagare" su di sé, quante e quali siano le pulsioni "umanissime"da dominare correggere!. Poi, a parte il sé dell'insegnante in relazione con., c'è la questione, per me vero punto di forza di un "buon insegnamento", del far "vivere" le lezioni in modo dialogico fra i diversi "sé" delle alunne e degli alunni con la collaborazione dell'insegnante. Saper gestire, organizzare tale "dialogicità" non è immediato, va appreso con lo studio e l'aggiornamento continuo, eppure è la base da cui partire per qualsiasi apprendimento.Non temere la confusione della circolazione di idee, non stoppare gli eventuali errori, o, peggio, prevenirli sono "azioni pedagogiche" di vitale importanza e decisive per "attaccare" una visione "verticale" dei rapporti umani, per sconfiggere il disimpegno, le difficoltà d'apprendimento, addirittura per "ricucire" gli "strappi" procurati alle persone da digrafie, dislessie. trascurate, per tenere le classi in continua "fibrillazione" intellettuale, "apprenditiva", in continua ansia positiva del voler tornare il giorno dopo in classe, a misurarsi con quelle e con quei compagne/i con cui il giorno prima si è iniziato un lavoro, per apprendere, nel confronto, a volte scontro, costruttivo di ipotesi. Insomma, per non tenerla troppo lunga, bisognerebbe dare più spazio alle alunne e agli alunni, farle/i sudare intorno alle ipotesi di procedimenti e di soluzioni dei problemi, facendole/i misurare continuamente con la loro intelligenza al lavoro, in movimento.non temendo di perdere noi la "centralità", perché comunque è una falsa centralità quella dell'insegnante che disquisisce, anche se con tanto amore, anche se su nobili argomenti.L'insegnante-centro della lezione, solitamente, "perde" proprio quelli che "ama" di più, quelli che "hanno più bisogno".E a questo punto, bisognerebbe aprire il discorso sul"linguaggio", sulla "parola", che, quando sono l'unica modalità di spiegazione di concetti, di contenuti, di narrazione., diventano frustranti per docenti (che si sentono, ovviamente, incompresi) e alunne/i che non li capiscono o, peggio, li travisano completamente.
Claudia Fanti 4 gennaio 2003 |
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